sabato 31 dicembre 2011

A chi per amore, per curiosità, per conoscenza
incrocia righe e versi auguro buon 2012.
Continuiamo a tenerci abbarbicati ai nostri fili d'erba.
Con affetto per tutte e tutti, Paolo.

giovedì 29 dicembre 2011

La crisi in corso è troppo grande perché si possa ignorarla, anche da questo blog, che amerebbe scrivere solo versi e righe intorno alla poesia.
Della manovra governativa si possono dire due cose.
La prima riguarda il fatto che gli attori di essa sono legati mani e piedi al sistema e quindi le misure che adottano sono sempre quelle, al di là di qualche illusoria invenzione creativa che incide poco o niente.
La seconda riguarda il fatto che queste misure sono per loro natura organizzate per far pagare la crisi ai più deboli.
Non ci si deve poi dimenticare che tutta Europa è governata dalle destre che mettono sul conto anche piazze tumultuanti che darebbero ragione di una sterzata ancora più a destra. Vero è che l'Italia non ha una tradizione militarista ma non è che i Bava Beccaris e i governi Tambroni siano di mille anni fa.
Le uniche proposte serie e capaci di fare uscire dalla crisi sono inattuabili dalle attuali forze politiche. Non è vero che non ce ne siano. Ormai, rispetto a sei mesi fa, quando di questa crisi totale in arrivo parlavano solo esperti e acuti commentatori, la maggioranza della popolazione credo abbia capito che se ne esce solo con misure che intacchino beni e rendite dei più ricchi. Misure che, per quanto fossero contenute, farebbero gridare subito contro il bolscevismo.
Può essere che la parte più democratica della popolazione scenda davvero in piazza e che dobbiamo assistere a scontri sanguinosi. Ai tempi di Bava Beccaris c'era il partito socialista che guidava la protesta. Nel 1960 di Tambroni c'era il partito comunista. Quei partiti insieme ad altre forze politiche, con la loro capacità di mediazione e di rappresentanza, furono in grado di evitare che a quelle stragi ne seguissero altre e il movimento di massa e di protesta potè condizionare in senso più democratico il paese. Oggi  che esista una forza politica, solo di movimento o di partito, in grado di svolgere la stessa funzione è drammaticamente in dubbio.

martedì 27 dicembre 2011

Se nostalgia lo preme Orlando ti porta in città,
nella latteria italiana che apre sul retro
stanze riservate. Lo salutano con deferenza
ma si vede che il posto migliore è destinato
ad altri, al boss in tweed, col solitario al mignolo.
Racconta di sé. Ma è la mano a disegnare
nell'aria tempi inenarrabili a parole.
Di regine di strada. Di battute di caccia.
Indica i pezzi grossi mano a mano che entrano,
resta in silenzio, abbassa la voce - quando
torni in Italia ti dico io da chi andare,
gli fai due piaceri e ti sistemi -.

Quella qui sopra è la versione, modificata oggi, dei versi che compaiono nel post di lunedì 28 novembre  e che qui riporto

Se nostalgia lo preme Orlando
ti porta in città, nella latteria italiana
che apre sul retro stanze riservate.
Lo salutano con deferenza
ma si vede che il posto migliore
è destinato ad altri, al boss in tweed,
col solitario al mignolo.
Racconta di sé. Ma è la mano a disegnare
nell'aria tempi inenarrabili a parole.
Di regine di strada. Di battute di caccia.

Sono andato a rileggerli oggi dopo aver scritto, su un post che ho messo per ora a maturare tra le bozze, qualche altro verso su Orlando. Appena ho aperto il post solo a guardare come erano strutturati mi sono parsi esangui, anemici e persino disturbati! Li ho trascritti su un unico rigo virtuale e poi ho ricominciato a comporre. La versione che qui appare all'inizio ha un altro ritmo ed è decisamente meglio. Tra l'altro ho potuto aggiungere quattro versi finali che avevo in mente da tempo ma che non sapevo dove collocare. Andavano qui.
Orlando preme sulla memoria. Stanotte mi è comparso con la cintura solita dei calzoni sotto il ventre prominente e in essa infilato l'uncino per afferrare e trascinare i sacchi di patate. Un personaggio piuttosto triste, come magliaro non aveva commesso delitti gravi tranne imbrogliare un po' di gente, se l'era cavata con qualche mese di prigione ogni tanto. Ora si era imboscato in quel campo, forse con qualche conto in sospeso con la giustizia ma anche perché il fisico non lo sosteneva come prima. Aveva il suo giro in città ma si teneva fuori dalla malavita. Almeno così mi diceva. A quel tempo doveva avere circa cinquantacinque anni, era un bell'uomo, si teneva bene ma oggi dovrebbe avere più di centodieci anni. Viveva solo. Sarà finito in una fossa comune oppure sul tavolo di anatomia dell'Università.
L'amico S. mi chiede se quel lavorio notturno, di cui parlo ogni tanto, è reale o è una finzione. Non è una finzione. Dormendo o comunque nel dormiveglia raggiungo uno stato di concentrazione che nel quotidiano raggiungo a fatica e raramente. Anche perché non sono molto bravo a tenere lontano le distrazioni. Credo anzi, come succede a molti, di condizionare i miei stessi sogni e gli stessi spostamenti onirici non mi allontanano mai di molto dalla necessità di mettere a fuoco una questione. Di notte in effetti ho sistemato diverse cose. Mentre sto scrivendo queste ultime parole  la memoria, quasi una impicciona che vuole sempre dire la sua a tutti i costi, si infila tra loro e me. Fu durante una notte che presi la decisione di partire per Colonia. Non ricordo più di tanto, certo non dovette essere una notte tranquilla. Al risveglio mi sono sollevato a sedere sul letto e mi sono detto che l'unica soluzione era andare a Colonia. La fuga era stata insomma concepita e l'avrei realizzata di lì a un paio di settimane, al massimo tre, il tempo di fare il passaporto. Che poi fosse Colonia la meta scelta, la cosa era del tutto irragionevole quanto irrilevante. Colonia era la città dove un amico di liceo era andato a passare l'estate, il suo racconto vivo mi aveva impressionato e certi indirizzi che lui mi avrebbe dato, quello ad esempio della casa dello studente, sarebbero tornati utilissimi.
La fuga invece non aveva appunto bisogno di indirizzi. Aveva solo bisogno di essere realizzata.


lunedì 26 dicembre 2011

Mi è capitato spesso nel passato, per strada, di riconoscere improvvisamente nell'aria di città l'odore di Colonia del 1963. Assolutamente identico, non ho dubbi. Allo stesso modo ricordo l'afrore dell'acqua marina di superficie, immobile sotto riva fra qualche scoglio con le erbe verdi sul fondo, nel mio paesino in Puglia, più di sessantanni fa. Quell'afrore ha somiglianze con l'acqua profonda del tratto di mare di Trieste dove ho imparato a stare a galla, più o meno nello stesso periodo. Quello di Colonia invece è quello della città industriale. Ma ormai è molto che non lo sento più qui a Milano. Credo dipenda dal fatto che quasi tutte le fabbriche sono state sostituite da condomini. Non c'è più lo smog nero e denso, ci sono invece le polveri sottili degli scarichi delle automobili e dei riscaldamenti delle case. Suppongo che l'aria non abbia più lo stesso odore nemmeno a Colonia. Sono tornato recentemente in Puglia e a Trieste e il mare aveva lo stesso profumo. I mari sono certamente più inquinati e l'afrore è più chimico, ma credo che il risultato sia pressoché uguale perché si tratta sempre di decomposizione e morte di alghe, pesci e rifiuti.
La prima notte nel dormitorio studentesco di Colonia la passai sveglio, pensavo a cosa mi ero lasciato alle spalle. Respiravo con piacere l'aria fredda che entrava dalla finestra aperta alla mia altezza nel letto a castello. Verso le due o le tre del mattino il freddo diventò più importante dei miei pensieri, accostavo la finestra e il tipo di sotto si alzava e la spalancava. Siamo andati avanti così. La mattina volli dare un'occhiata a quel personaggio, era un tedesco mingherlino, sottile e pallido. Forse doveva evitare di dormire al freddo.
Non dovettero trascorrere più di uno o due giorni quando in un tardo pomeriggio, mentre io e il nero americano cercavamo di comunicare con i nostri dizionarietti, un giovane di statura piuttosto alta, capelli biondi mossi e occhi chiari mi si è rivolto sorpreso di trovare in quel posto un italiano. Il suo accento era inconfondibilmente triestino. Come per chiunque è inconfondibile il dialetto del proprio paese. Anche se come per me la permanenza nel luogo di nascita è stata saltuaria. Oggi non so parlarla, ma nemmeno a vent'anni, già allora ne conoscevo ormai solo la cadenza, l'accento, il ritmo. Per questo chiesi subito a Claudio se era triestino come me. Doppia sorpresa.
Una mattina di molti anni fa in un bar di Ripamonti ne riconobbi un altro, gli dissi che anch'io ero triestino. Strano di solito i triestini sono molto più affettuosi, mi rispose. Insomma mi tolse definitivamente quell'identità che già a me sembrava sovradeterminata. Da quel momento ho smesso anche di tentare ogni tanto di parlare in triestino per gioco. Che poi i triestini siano più affettuosi di altri era un'idea pellegrina, Claudio non lo era affatto. Piuttosto era curioso. Chi ero, quanti anni avevo, cosa ci facevo lì, se ero davvero studente, il tutto con un pizzico di diffidenza che non ho mai capito da dove gli provenisse. Dato che allora, proprio come oggi, ero molto insicuro di me pensai che gli provenisse dal fatto che mi spacciavo per triestino senza esserlo in effetti, infatti non parlavo in triestino. Prese a comportarsi da subito da fratello maggiore e in effetti qualche anno in più li aveva.
Il vero personaggio era lui. Aveva sulle spalle un doppio tradimento. Quello verso la sua famiglia che lui accusava di essere una famiglia patriarcale, autoritaria, soffocante e stupida, e quella verso lo studio perché aveva abbandonato l'Università.
E' per questo che la terza parte del poemetto si chiama "Il tradimento di Claudio".

