venerdì 29 novembre 2013

La solitudine di Schenk


giovedì 5 dicembre ore 18,30 – via Tadino,20 – Milano Happy hour & reading

Paolo Rabissi: LA SOLITUDINE DI SCHENK

Introduce Tiziano Rossi.

L'opera fa parta di un poema più ampio dal titolo INVERNO A COLONIA,  caratterizzato da un felice ritorno alla poesia epica e abitato dalla tensione etica verso i grandi problemi del nostro tempo.

sabato 23 novembre 2013

I tranvieri di Genova e la lotta di classe.

I conti cominciano a tornare per il nostro capitalismo. E' notizia di oggi che la ricchezza media degli italiani nel 2012 è aumentata del 5%, si tratta beninteso della ricchezza proveniente dal mercato finanziario. Contemporaneamente di conseguenza hanno debuttato sulla scena 127 mila nuovi milionari. Contemporaneamente e di conseguenza sono andati perduti 500 mila posti di lavoro.
Ha ragione il mio amico N. a leggere questi fatti come l'eterno scontro tra ricchi e poveri. Lui ovviamente sta dalla parte dei poveri. Ma come convincerlo che né i ricchi né i poveri sono entità eterne e naturali per i quali c'è ogni tanto l'intervento della divina provvidenza? Lui è un conservatore illuminato ma chi regge la baracca è solo portatore dei valori della destra e del centro dello schieramento liberale del capitalismo. Che oggi significa finanziarizzazione dell'economia.
La lotta di classe, quella che ha spiegato che all'interno della società industriale ci sono due classi che si contrappongono e che lottano a testa bassa per dividersi l'una i mercati l'altra quello che dalla rapina organizzata sul lavoro riescono a strappare con la lotta in fabbrica, la lotta di classe oggi è stremata per manifesta inferiorità di una delle due. Lungi dall'essere scomparsa, la lotta di classe oggi accumula sempre più ricchezza nel territorio della classe uscita vittoriosa nell'ultimo scontro, mentre nell'altro, nel territorio della classe sconfitta, il deserto avanza.
Nel secondo dopoguerra quella stessa classe vittoriosa  ebbe la meglio sul medio periodo: per circa dieci anni, 45 - 55, approfittando della temperie politica nazionale e internazionale, compressione dei salari e dei posti di lavoro hanno permesso al capitalismo nostrano un'accumulazione di capitali che è servita in certi casi per nuovi investimenti e per allargare i cordoni della borsa a partire dalla fine degli anni cinquanta (il boom economico) in modo che la massa dei lavoratori e lavoratrici cominciasse ad assaporare il democratico consumismo. Le lotte operaie che hanno aperto un ciclo vincente, superiore alle intenzioni del capitale, hanno rivalutato il lavoro e inciso in maniera determinante a creare il Welfare.
Oggi la vittoria del capitale internazionale è riuscita a creare la stessa situazione del dopoguerra: la situazione di sconfitta operaia e di svalutazione del lavoro creano ancora disoccupati e miseria da una parte e accumulo di ricchezza dall'altra.
Ne dovrebbe seguire, secondo quella logica, una ripresa delle lotte operaie per riconquistare la dignità del lavoro e dei salari.
Tutto lascia pensare che non sarà così. Anche se a Genova i tranvieri ci riprovano.

domenica 18 agosto 2013

'La camera da letto' di Attilio Bertolucci. L’epica del quotidiano nel secondo Novecento.