mercoledì 21 dicembre 2011

Cristoforo Colombo voleva arrivare in Oriente andandoci da Occidente. Buscar el levante por el poniente. Oggi stiamo assistendo a una sorprendente trasformazione. Sembra sempre più evidente che a spingersi verso Oriente si ritrova l'Occidente che stiamo perdendo.  Certo la sorpresa per quegli amici della mia generazione che quaranta e più anni fa, Beatles compresi, partì per l'Oriente per trovarci l'Oriente, deve essere tanta. Sempre più ne tornano delusi. India e Cina, che complessivamente fanno quasi tre miliardi, sono sempre più occidentalizzati. Con un paradosso in più per la Cina che, paese sostanzialmente capitalistico, è governato da un partito comunista. Ma le città cinesi con i loro grattacieli in acciaio e cristallo ormai stanno sostituendo quelle americane anche nel nostro immaginario, la magia di New York infatti qui si ripete almeno una dozzina di volte in città grandiose sovrapopolate.
Fine dell'Oriente. Adesso che anche laggiù è Occidente e ci andiamo 'por el levante' non 'por el poniente' mi sento più in pace con me stesso. Ai richiami mitici dell'India degli anni sessanta infatti non ho mai concesso nulla imbevuto com'ero di americanismo. Che passava attraverso i film western, attraverso Cesare Pavese, i romanzi che traduceva, la sua poesia, attraverso infine, diciamo così, il mio personale fordismo gramsciano, dovuto a uno zio e a un cugino che lavoravano nei cantieri navali di Trieste, quando ancora c'erano nell'immediato dopoguerra, e a un camallo del porto di Genova, una delle persone più generose che io abbia mai conosciuto.
Cristoforo Colombo fece quattro viaggi in 'Oriente'. Rimase convinto fino alla morte che quello era l'Oriente, anzi le Indie, e non un altro continente che stava in mezzo fra l'Ovest e l'Est. Avesse avuto in mano i calcoli di Eratostene, che quasi milleottocento anni prima aveva calcolato con grande precisione la circonferenza della terra, si sarebbe reso conto che i tempi delle sue traversate erano troppo brevi per poter ritrovarsi in India. Colombo non ha fatto altro che estendere a Occidente l'Occidente. Che notoriamente è sempre stato più veloce dell'Oriente. Tanto è vero che, dopo aver aperto la strada, mezza Europa si è trasferita laggiù e ha occupato in breve il continente nuovo fino alla fine del West, impedendo di fatto che l'Oriente ci provasse da quella parte, limitandone i lenti tentativi alle coste della California.
Ma l'altro paradosso cui viene da pensare riguarda il movimento attuale delle popolazioni da Est verso l'Ovest. L'Oriente che sta diventando sempre più Occidente conosce un fenomeno classico dei processi di industrializzazione, l'immiserimento di larghi strati popolari da una parte, contadini, lavoratori del piccolo commercio nomade, piccoli proprietari di terra, bottegai, ma anche strati di popolazione istruita e con qualche specializzazione tecnica o intellettuale: tutti costoro finiscono con l'investire gli ultimi guadagni nel viaggio della speranza verso i paesi più ricchi e industrializzati da tempo.
Questa immigrazione di massa nei nostri paesi può dare ispirazione a una poesia epica moderna?
Quella della poesia epica e di un suo ritorno d'attualità sembra sia un dibattito abbastanza acceso. Non credo molto alle sue possibilità. Penso però che la poesia attuale non possa sottrarsi a 'sentire', in svariati modi, quanto sta succedendo. In questo senso credo che la poesia-racconto di Cesare Pavese, dalla quale sono personalmente partito nella mia formazione di scrittore di versi, abbia molto da dire ancora quanto a stilemi. Ad esempio appunto il suo verso di tredici e/o di sedici sillabe, mutuato in buona parte dal verso whitmaniano.

martedì 20 dicembre 2011

charley harper
La fantasia di Harper!
Di mio aggiungo che è una polifonia ottimistica. Anche l'amico N. è ottimista. Ce n'è bisogno! Lui dice che del bicchiere di vino vede sempre solo la metà piena (l'altra metà è vuota perché se l'è bevuta). Io non sono così ottimista in fondo all'animo ma sono molto ben disposto, mi basta poco, ad esempio sentire quel che dice N. sul suo bicchiere di vino, per diventarlo. Segno che anche nella mia formazione, come accade ai più, si è inceppato qualcosa a un certo punto. Si è infatti soliti dire: fino a quel momento tutto sembrava andare a meraviglia, poi... Già, poi, a un certo punto, succede qualcosa che ti rivela che la realtà non è tutta meraviglie. Però di meraviglie al mondo ce ne sono tante! Per questo forse vale la pena abbandonarsi comunque all'ottimismo. Capisco N. quando dice che Leopardi era un mollaccione. Lo dice perché Leopardi continua a mettere l'accento, lamentandosene col suo pessimismo esibito, sul fatto che il piacere infinito al quale tendiamo in realtà non esiste. E questo a N. non può certo andare giù. N. è cristiano e ottimisticamente un al di là infinito, comunque sia, lo intravede. Ma non dovette essere facile per un ateo in un paese di cattolicissimi moderati liberali trovare la giusta tonalità del discorso per dire che quelle erano vili illusioni. E che c'era tra l'altro poco da essere ottimisticamente rivolti verso 'le magnifiche sorti e progressive' che annunciavano. Anche se, molto meno pessimisticamente, lo stesso Leopardi, nel commentare lo stato delle cose in Francia, arrivava a dire più in generale che, nella modernità, nonostante la competizione persecutoria dell'uomo sull'uomo, le società riuscivano a riparare alla maggior parte dei danni che commettevano. Rileggere il 'Discorso sullo stato presente degli italiani' riserva ancora sorprese. Ma insomma Leopardi non era, se così si può dire, ottimista fino al punto di ritenere che c'era un al di là con qualche premio eterno per ciò che mancava di qua.
N. invece ci spera con ottimismo. Tanto più che persino gli dei dell'antica Grecia sembra gli abbiano mandato un segno favorevole. Egli racconta infatti che sull'acropoli, nel mezzo delle sue riflessioni, gli è comparsa una civetta!
Di più difficile interpretazione quanto è invece successo a me. Nel bel mezzo del piazzale antistante l'entrata delle meraviglie di Olimpia un vento improvviso ha scosso con violenza i rami degli alberi. Un ramo si è spezzato e mi ha colpito sul dorso della mano destra.
Forse volevano dirmi che non ero degno di entrare a Olimpia e di godere delle meraviglie prodotte da chi, al contrario di me, li venerava. O forse, essendosi trattato di un ramo e non dell'albero, volevano solo rimproverarmi. Di averli trascurati sin lì. Di non averli tenuti più in alcun conto prima col mio fragilissimo cattolicesimo poi col mio agnosticismo e poi col mio ateismo. Bene, ora, a distanza di qualche anno da quella visita, li ho persino onorati con questa memoria. Fine della storia.

domenica 11 dicembre 2011

I versi di mercoledi 30 novembre non funzionavano per niente. Non c'è niente di peggio che un primo verso brutto. La strofa l'avevo abbozzata questa estate ma era proprio una cosa bruttina. Tra l'altro era fuori tema perché avevo adoperato il passato remoto. In quel momento mi premeva di più l'occasione del ricordo, l'episodio di violenza di cui l'amico sardo era stato vittima, e le implicazioni che quel gesto oggi mi significano. Ma il primo verso che ho sistemato nella prima stesura del post del 30 nov. era bruttissimo. Continuavo ad aprire il blog per rileggerlo sperando in una mia conversione ma non c'è stato modo. Tutte le volte suonava pesante, ipermetro, senza suono, senza ritmo. Era così:
La squadra di operai irrompe sul piazzale delle passioni.
Eppure 'la squadra di operai' era necessaria, e necessario era 'il piazzale delle passioni'. Quanto a 'irrompe' era inevitabile. Ma dopo 'irrompe' sentivo necessaria una crasi, una cesura. Che era possibile. Ma poi 'sul piazzale delle passioni' non aveva la struttura di fine verso, sembrava più l'inizio di un altro. Portarlo a capo a farne l'inizio di un altro significava dare valore di verso compiuto a quanto rimaneva ma questo non mi tornava perché non era l'irrompere che mi interessava ma era l'irrompere nel piazzale delle passioni. 'Sul piazzale delle passioni' doveva essere ridotto a un numero di sillabe inferiore. Ad esempio così: sul piazza di passioni. Così: la squadra di operai irrompe sul piazza di passioni. Si tratta di un novenario più una cesura più un settenario.
La soluzione è sembrata venire l'altro giorno ed è quella che nel post in questione compare ora. Ma non ne sono affatto convinto. Il ritmo è strapazzato da tutte quelle zeta e esse. La soluzione ideale in questo momento mi sembra piuttosto questa: la squadra di operai irrompe sul piazzale. Un alessandrino! Quanto a 'delle passioni' ho l'impressione che dovrò rinunciarvi. Ma è troppo funzionale all'intero racconto e quindi andrà recuperato altrove. A meno di. A meno di questa soluzione:

Irrompe sul piazzale delle passioni,
la squadra di operai non tende un agguato,
colpiscono al corpo risparmiano il viso,
il giovane sardo che ama la greca
incassa in silenzio si affloscia nell'erba.
La squadra di greci addetta al montaggio
in fabbrica strappa comando ai suoi capi
difende il salario nel ritmo pattuito
della catena – solo a chi è stanco sfugge
il ritmo accelerato senza maggiore compenso –,
sul piazzale la squadra difende l’antico diritto
dell’uso patriarcale, il possesso del corpo
e del cuore delle donne.



Tra l'ultima delle righe scritta, dove dice: 'A meno di. A meno di questa soluzione:' e l'ultimo verso della poesia poi riportata sono passate due ore! Però forse funziona. Soprattutto il primo verso, una volta scritto com'è poi ho ricostruito tutta la poesia sul suo ritmo.

non omnis moriar... Sperèmm, dice N.

Da pochi minuti è domenica 11 novembre.
Nel post del 26 novembre c'è un commento di una lettrice che lamenta la lunghezza della divagazione storica su Colonia. Dopo averla scritta mi sono chiesto anch'io perché ho sostato così a lungo a descrivere la guerra di Cesare. C'entrano i ricordi liceali. La solitudine di Schenk è nata come prosecuzione di quelle quartine che hanno per titolo Indicazioni e che non a caso userò nella stesura finale  come prologo, come introduzione. Vi sono descritti attimi di vita liceale. La superstiziosa visita alla chiesetta prima delle lezioni, le soste liberatrici all'uscita, la pretesa della frase definitiva che doveva spiegare il mondo, gli appuntamenti dati, gli insegnanti. Tutto comincia lì. Poi, quasi come sua naturale prosecuzione, è scattata la memoria sui miei due anni successivi alla maturità e quindi il viaggio a Colonia. In qualche modo scrivere in righe sembra indurmi a sequenzialità logiche e temporali che con la poesia hanno poco a che spartire o che comunque di solito non rispetto. L'escursione storica sul limes romano sembra essere appunto una di queste concessioni. Che peraltro, a parte la seria probabilità di risultare noiosa, credo abbia una sua peculiare consistenza strutturale se riferita al mezzo di scrittura che adopero. Voglio dire che scrivere qui, dentro un blog, con l'idea che qualche sguardo estraneo lo attraversi da un momento all'altro, implica quasi naturalmente una rottura con una ricerca metodica e sequenziale, il blog sembra essere per sua natura disposto alle libere associazioni, alle connessioni le più lontane tra loro, anzi sembra provocarle come se si trattasse di scorrere un nastro il più velocemente possibile e cogliere all'istante il frammento di vita che mostri più senso o maggior forza di sopravvivenza, senza tenere conto del legame più o meno immediato con il frame precedente da cui si è partiti.
Già, perché poi, in gioco, cos'altro c'è in poesia? La misura della sua forza sta nella sua sopravvivenza, al di là della nostra stessa vita, cioè un dato del quale non sapremo mai nulla. Sul mio primo libretto universitario (rintracciato apposta nella ricostruzione dell'anno di Colonia) ho trovato scritto a matita in un angolino: Non omnis moriar, con relativa nota del numero dell'ode di Orazio. Un amico poeta noto e affermato, molto più avanti di me negli anni, è solito dire: speriamo! Si riferisce per l'appunto solo a questo: speriamo che i miei versi sopravvivano a me stesso! Lui però è anche cristiano e a una certa sopravvivenza in un al di là ci crede, probabilmente si chiede se da dove si troverà potrà dare un'occhiata all'esito futuro dei suoi versi (non ho capito bene in cosa consiste la sua aspettativa, credo che pensi a una sopravvivenza limitata a chi ha ben operato in vita, magari scrivendo appunto versi non caduchi...).
Scrivere torno a scrivere. Per lo più mi sembra di andare alla cieca. E non può che essere così. Per due motivi. Primo, perché scrivere è una necessità e considero ormai inutile perdere tempo a dare una spiegazione di essa. Secondo, perché la necessità primaria non è quella di una scrittura generica, è necessità di scrivere in versi e anche spiegare ciò è inutile perdita di tempo. Infine le righe, che accompagnano i versi che vengo scrivendo, sono una compagnia caldissima in attesa che venga il verso a dare inizio a un'altra strofa. Già mentre scrivo in righe  compongo mentalmente  versi che per lo più poi scarto. Se qualcuno di essi mi si ripresenta, anche durante la notte, ci lavoro su e prima o poi, se hanno qualcosa di convincente, diventa necessario dar loro corpo. A volte a dire il vero passano giorni, settimane.
Tutto comunque in effetti va avanti alla cieca. Scrivere devo, e in versi. Ogni tanto mi illudo che qualche senso tutto ciò ce l'abbia.

sabato 10 dicembre 2011

L'americano m'insegnò a sfruttare un'opportunità che l'Università di Colonia offriva. Esisteva un arbeitsamt, un ufficio del lavoro, apposito per studenti. La camera del lavoro locale era in contatto con l'ufficio universitario e metteva a disposizione per studenti bisognosi (ma non necessariamente) lavoretti di una o mezza giornata, con paga sindacale e copertura sanitaria. Si trattava di fare la coda fuori dall'ufficio di primissimo mattino, depositare per terra il proprio libretto e attendere l'apertura. Gli addetti avrebbero raccolto tutti i libretti e chiamato i proprietari. La faccenda mi funzionò per diverse mattine, bisognava superare la diffidenza degli studenti che appena si rendevano conto che ero italiano e che competevo con loro nella distribuzione dei lavori brontolavano, facevano piccole bastardissime provocazioni. Facevo finta di niente, sfruttavo la non conoscenza della lingua per dare a intendere che non capivo le loro intenzioni. Ma se accadeva di incrociare con qualcuno lo sguardo tutto si smontava.
Era andata più penosamente il giorno dopo il mio approdo alla casa dello  studente, quando ancora non conoscevo quella risorsa. Anche allora di primissimo mattino, attraversando la città piena di neve e di neve odorosa, di un odore che mi porto tuttora nelle narici, mi misi in cerca di un ufficio del lavoro generale. Ne conoscevo vagamente l'indirizzo, sapevo che ero nelle sue vicinanze quando mi imbattei in due veneti, in tutta evidenza due contadini, curvi e intabarrati. Non solo non ci fu nessuno scambio di affettuosità ma mi mandarono dalla parte opposta. Gira e rigira alla fine all'ufficio del lavoro ci arrivai comunque, i due erano lì che discutevano con altri italiani. Ci ignorammo. Anche perché mi resi subito conto che l'unica offerta di lavoro possibile riguardava la manovalanza generica nelle case in costruzione. Conoscevo per conto mio quel tipo di esperienza e non mi attraeva affatto. Sapevo che il lavoro era faticoso, pieno di rischi e dovevi essere disponibile a vivere per un periodo più o meno lungo, come per lo più accadeva ai lavoratori stranieri, nei baustelle, i cantieri edili. Non era rifiuto del lavoro manuale, era quel lavoro manuale lì che non ero disposto a fare. D'altra parte quella mattina mi resi conto che non ero in alcun modo della stessa pasta dei due calabresi ai quali in qualche modo quella situazione, quel luogo mi assimilava. Non solo perché non ero un contadino ma perché non ero davvero un emigrante come loro.

mercoledì 7 dicembre 2011

Sono partito per Colonia una sera d'inverno. Una volta sistemato sul treno mi sono addormentato. Al risveglio la giornata era cominciata da un pezzo e lo scompartimento era occupato da donne che chiacchieravano tra loro in tedesco. Non capivo ovviamente nulla. Lo stridore della loro lingua non mi colpiva più di tanto. Colonia sarebbe comparsa e sarei sceso, tutto qui. Aver dormito così serenamente probabilmente allora dovette avere un certo significato che ora, a distanza di cinquantanni, mi sfugge, ma non ci vuole molto a pensare che quel sonno aveva messo tra me e Milano una distanza che non era solo il numero di chilometri percorsi durante la notte.
Quando scesi alla stazione, che sembrava quella di Firenze, mi sbarazzai della valigia al deposito bagagli, mi infilai le mani in tasca e mi affacciai a guardare scorrere il Reno. I gabbiani gridavano all'uscita degli scarichi, c'era un discreto movimento di barconi a motore, la gente indaffarata. Poi mi avviai verso il Duomo, tenevo d'occhio le guglie per scegliere la strada. Durante la notte aveva nevicato abbondantemente, nonostante la mia disposizione d'animo a fare il turista non ci volle molto a convincermi che dovevo darmi da fare altrimenti. L'aria era fredda e la luce poca, mancava poco a mezzogiorno ma nuvole pesanti d'acqua e neve si raccoglievano e tutto faceva pensare che di lì a poco il buio e il freddo sarebbero aumentati. Mi diressi verso Nord e attraversai il centro della città e dopo un grande parco ricco di alberi e neve entrai nel quartiere universitario, così come indicava la cartina della città. La casa dello studente era accogliente. Pur senza spiccicare una parola di tedesco ottenni una sorta di salvacondotto grazie al quale potevo rimanere a dormire lì per una settimana. Tornai faticosamente alla stazione centrale ne ritirai la valigia e rifeci il percorso all'indietro, tutto a piedi, solo in seguito mi resi conto che la città era attraversata da una rete di tram e autobus molto efficienti e non costosi. Nella casa dello studente avevo un letto in una camerata grandissima e affollata. Un nero statunitense di proporzioni considerevoli mi prese un po' sotto balia. Mi offrì pane nero imburrato per cena. Aveva un'aria gioviale e sicura di sé. Siamo riusciti a comunicarci l'essenziale grazie all'uso di un paio di dizionarietti. Allora non me ne resi conto ma quanto gli confidai era la dimostrazione che il senso della mia presenza a Colonia non mi era ignoto come volevo dare a intendere a me stesso. Ancora oggi mi sorprende la lucidità con la quale gli dissi che era mia intenzione tornare in Italia per riprendere gli studi e segnatamente la letteratura italiana e la storia. L'americano continua a chiedere why e io tuttora non saprei come rispondergli di preciso. Non lo so oggi, non lo sapevo certo allora, però lo dissi, lo dissi con un pizzico di prosopopea come se stessi parlando di una profonda convinzione scientifica. Perché letteratura italiana e storia insieme? In qualche modo una spiegazione sarebbe venuta molto più tardi ma per il momento tutto ciò fu sufficiente per accreditarmi presso l'americano, bisonte nero super equipaggiato che girava le università europee per farsi una cultura prima di tornare al suo dottorato negli States. Chissà se è ancora vivo. Sarà in pensione come me.

mercoledì 30 novembre 2011

L'irruzione è sul piazzale delle passioni, la squadra
di operai non tende un agguato, tutto il deciso è esibito.
Colpiscono al corpo risparmiano il viso.
Il giovane sardo, amante della greca,
si affloscia sull'erba, umida nel crepuscolo.
Quella squadra di greci contende in fabbrica ai capi
il comando del lavoro, nel campo difendono antichi diritti,
sanciti dall'uso patriarcale, alla proprietà del corpo
e del cuore delle proprie donne.

martedì 29 novembre 2011

Il maschio latino, dice Claudio, misura
il necessario col disponibile, come scambio
naturale tra cacciatore e preda.
La ripetizione per lui è un atto d'amore
ma è solo performance del genio,
raramente la preda piegata al bisogno
conosce attrazione e desiderio.
Se accade si liberano voci
per favole, racconti e incontri d'amore.

lunedì 28 novembre 2011

Se nostalgia lo preme Orlando
ti porta in città, nella latteria italiana
che apre sul retro stanze riservate.
Lo salutano con deferenza
ma si vede che il posto migliore
è destinato ad altri, al boss in tweed,
col solitario al mignolo.
Racconta di sé. Ma è la mano a disegnare
nell'aria tempi inenarrabili a parole.
Di regine di strada. Di battute di caccia.

domenica 27 novembre 2011

A volte la memoria si attarda su spazi pieni
incurante che il vuoto e il nulla
sono solo apparenti. La rete invisibile
delle passioni tiene in tensione i due campi.
Anche a sera quando la cantina è deserta.
L'alcool sgrava dalla solitudine
che il juke box non addomestica.
I dormitori sono tutti al buio,
solo i due cuochi amanti
rompono a tratti il silenzio.

sabato 26 novembre 2011

La seconda parte, che avrei in animo di chiamare 'La nostalgia di Orlando', ha ora la sua prima stanza. La mappa, pretesto per l'incipit della prima parte, 'La solitudine di Schenk', qui è diventata una carta geografica. Ma la mappa era metonimica alla memoria, era un invito astratto, come una sosta della coscienza all'operazione voluta di una ricognizione a volo di uccello sui due campi. Qui invece la carta geografica è proprio riferimento toponomastico alla posizione di Colonia, sulla sponda sinistra del Reno.

***

La carta geografica segnala confini,
fiumi, laghi, lo sguardo forza la memoria
penetra in basso fino al reticolo di strade,
vede parchi sotto la neve, il Reno
che lima le sponde, sente stridere i gabbiani.
La neve sulle guglie del Duomo
di Colonia vela marmi tagliati
in stile italiano. Gli spazi vuoti fanno
geometrie verticali,
nella neve di febbraio la sosta all'interno
è su note di Johann Sebastian Bach.

***

Ce l'ho qui davanti a me, in un'altra finestra aperta nel browser, la cartina geografica di Colonia e dintorni, per verificare quanto la città disti dal confine con la Francia. A dar retta alla memoria liceale la città doveva confinare direttamente con la Gallia. In realtà Colonia è in pieno territorio germanico. Nonostante sia sul Reno, antico limes romano, occorre procedere verso Ovest per almeno un centinaio di chilometri per incontrare un confine, che è poi quello dell'Olanda. Ma la lettura di Cesare, e del suo De bello Gallico, ha lasciato segni indelebili. Sconfitti gli Elvezi, Cesare scatena le sue legioni contro Ariovisto che ha invaso la Gallia oltrepassando il Reno. Che dunque in effetti faceva da confine tra Galli e Germani. Tuttavia popolazioni germaniche si erano da tempo stabilite qua e là sulla sinistra del Reno e al tempo della guerra portata da Cesare erano già più di centomila, forse centocinquantamila. La battaglia avvenuta in Alsazia, nella quale Ariovisto viene sconfitto, costò, a sentire Appiano, la morte di più di ottantamila soldati tedeschi. Anche se l'Alsazia si stende in un territorio molto a sud rispetto a Colonia, anche questo episodio mostra che il Reno funzionava da confine, forse un po' meno 'naturale' di quanto sostiene Cesare al quale tornava più di conto che lo fosse contro l'evidenza degli stanziamenti, a causa della sua maggiore difendibilità. Anche il territorio di Colonia conosceva tratti non superficiali di cultura e vita germaniche.  Del resto in esso si stabilì definitivamente, intorno al 40 a.c., la tribù degli Ubi, popolazione germanica che al di là del Reno non aveva pace per la guerra continua che gli Svevi, potente tribù della Germania più centrale, portava loro. Da quel momento romani e germani diedero vita a un'importante base militare che fu innalzata al rango di 'colonia' da Agrippina, figlia dell'imperatore Claudio, dalla quale prese il nome appunto di Colonia Agrippina.
Ho chiesto al browser una mappa di Colonia come è oggi. Zoomando nel centro ho ritrovato Hohe strasse, la strada che allora colpì oltremodo la mia fantasia. Il traffico automobilistico era vietato, le vetrine dei negozi si protendevano fin sulla strada in cubi e parallelepipedi di vetro. Un fluire di persone su e giù in un'atmosfera molto tranquilla. Ho rintracciato la lunga strada che saliva verso la periferia di nord est e sulla quale, uno dietro l'altro a distanza dovute, ancora in quel 1963, erano stanziati campi militari, ciascuno in rappresentanza di una delle forze armate alleate della guerra mondiale. Nell'ultimo di essi, quello inglese (diviso in due campi, uno riservato alla RAF, l'altro al personale di servizio per lo più tedesco), fui assunto come kitchen boy e lì rimasi fino al mio rientro.



lunedì 21 novembre 2011

La ripetizione è un atto d'amore.
Una frase, anzi un verso, che ho conosciuto circa dieci anni fa. Uno di quegli incontri che hanno il potere di modificare non la realtà ma la percezione che hai di essa. Ancora oggi serbo riconoscenza verso l'autore presso cui l'ho conosciuta, un noto poeta milanese (conservo almeno per ora la scelta di non dichiarare i nomi interi, o di nominare solo le iniziali, di amici, poete e poeti viventi, al contrario dei non più viventi), e questo indipendentemente dal fatto che anche altri possano averla detta.
Ci rifletto oggi perché mi sono imbattuto nella sua negazione.
E anche questa volta è stata una sorta di folgorazione. Andiamo con ordine.
A giudicare dall'accoglienza istintiva che ho riservato a suo tempo a quell'espressione direi che l'assunto sottinteso, che la ripetizione non ha nulla a che vedere con l'amore, doveva avere in me radici superficiali. Tuttavia c'erano, ma alimentavano più un atteggiamento, contratto in circostanze poco interessanti, una postura d'imitazione, un certo rifiuto snob, come se il rifuggire dalla ripetizione di gesti, situazioni, incontri contribuisse a garantirmi l'immagine di afflitto da ennui de l'existence, che negli anni cinquanta affascinava, un po' confusamente, i giovani come me. Relegato quell'atteggiamento nella memoria e con quella disposizione d'animo dell'uomo adulto pronta a spostarsi sui margini simmetricamente opposti a un vissuto giovanile, superficiale o meno che fosse, quando mi sono imbattuto in quel verso l'ho riconosciuto come mio e l'ho pronunciato in tante occasioni. Con la stessa determinazione che si ha quando si è mossi dal ritenere che nominare una cosa significhi comprovarne l'esistenza.
Ieri sera  stavo addormentandomi sulle pagine di 'Empirismo eretico' di Pier Paolo Pasolini. E ho perso completamente il sonno quando nella sua disamina sulla lingua nazionale italiana si sofferma sul carattere dello slogan pubblicitario.
Che abbia una sua carica di espressività potente lo sappiamo tutti da tanto tempo. Non a caso, dicevo qualche giorno fa in uno di questi post, usavo gli slogans pubblicitari con i ragazzi a scuola per fargli capire qualcuna delle figure retoriche più usate nella scrittura. La potenza espressiva degli slogans, dice però Pasolini, viene completamente annullata dalla sua ripetitività soprattutto nella televisione: '...attraverso la ripetizione la sua espressività perde ogni carattere proprio, si fossilizza, e diventa totalmente comunicativa, comunicativa fino al più brutale finalismo'. Che ovviamente è quello di fissare nella testa di chi ascolta e guarda la necessità di possedere l'oggetto reclamizzato.
Non sempre la ripetizione è un atto d'amore.

mercoledì 9 novembre 2011

Stato della manutenzione. Esondazioni, novembre 2011

c'è tempo tutto novembre perché cadano
tutte le foglie d'autunno e se ostruiscono
tombini e vie di sfogo sotterranee
l'incuria della città è pari a quella a monte
e a quella a valle, tutta una via di fuga
fino al mare dove prima o poi spurgano
tutte le civiltà e anche infine la nostra specie
che ha tempo tutto questo novembre e molti ancora
il tempo medio di sopravvivenza d'una specie
essendo abbastanza lungo
tranne per certune e per l'orso bruno marsicano
che ha solo una cinquantina di parenti vivi,
faremo di meglio, l'impegno nelle pianure
dello Yangtze e alla foce del Magra non manca,
siamo specie dissipativa imperfetta
ma faremo prima  di scarafaggi e colibrì.

giovedì 3 novembre 2011

Sbarazziamoci dell'autunno affrontiamo
l'inverno, dice Dieter, la giustizia non viene da Est,
nemmeno da Ovest gli fa eco Claudio.
Sul piazzale Claudio aggredisce Dieter
rientrante al dormitorio, lui prende servizio
nel pub per gli ufficiali proprio a quell'ora
verso le dieci di sera è bevuto, come tutti.
Tell me Italia, tell me Italia...
Claudio triestino ha un perfetto inglese
ma Saba e Svevo non fanno argomento.

martedì 1 novembre 2011

Certo l'abitudine. Basta non equivocare. Nulla a che vedere col vizio. La differenza è, per fare un esempio storico, tra chi conta le sillabe per fare endecasillabi e chi 'pensa' in endecasillabi. Quest'ultimo prima scrive e poi verifica. Al massimo gli sarà scivolata qualche zoppia in un verso, una sillaba strozzata o troppo allungata. E' la differenza che passa tra chi traduce da una lingua straniera vocabolario alla mano e chi 'pensa' in quella lingua. In tutti i casi alle spalle ci sono studio e preparazione infiniti. Che si acquistano quando?
Per riparare allo stato attuale della poesia occorrerebbe che poeti, laureati o no, si rinchiudessero per tempo indefinito in solitaria meditazione. Così sostiene l'amico G. mentre festeggiamo il suo compleanno. Ma non ci credo. Quanto hai da proporre in versi nasce dentro la vita attiva. L'isolamento non è per sé garanzia di nulla. A meno che non sia un bisogno concreto e personale: del resto, rispondere a un bisogno del corpo e della mente, è vita attiva. L'esperienza dei mistici, più ancora delle mistiche, lo dimostra. Prosit.

lunedì 31 ottobre 2011

L'amico S. ha letto 'Peter, l'australiano' e ha da ridire. Ma solo per un verso. Il terzultimo. / Peter dice di non fidarsi, /. Che bisogno c'è della virgola? Se vai a capo non intendi già che è lì che devi fare sosta nella lettura?
Appena me l'ha fatto notare la tentazione immediata è stata di andare a toglierla. Ma poi ce l'ho lasciata.
Non so bene, non so spiegare tutto. Ogni verso, molto di più credo da quando il verso è diventato libero, ha una storia a sé. Ma dentro una composizione svolge una sua funzione precisa, deve in particolare contribuire a creare quel ritmo, quella musicalità che sostiene la composizione stessa come uno dei suoi contenuti. E non ci sono in una composizione contenuti più importanti di altri. Tutto ciò che contribuisce a fare un verso è un contenuto importante. E andare a capo aiuta a creare quel ritmo, quella musicalità. (Con buona pace di tutti coloro che appena ti vedono ti chiedono ma tu quand'è che vai a capo? E perché ci vai? Sicuro che abbia un senso farlo? Ci vai a caso o segui una partizione precisa?).
Lì la virgola ci sta tutta, ma devo pensarci su sul perché.
Anzitutto quel verso mi serviva così com'è, nove sillabe sono giuste giuste per fare il giusto ritmo col verso che precede e con quello che segue. Nove sillabe tengono il ritmo, non una di più non una di meno ma la virgola dice pausa per conto suo, non gliene importa nulla che se ne stia a fine verso, pausa perché avvisa che c'è un elenco nell'aria, un elenco che va letto e scandito lentamente: dice, invita, chiude.
Non ero preparato alla sua controrisposta. Va bene, allora come spieghi il terzo e quarto verso? Anche lì  azioni verbali in sequenza ma quella a fine verso - salutano - è senza virgola!
Sono andato a rileggere il post di ieri. E ho scoperto nientemeno qual era il ritmo della poesia. Senza l'osservazione di S. non ci  avrei mai fatto caso. Nell'intera poesia ci sono addirittura due sequenze di tre verbi e una di quattro. E' sul ritmo di queste sequenze verbali che ho costruito i versi. In quella di quattro, alla fine del terzo verso - si salutano - la virgola non ci va perché i ragazzi negli hub si salutano frettolosamente e si scambiano le mappe al volo, perciò le due azioni descritte vanno lette velocemente.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa se il verso, invece di finire a 'si salutano', andava avanti comprendendo l'azione di scambiarsi anche le mappe?
Certo che poteva andare anche così. Il ritmo resta quello anche scrivendo tutto il rigo.
Non so. Ho contato le sillabe tanto per fare. Sono quindici. Per me un verso lunghetto, anche se sotto ce n'è uno di diciotto. Un verso lunghetto e quindi sono andato a capo.
Cioè in sostanza qui si dimostra che vado a capo per abitudine. Mah! ma cosa c'è di male?

domenica 30 ottobre 2011

Peter, l'australiano

I giovani cercano senso, fanno
ipotesi sul mondo, sfrondano il mistero.
Percorrono continenti, negli hub si salutano
si scambiano mappe, lasciano indizi.
Raccolgono l'oro lasciato dalla Storia.
La natura è stupida e feroce, dice Peter l'australiano,
otto milioni di uova per fare un salmone
occhio al ragno saltatore, si solleva
fino all'altezza dei tuoi occhi e lì colpisce.
Peter dice di non fidarsi,
invita alla ricerca, chiude il libro dei tuoi versi.

***

Peter mi invidiava. Ancora oggi, dopo cinquantanni, non posso fare  a meno di pensare che il suo gesto è stato volontario. Credo che il vedermi così euforico e divertito dal gioco lo abbia alla fine spinto a darmi una lezione. Ha lasciato la presa, non poteva non sapere che così facendo mi abbandonava ad un rischio. Mi chiedo come, dentro la mensa, fra gli inservienti, i cuochi, la stessa miss Tennent, abbiano commentato la faccenda. L'episodio ha avuto uno strascico fastidioso. La frattura esposta - l'osso della falange bianchissimo - mi fu curata in un gabinetto medico con una steccatura. Quaranta giorni di prognosi. Mi sembrò subito un'esagerazione, per i tempi che erano (era in corso una delle tante crisi di 'sviluppo', fu coniata in quei mesi la parola congiuntura) e soprattutto per me che venivo dall'Italia. Ma quella era la Germania. All'arbeitsamt, l'ufficio del lavoro, andavo a ritirare ogni quindici giorni il mio salario: era più alto del solito perché conteneva un'indennità dovuta all'incidente. Da noi ancora oggi è meglio non farsi male e nascondere la faccenda se si può, da quando poi c'è la cosiddetta crisi, vale a dire il trionfo del liberismo selvaggio di origine reaganiana e thatcheriana, e con la diffusione del lavoro nero degli immigrati, le cose sono solo peggiorate.
Furono quaranta giorni di frustrazione profonda perché lavorare dava senso ai giorni. Fu in quei giorni che cominciai a maturare l'idea di ritornare in Italia e riprendere gli studi. Passai la maggior parte del giorno a studiare. Mi ricordavo, dalla sua biografia, che Bertrand Russel in carcere, aveva diviso la giornata in tre parti, ciascuna delle quali era destinata a una delle sue discipline di studio (credo filosofia, matematica, letteratura). Organizzai così anche la mia giornata. Fatta eccezione per le ore di passeggio e di chiacchiere con gli amici del campo il resto lo dividevo tra poesia, studio dell'inglese, studio del tedesco.
A volte scendevo a Colonia, risalivo le strade del centro fino alla stazione centrale e sostavo davanti alla cattedrale.

sabato 29 ottobre 2011

Righe in corso: Guido Cavalcanti.

Per la sezione Righe in corso (dove già ci sono una pagina su Dino Campana e una su Giacomo Leopardi) ho pubblicato un'altra pagina - anch'essa cliccabile qui a fianco  -  con il mio lavoro su Guido Cavalcanti. Dove la chiave di lettura è stata l'io diviso. E il suo ricomporsi nella poesia.

Ma c'è chi si interessa a Guido Cavalcanti?

E non starò certo a dire perché un abitante del XXI secolo dovrebbe invece farlo. Ho smesso di fare il prof.
   Come persona e scrittore di righe e versi però...

venerdì 28 ottobre 2011

Quando ho cominciato a scrivere versi?
A quindici anni. Vivevo allora a Rimini. La poesia l'ho perduta. Ma ne ricordo un verso, anzi mezzo, solo un'espressione: una spalliera di rose. La stessa identica espressione che ho trovato a quarantanni in Sereni. Quando l'ho incontrato alla Mondadori, qualche anno prima della sua morte, non ho avuto cuore di raccontargli quella banalità, era già troppo imbarazzato a maneggiare i fogli dei miei versi: lavora, lavora.
Dove ho lasciato Schenk?

mercoledì 26 ottobre 2011

C'è da credergli a Rimbaud quando dice che lui ha inventato i colori delle vocali ( credo: a nera, e bianca, i rossa, u verde, o blu). Ma credo che abbia fatto qualcosa di più. Il suo deragliamento dei sensi ha aperto piste nel deserto. Anzi ha scoperto il deserto da popolare. Una di queste piste è appunto quella delle libere associazioni sulla quale si è inoltrato Freud non molto tempo dopo. In ogni caso la sinestesia acquista solo dopo Rimbaud una vera e propria cittadinanza in letteratura. Non è che sinestesie non ce ne fossero mai state. Qualsiasi grammatica di retorica comincia a rintracciarle già in Dante (il luogo 'd'ogni luce muto') poi in Ariosto ( il 'lamento amaro') ecc.  Ma è solo nel Novecento che,  i poeti soprattutto, ne fanno un uso consapevole e raffinato. A scuola non adoperavo in realtà la grammatica per illustrare la sinestesia, portavo esempi tratti dalle pubblicità televisive. I ragazzi poi si divertivano a cercarne. Del resto la multimedialità è per sua natura sinestetica anche se al cinema i sensi coinvolti sono solo la vista e l'udito. Ma è notizia recente delle intenzioni di diffondere odori e profumi durante la proiezione dei film! E Steve Jobs ha ormai destinato, prima di morire, anche il tatto all'uso dell' iPad. Insomma la sinestesia è ormai codificata, istituzionalizzata e tecnologizzata. E dunque ormai vecchietta, consumata. E' questo che sin dall'inizio mi aveva creato un po' di disagio, era il titolo del libro di Don DeLillo che mi aveva lasciato perplesso. Rumore bianco.
E però, in questo romanzo, cosa si addice meglio di una figura retorica vecchietta e moribonda per la descrizione di un percorso di vita destinato per natura alla morte e per artificio, il disastro ecologico, a una morte quasi sicuramente prematura?
La metafora, la sinestesia, come in questo caso, danno potenza all'espressione. Ma la caricano di suggestioni. Più di quanto già per se stessa non faccia la parola semplice e quindi allontanano vieppiù il lettore dal significato che intendevi darle. Tutto ciò mi è estraneo,  non è mai nelle mie  intenzioni creare suggestioni. Cerco sempre la parola diretta, giusta, quella, per dire. 
Anche se non hai nessuna garanzia che poi il lettore la intenda proprio nel senso che tu le volevi dare, perché ci mette sempre del suo. Ma tant'è. Non si può inseguire il lettore. Il problema è sempre quale sia il tuo gusto personale.
Il problema. Te lo sei formato accogliendo (solitamente nei primi anni della tua vita) nel timbro della tua voce suoni tristi, melanconici, mesti e desolati? La parola giusta che ti corrisponde fino in fondo, che segnala con esatta geometria i significati che le affidi, avrà quel suono lì. Il timbro della tua voce sei tu. Non puoi discostartene troppo, non puoi indugiare in esso con insistenza. Intorno a quel timbro la parola scelta sarà quella che gli sosta più vicina. Più sarà lontana grazie o a causa dei mezzi retorici e maggiore sarà l'aura letteraria che la circonderà, fatta di suggestioni e/o sentimentalità. Questione di gusti.

lunedì 24 ottobre 2011

La lunga pace infittisce il sottobosco

La cattedrale, salva per caso, di Colonia distrutta.
La lunga pace infittisce il sottobosco,
i parchi cittadini ricchi di acque. Hohe strasse,
l'arteria principale, di sabato invasa da proletari.
Al cinema danno 'Accattone' di Pier Paolo Pasolini.
Hans figlio di operai studia legge,
ha nostalgia di un passato che non conosce,
dice di averne memoria.
La Storia per lui è un eterno presente.

Gli spazi vuoti segnalano forme invisibili.

Gli spazi vuoti segnalano forme invisibili.
Il filo di ferro della rete che separa i due campi,
spesso e rugginoso, intreccia rombi,
nella pioggia sono occhi luccicanti.
A rientrare a sera i dormitori sono ombre distese.
Gli spazi vuoti fra di loro sono terra di nessuno,
è una geometria, è familiare.

martedì 18 ottobre 2011

I bianchi e i neri di Trieste

Non ho mai capito perché la memoria mi rimanda Trieste solo in bianco e nero. Sarà perché i ricordi d'infanzia sono legati molto di più all'inverno. Ma sarà anche perché quegli inverni, ma poi anche le estati, mi sono rimasti dentro privi di amore. Ogni tanto ho sentito N. dire che lui ama l'inverno. Detto da un grande poeta come lui mi è sembrata da subito la condizione indispensabile per diventare anch'io grande. Mi sono detto cioè che per scrivere versi più efficaci dovevo smetterla di temere l'inverno, di pensare che morirò d'inverno...  Ma Trieste continua a essere nella memoria sempre soltanto in bianco e nero. Le strade levigate dalla bora. I palazzi bianchi. Gli anditi scuri. Certe scalinate scure. L'improvviso riemergere al bianco dopo il nero delle gallerie. L'arco di ombra scura col quale il doppio filare di piante avvolge via XX settembre. Nemmeno la memoria di anni più recenti, decisamente estivi e di vacanza, con l'allegria di Adriana, Emanuele, Francesco e persino Blouse, la nostra labrador nocciola, mi hanno residuato una Trieste più colorata. Ferrigna sempre. Anche il mare. Tranne in un'occasione. Quel giorno era verde e le trasparenze profonde. Fu l'anno della nostra visita a A. I ragazzi erano da qualche parte in Europa e noi passammo una settimana a casa sua. Quel giorno volevamo andare a visitare il castello di Miramare.  Posteggiata la macchina nelle vicinanze percorrevamo il lungomare che ci avrebbe portato fino al castello. Ma Adriana notò che lì il mare era di un verde mai visto. Rimanemmo a mangiare un panino su una panchina per goderci la vista ma non fu sufficiente. Adriana decise che voleva fare il bagno e che il costume ce l'aveva addosso. A. e io abbiamo insistito per rispettare il nostro programma ma alla fine dovemmo accettare un compromesso. Noi due a visitare il castello lei a fare il bagno. Il mare era verdissimo lo ricordo bene. Non avevo voluto darla vinta a lei ma mentre mi allontanavo non potevo fare a meno di provare un po' di disagio. Perché la lasciavo sola, in una città pressoché sconosciuta a lei, addirittura a fare il bagno nel mare di Miramare? Sulla scogliera di Miramare? Inquietudine ma anche invidia e gelosia per quella situazione alla quale mi stavo sottraendo, per quel mare così verde, per lei così elegantemente libera di me. Credo di non aver goduto granché della visita al castello con A.. E comunque questo conferma la mia intuizione iniziale: è stata la povertà di affetti nella mia infanzia triestina ad aver bloccato la memoria della città in una fotografia in bianco e nero. Il giorno del bagno di Adriana il mare lo ricordo verdissimo!
Il mio amico di sempre, S. intendo, grande amante ed esperto di fotografia, direbbe che dico una stupidata, le foto in bianco e nero, le sue, sono piene d'amore. Ma questa è un'altra storia. C'è un nero in particolare che ricordo. La casa dove ho vissuto con una nonna e una zia, il mio nono anno di vita, era in via Molino del vento, nella periferia nord-est della città. Una casa molto modesta, di due locali, col gabinetto in comune con altre famiglie sul corridoio. La casa adiacente era stata bombardata, era crollata su se stessa e dal muretto che la sovrastava si vedeva una voragine buia di macerie.

domenica 16 ottobre 2011

Titolo di questo post sconosciuto

L'impostazione di default del blog mi chiede sempre un titolo appena apro un nuovo post. Una rigidità inutile. Chi programma questi aggeggi parte dall'idea che dovrà usarlo anche un bambino e quindi pensa di venire incontro a un suo bisogno di ordine suggerendogli di dare come prima cosa un titolo. Da scolaro e fino alla fine della scuola in effetti mi davano il titolo del tema e poi dovevo 'comporre'. Qui in fondo ci si limita a dire che prima viene il titolo. Ma non è così. Quella è l'ultima cosa. Tuttavia, se stai scrivendo qualcosa che segue grosso modo un progetto,  arriva sempre il momento in cui devi deciderti a dare un titolo alle parti o al tutto.
Così è stato ieri sera, prima di addormentarmi, essendo a letto da almeno un'ora, sulle pagine di Don DeLillo di Rumore bianco. Una scrittura intensa la sua, con accensioni di spirito, di ironia e di acutezza psicologica come da tanto non leggevo. Ma c'è qualcosa che non mi convince e ancora non ho capito cosa. E' come se un esito particolare della scrittura debba manifestarsi da un momento all'altro, ma ieri sera ho già superato la metà del libro. Vedremo.
Ho interrotto all'improvviso la lettura folgorato, come talvolta mi accade, dalla improvvisa chiarezza dei titoli che darò alle altre due parti del poema. La seconda parte sarà intitolata La nostalgia di Orlando, la terza ed ultima Il tradimento, o La fuga di Claudio.
In realtà i titoli mi hanno subito dimostrato un'altra cosa, e cioè che il poema sarà in tre parti. Così è.
Accade così anche in altre situazioni. Così la fisioterapeuta mi svela che mentre richiama la mia concentrazione sui movimenti necessari per sbloccare la rigidità delle ultime vertebre del rachide, in realtà sta liberando dal dolore acuto l'area intorno al piede destro sul quale pesa il nervo sciatico infiammato. Preoccupato del titolo da dare alle parti successive, ieri sera ho capito che il poema non andrà oltre una terza parte. Meno male. Tuttavia l'idea di aver intravisto una fine mi angoscia. Dopo aver finito cosa scriverò? E' da un po' che ho l'impressione che questa sarà l'ultima cosa che scrivo in poesia.

lunedì 10 ottobre 2011

Guardigli e la musica del verso.

Qualcuno, un poeta dialettale mi ricordo, mi trovò banale quando gli dissi che per me andare a capo era solo una questione di respiro. Probabilmente aveva ragione.
C'è un motivo per cui ho adoperato l'immagine del respiro. Quando mi sono accorto che perdevo tempo col mettere alla prova la mia capacità di scrivere un romanzo mi dissi che per farlo occorreva un respiro più lungo del mio. Il respiro cioè di chi sa o può concludere un pensiero dopo una fila ininterrotta di righe che si sono distese interamente per disegnarne corpo e arti. Ma non posso dire che scrivo in versi perché non ho il respiro lungo della prosa!
Scrivo in versi per un altro motivo. Per quel motivo che Guardigli mi ha convinto a fare mio nonostante la mia riluttanza. La poesia ha un ritmo, una musicalità proprie, diceva. Quando hai il tuo ritmo in testa vai a capo in automatico. Il tuo verso libero non ha un metro fisso, trovare il tuo ritmo di volta in volta non sarà facile.
Non è questione di respiro lungo o corto. Ma ho sempre un ritmo in testa cha devo rispettare. E' quello che detta la lunghezza del verso.
N. risolve la questione parlando di tonalità, di tono del dire. Ma credo sia la stessa cosa.

Il campo protegge non offre impunità.
La cantina apre a sera non un ubriaco.
Mai visto donne.
Il campo protegge e dimidia.
Qui lavoro manuale e servile garantiscono
vite solitarie.
Dopo la pioggia sui sentieri compaiono
vermi, vesciche gonfie spurgate
dalla terra.

***

A volte la memoria non seleziona, forse sempre.
Te ne accorgi quando richiama lo sgradito, il turpe.
Così l'inconscio quando accende i sogni.
Ti chiedi dove ha trovato quella materia.
Pensi che sia sentina, vive invece con te
nella rete invisibile del presente.


Non mi sembrano da modificare. Mantengono il ritmo. Devo stare attento a non esagerare con il tema della memoria, rischio un po' di compiacimento. Il tema è necessario ma non può essere ripreso ad ogni passo.

***

Un brusio che ora s'infittisce ora si sgrana

Ci muoviamo, ci incontriamo, parliamo, ci tocchiamo. Con leggerezza, con gravità, con passione, con allegria. Ma  un brusio che ora si infittisce ora si sgrana, che viene da lontano o procede qui davanti, esiste intorno a noi, qualcuno lo intuisce ma il poeta, lui solo, lo traduce in parole. Patrimoni di saperi, vicende narrate, potenze, soggettività si intrecciano e formano una dimensione invisibile, una compresenza immateriale. Un disegno a lapis, che pulsa, nel cuore delle città, nelle praterie, nelle valli di boschi.

giovedì 6 ottobre 2011

Andare a capo.

giovedì 6 ottobre 2011


Intorno alla metà degli anni sessanta c'era aria di interdizione alla scrittura. Sentivo dire cose tipo: dopo Proust, Musil e Kafka come si può ancora presumere di saper scrivere? E in poesia l'uscita dall'ermetismo non attraeva ancora più di tanto (nonostante o a causa del gruppo '63!). Ma quella interdizione aveva caratteri di natura diversa da quelli letterari. Chi diceva così era attratto dal sentimento della necessità di un impegno totale nei movimenti politici di trasformazione del mondo. Così in particolare è stato nel '68. Se poi si aggiungeva a quella anche una interdizione personale risalente alla propria storia, come nel mio caso, c'era di che disperare della legittimità di una scelta di vita dedicata alla scrittura più o meno artistica. 
Cos'ha a che vedere tutto ciò col fatto che quella che potrebbe essere la mia prossima raccolta di poesia abbia una cadenza così prosastica sia nelle parole che adopero che nel ritmo? Ormai ho consapevolezza che il mio verso ama narrare. Non certo perché seguo una moda, è una caratteristica originale del mio scrivere.  Tuttavia è vero che là dove trovo accoglienza ciò accade proprio perché narrare non è interdetto. Ciò ha un' automatica conseguenza con la maggiore o minore prosasticità del verso? Qual è il limite che non va superato perché continui ad aver senso l'andare a capo del verso?

mercoledì 5 ottobre 2011




Mi sono sentito dire che a Milano poeti e poete sono animati dall'invidia, l'uno/a contro l'altra/o. Qualcosa in effetti ha sfiorato anche me. Immeritatamente direi! Ma penso che le cose non stiano propriamente così. Credo che nella maggior parte dei casi chi semina in giro questo genere di cose è proprio lui ad essere invidioso. Giusto il detto che ciascuno giudica sulla base di ciò che lui stesso è. Conosco un poeta di questo genere. E' un ragazzo intelligente. Vede invidiose/i dappertutto. Quando poi gli proponi una cosa tua da leggere prima o poi, bontà sua, ti dice che invidia questo o quel tuo verso. Qui c'è il dubbio legittimo che sia un modo per dirti che, a parte questo o quello, tutto il resto è da buttare. Ma se la faccenda si ripete in  occasioni diverse la sua diventa una tiritera sospetta. Alla lunga ho in effetti capito, conoscendolo meglio, che la sua invidia è davvero costituzionale. Per difendersene lo dice apertamente ad ogni piè sospinto, difficile poi pensare che sia davvero invidioso!
Credo di essere invidioso. Ma non è da dirsi apertamente. Perché è già fonte di vergogna intima. Ma invidio la molteplice cultura di chi ce l'ha. Per una certa quantità di motivi, ma comprendo anche la pigrizia, mi sono giocato una preparazione generale sicura e approfondita. Per un poeta non è giustificabile. Per il poeta contemporaneo poi non ne parliamo.
Il fatto è che quando ti manca l'estro per proseguire, un verso un po' più letterario magari aiuterebbe. Ma per l'appunto occorre conoscere, avere letto molto.
Non mi nascondo che non è affatto detto che poi non me ne libererei, una volta ritrovata la vena. Sono proprio avverso alle raccolte di poesia organizzata su temi che hanno alle spalle una messe secolare di trattazione in versi e in prosa cui attingere, consapevolmente o meno. Il peggio è ovviamente quando avviene inconsapevolmente.  Leggo così quantità industriali di versi dei quali  non si avverte che siano percorsi da un'intima necessità, in compenso senti spesso che nascono per affiliazione ora di senso ora di suono con le parole o i versi precedenti. Sono autori o autrici dotati di grande capacità  di articolare, stabilire contatti e nessi, affiliare immagini lontane e vicine. Pregi indubbi di molti versi, spesso restano nella memoria con facilità per la loro capacità di spiazzare, sorprendere, stupire. Eppure sento in essi la mancanza di un'anima. C'è molta poesia petrarchesca tra di noi, minore poesia dantesca.

***
mercoledì 5 ottobre 2011

Peter
Da un giorno all'altro Peter scompare. Chissà che fine ha fatto. Era allegro, fastoso di allegria. E così finivi col chiederti quanta disperazione tenesse per sé. Studia, studia. Studia l'inglese, lascia perdere quella roba. Shit. E accompagnava la parola con un gesto indispettito della mano. Aveva forse un paio d'anni meno di me. Oggi dunque dovrebbe essere vicino alla settantina.
C'è qualcosa di significativo nel fatto che ho ripescato nella memoria prima il nome di Orlando, l'ex magliaro che guidava il furgone nel campo inglese ridistribuendo viveri a mense, pub, magazzini, e poi di seguito quello di Peter? Peter fece l'aiutante di Orlando per qualche mese finché sparì. E io presi il suo posto. Chiaro che desidero dare sostanza di carne e ossa alla seconda parte. Ricordare i nomi, senza una mia apparente volontà di farlo, è un aiuto che mi sono dato.
Ci sono almeno un paio di versi irrinunciabili per Peter, di quando lui racconta della straordinarietà della natura in Australia. Racconta soprattutto di ragni, ne conosce di tante specie, li classifgica a seconda della loro ferocia.
Ho scritto così per ora, saranno sue parole:
La natura è stupida e feroce, otto milioni di uova per fare un salmone.
Occhio al ragno saltatore, si solleva fino ai tuoi occhi
e lì colpisce.


***

martedì 4 ottobre 2011

Peter

martedì 4 ottobre 2011


In qualche modo godevo di quella vita, ma ogni tanto in questi giorni mi chiedo cosa ci facessi a Colonia nell'inverno del '63!
Comunque Peter, tanto più ora che ricordo il nome, me lo ricordo bene. Fulvo di capelli arruffati usava un inglese molto friendly che capivo bene. In effetti dedicavo allo studio di grammatica e lessico almeno due ore al giorno. Gli occhi sfuggenti non faceva nulla per evitare che scintillassero la propria follia.
Credo avesse dell'acrimonia verso la mia predilezione per i libri, la storia, la poesia. Lui l'avventura. Lavorando solo qualche mese all'anno e occasionalmente dove si trovava, girava il mondo. Quando eravamo a tavola per il magro lunch dello staff, senza che glielo chiedessi, esaltava con gli altri la mia dedizione allo studio. Non ho mai capito quanta ironia usasse ma c'era, c'era!

sabato 1 ottobre 2011

Poema, poema.

sabato 1 ottobre 2011


Ormai lo chiamo poemetto. E ora avanza a singhiozzi.
Certo, aver letto in pubblico e dato da leggere la prima parte che ho chiamato La solitudine di Schenk, è stato positivo, tutti i commenti, o quasi, sono stati positivi. L'osservazione più sorprendente è venuta da Silvio. Non l'ho capito, ha detto. Terribile. Avesse detto che non  gli era piaciuto avrei retto meglio. Dire che 'La solitudine di Schenk', coi miei versi più 'prosastici' di sempre, non l'aveva capita non stava né in cielo né in terra. Insomma non ho capito l'insieme, l'atmosfera, il contesto. Sono rimasto in silenzio a riflettere. Vuoi vedere che quella breve introduzione che avevo in animo di premettere al poemetto è più necessaria di quanto pensassi? Gli ho chiarito quale fosse appunto il contesto, a cosa e a chi mi riferivo, la situazione. Proverò a rileggerla. Qualche giorno dopo, che lui se n'era andato da Esino e a Milano aveva ripreso in mano la cosa, mi ha richiamato e il giudizio questa volta era buono. Ma vattelapesca. Quando dai da leggere qualcosa di tuo non sai mai cosa puoi aspettarti. In ogni caso è vero che in tutte le precedenti situazioni alla lettura ho fatto precedere qualche notizia su quell'episodio della mia vita giovanile che i versi rammentavano, e forse ciò aveva spianato la via ad una accoglienza più immediata. Inoltre ho presentato quei versi come una prima parte. E lì per ora sono rimasto. Da ora in avanti su queste pagine vorrei aggiornare più o meno quotidianamente la situazione della composizione delle parti successive.
Ho recuperato qualche settimana fa a Esino il nome dell'australiano, quel ragazzo vivacissimo che ha contribuito, non ho mai capito con quanta intenzionalità, all'incidente in cui mi sono spaccato l'anulare della mano destra sotto la pressione di una sbarra di ferro. Ma non fu tutta colpa sua. Di Peter. L'enorme carrello portavivande lui lo spingeva da dietro io lo tiravo davanti. La bella idea, in preda evidentemente a una euforia ludica, fu quella di sollevare le gambe ad angolo retto contando sulla spinta continua di Peter, il quale invece ha mollato la presa. Il carrello si è sollevato da dietro e il davanti sotto il mio peso si è schiacciato al suolo, io ho lasciato le mani sotto la sbarra sulla quale mi ero sollevato. Fortunatamente il carrello si è piegato in parte su un lato   e lo schiacciamento ha interessato il fondo schiena, con postumi che risento ancora oggi dopo cinquanta anni, e la mano destra, l'anulare in particolare che è scoppiato. Per il dolore sono svenuto e ho ripreso conoscenza su un tavolo della dining room con addosso la faccia premurosa di uno dei cuochi che mi confortava, quel cuoco era inglese ma non ne ricordo il nome. Take it easy, take it easy...

venerdì 30 settembre 2011

La solitudine di Schenk

Indicazioni
    …a ben vedere non c’erano obblighi
solo inviti, indicazioni di percorso.
Eppure qualcuno si sentiva addosso
un destino, come una condanna.
Si interrogavano i più, segno
che la questione importava,
se la libertà nel cammino era totale.
I giovani, usciti dal liceo,
ne parlavano per strada
tra un semaforo rosso e l’altro

    quel trattato di Pisacane,
Saggio sulla rivoluzione,
faceva mostra di sé
sulla bancarella di libri usati.
L’edizione era vecchia, ma la copertina
di colore grigio topo,
aveva resistito bene all’usura

    quei due ragazzi visti controluce sulla darsena
avevano movenze da danzatori
si contendevano tra i piedi un sasso
finché uno dei due di esterno destro
lo infilò dritto nel tombino

    la cappella situata nei pressi della scuola
ospitava qualche studente solitario
la sua preghiera mattutina era muta
la volta a crociera lo avvolgeva invece con calore

    chiamava alla responsabilità personale
verso il sacro con ferma virilità.
Chi avvertiva in sé l’imminente perdita
ne restava intimorito.
Nella memoria quella virilità non fu intaccata,
l’insegnante di religione, come poi si seppe,
era stato invece allontanato a divinis.

***

La solitudine di Schenk 

Per fissare i rinvii della memoria
è utile il disegno di una mappa.
In quel territorio s’intrecciano tuttora
sentimenti e progetti. Più a Nord rispetto
ai due campi, è certo,
turchi, greci, spagnoli, italiani abitano
periferie chiassose dove le risse scoppiano
frequenti.           

A Sud i due campi contigui sono separati
da una fitta rete di ferro.
Gli abitanti del campo a Nord,
per entrare in quello a Sud, devono possedere
un pass, il più delle volte non serve,
i volti infatti sono quasi sempre gli stessi.
Stagionali e avventizi sono rari
ma forse è la memoria che immobilizza
lo scenario.

Dieter sciancato, rifugiato dall’Est, parla inglese,
è convinto che la libertà assoluta non esiste
“…ma voglio essere libero di scegliere
le mie schiavitù, you see?”.           
A est del campo, lasciando correre lo sguardo
lungo la pianura fino all’orizzonte,
tutto appare deserto, è non conosciuto.

Qualcuno potrebbe dire che qui
l’unica religione è il lavoro.
Sul permesso di lavoro, controfirmato da un
religioso, deve comparire la religione professata.
Con qualche insistenza si riesce infine  a ottenere,
evitando il balzello, la scritta keine religion.

Tra versi petrarcheschi e ragazze Carla
le indicazioni non abbondavano,
tra erbe e rami fioriti e tic tac di macchina da scrivere
si poteva imboccare un sentiero poco noto,
forse una scorciatoia oppure il contrario.
A Ovest  i bassi casamenti sono depositi
per ricambi di lenzuola, coperte
e qualche altro comfort. Non lesinano
nella distribuzione anzi invitano a una cadenza
settimanale, per non trascurare l’igiene.

La memoria ha fissato un tempo duraturo,
un inverno inoltrato, un principio d’estate, un sole a tratti,
un verdeggiare fresco e sul piazzale delle passioni
al cambio di turno l’incontro regolare con Schenk
- Wunderschön, ah?
- Wunderbar…
Alla cava vicina lo spettacolo è assicurato, corpi
al sole, trasparenze.

Dieter passeggia conversevole trascinando il suo piede,
indica due caccia americani che sfrecciano nel cielo,
ricorda la sua fuga nel bagagliaio.
Forse è per questo che frequenta il vicino aerodromo
per alianti. Quando è in alto e il suo apparecchio si sgancia
dice che urla per la libertà e la bellezza.
A leggergli versi in italiano si lascia cullare,
non capisce, gli piace la musica che faccio.

Sicuramente la memoria ha fissato da tempo
la mappa dei luoghi, degli incontri.
Bastava solo ridarle occasione,
questa storia, ma verrebbe da pensare ogni storia, 
scritta era scritta da tempo,  
bastava trascrivere il tutto come sotto dettatura.

Al cambio di turno nei pressi del cancello minore
la solitudine di Schenk si staglia ogni giorno,
non è tanto la sua notevole altezza, la magrezza
ma l’impronta dello sconfitto dalla vita.
-Tu studi la Storia, non ne caverai niente.
Da tremila anni è bloccata, è sempre la stessa.
Sarai solo anche tu.
Quando esce dal suo casamento nella rientranza
della sua finestra accomoda terra e acqua
nel piccolo vaso dove a volte
fiorisce un fiore rossastro.

L’entrata è dal Main Gate, situato a Est,
chiedono il pass solo la sera al rientro
da scorribande notturne nei quartieri a Nord,
veri e propri dormitori, attrezzati con qualche verde
e di presidi sanitari dove s’incontrano mogli
e madri turche, italiane, greche, spagnole
con i figlioli vocianti. L’intreccio delle lingue
le fa esplodere tutte in risate concilianti.
L’entrata nel campo è dal Main Gate dove
talvolta sostano due cani pastori tedeschi.
Si tratta solo di una coreografia di qualche
malizia, il conduttore dei cani chiede il saldo
di un debito dimenticato.

Schenk non commette errori, quando esce
punta diritto verso il sentiero in terra battuta
e lo segue. Non vigila su nulla e per l’habitat
non è possibile distrarsi per alcunché
- il verso è una misura d’uomo, non più in là
di tanto né meno, un equilibrio interiore.
Il suo passo sottile, come una lametta
incide il sentiero in silenzio
- a volte inseguo il pensiero e non trovo
la parola. Se qualcuno è vicino a te puoi
chiederla a lui, la prima che dice.

***



martedì 27 settembre 2011

Preliminari

estate lunga
corta la peripezia
fenditore che assali
ombre, castelli
che senso dai
al tuo canto?