Dal numero 6 di Overleft *
In un articolo, apparso nel lontano 1954 sulla ‘Gazzetta di Parma’ [2] intitolato ‘Il libro per la sera’,  Attilio Bertolucci confida al lettore l’abitudine antica e amatissima di portarsi un libro in ‘camera da letto’, la sera, ‘per una lettura intima, che consoli della giornata finita e aiuti contro la notte imminente’. Il libro per le sere della sua lunga infanzia e adolescenza, confessa poi, è stato quasi esclusivamente un romanzo, anzi ‘il’ romanzo, La ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, tanto che Bertolucci, in chiusura di articolo, si sente in dovere di giustificare la mancata citazione di ‘almeno un libro di versi’. E, proprio ragionando sulla poesia, il poeta conclude con una nota su di essa: privilegio supremo della poesia, insieme alla musica, è quello di donare una ‘sequenza di versi incorruttibili e indistruttibili’ che rappresentano una ‘gioia per sempre incarnata in noi sino alla morte’.
La lunga operosa fatica del poeta del ‘romanzo famigliare in versi’, che durerà trent’anni, dal 1957 al 1988, anno della pubblicazione del secondo e ultimo libro col titolo ‘La camera da letto’, sembra possedere in sé la strenua volontà di donare al lettore italiano di fine novecento quella sequenza di ‘versi incorruttibili e indistruttibili’ che, calati nella forma del poema epico-lirico, vadano ad aggiungersi,
romanzo tra i romanzi, al ‘libro della sera’.
‘Che consoli della giornata finita e aiuti contro la notte imminente’.
Che conforti, rammemorandola, della frazione di vita irrimediabilmente trascorsa e conceda di prolungare il tempo della luce fino a  sporgersi nel territorio della notte.
Il dono di una poesia che consoli dell’impossibilità di arrestare il Tempo.
Il poeta, nel dire il proprio personale romanzo in versi (con al centro se stesso e i propri affetti familiari), non potrà che avere il tono dolente, armato di pietas, di chi, consapevole della caducità della condizione umana, osserva compiersi il proprio destino in un processo inarrestabile.  Il tono della voce dovrà evitare strilli o acuti affinché il sentimento inconsolabile della fine di una giornata, e dell’avvento della morte apparente del sonno, non finisca col cedere alla disperazione; dovrà quella voce echeggiare piuttosto che rimbombare, scaldare piuttosto che bruciare. Sarà una voce cordiale, colloquiale, intima. Che riuscirà però a dire l’inesauribile amore per la vita, la luce, la poesia. In questo modo quella voce consolatoria riuscirà a ingannare la notte prolungando la luce ravvivandola proprio nel momento in cui la carne sta per cedere all’abbraccio del sonno. Saprà accompagnarci sin oltre le soglie del buio.
Nell’atmosfera in cui il poeta  invita il lettore  il mondo reale è rivestito d’una coltre diafana e preziosa che nello smorzare i toni più accesi libera mille composizioni di colori pastello. Siamo nel mondo della rêverie,  un mondo a metà tra sogno e realtà, un territorio che si stende negli interstizi tra luce e ombra, tra giorno e notte, tra vita e morte. Dove il paesaggio affascina inquietando, seduce e turba, spaventa e attrae.
E’ un luogo dell’animo e del corpo, che è tutt’uno col mondo poetico di Bertolucci, nel quale è possibile il godimento di momenti di sospensione dello scorrere inesauribile e inarrestabile del tempo, come extrasistoli della coscienza [3] in cui la mente può per un attimo perdersi al sicuro nella luce: avviene così in ‘Il bambino che va a scuola, a sei anni’ (terza sequenza del capitolo XI) [4]: ‘sul mattone poroso della soglia’ di casa il bambino viene assalito da una voglia di non muoversi più, di  smarrirsi, dimenticando la fame e la stanchezza, godendo “... la luce / che assorbita dalla grana del muro / vicinissimo agli occhi, si fa / incendio, guancia amata, geranio, / su cui s’affissa, e perde, la mente.”.
E’ una ricerca solitaria (che tiene Bertolucci volutamente separato dalle correnti e dalle scuole poetiche novecentesche) nella quale il poeta cerca e trova un risarcimento alle ansie e alle ferite procurate dal mondo reale. E’ un territorio franco, avventuroso per le gaggie che crescono perdutamente: non sui campi ben coltivati dei proprietari terrieri e nemmeno sui campi dei servi o dei contadini poveri ma negli spazi selvatici:‘...specie a sé / che vigoreggia senza cura di nessuno / in terreni mal esposti e trascurati.’ [5]
E' il luogo dove è ancora possibile mostrarsi grati alla sorte per aver conosciuto il sole, l’acqua, il vento, il fuoco della campagna; per aver conosciuto affetti familiari quotidiani: le tenere ansie causate dagli abbandoni nella fanciullezza, il calore della cena a famiglia riunita, l’avventura della scoperta della sessualità e poi dell’amore, i piaceri e le angosce della paternità. Un mondo separato da dire sottovoce perché il tempo reale, quello del neocapitalismo e del consumismo incombenti a partire dagli anni ’50, tutto ciò brucia e relega all’angolo.
Il lettore, attutito il sentimento troppo acuto della sofferenza esistenziale, lascerà che il poeta lo introduca in un lungo viaggio della memoria. I capitoli ( in tutto 46 per 9400 versi), divisi in sequenze, lo accompagneranno dentro vicende tristi e liete: prima tra gli antenati di Bertolucci, poi nelle tappe successive della sua formazione e della scoperta della vocazione al ‘vizio consolatorio della poesia’ [6], poi tra le  ansie, le ferite ma anche le felicità familiari come figlio marito e padre. Sentirà il tono dolente di chi assiste impotente al lento ‘dissanguarsi dei giorni’ [7], alla loro perdita, sperpero e consunzione ma contemporaneamente lo accompagnerà la volontà affettuosa e amichevole del poeta di rallentare, di fermare il tempo.
Col tono disincantato dell’uomo maturo che ci accompagni in visita a una sua antica ma lussuosa dimora della quale si intuiscono ancora, per le  suppellettili rimaste e  le decorazioni, la bellezza e la ricchezza ormai definitivamente trascorse e perdute, il poeta  si soffermerà volentieri sulle vicende che l’hanno animata, si abbandonerà volentieri ai ricordi, tanto che finirà col prevalere in lui ( e in noi che leggiamo), al di là del disincanto e del rammarico dolente, quell’intenso piacere, appena velato dal pudore e talvolta dall’ironia che intervengono a evitare il rischio del narcisismo ( o addirittura del ‘divino egoismo’ amorevolmente imputatogli da Sereni [8]),  che gli procurano lo scavare e il sostare nella memoria del proprio vissuto.
Bertolucci, sulle orme di Proust, si concede a un lavorio paziente, a volte ossessivo, in una sorta di pedinamento vigile della memoria, pronto a prenderla di soprassalto, capace com’è, ‘intermittente e infida’ (cap. XV, Viaggio alla terra dei sigari [9]),  di mascherature e rimozioni.  Nello strappare alla memoria “un altro giorno bello o brutto, sempre degno di lode e di rimpianto” [10], si prolunga il tempo, lo si costringe a rallentare. Perché vengono recuperati attimi di vita che si erano perduti. Veniamo allora trasportati in una dimensione ora favolosa, ora epica, ora elegiaca in cui ogni attimo, ogni giorno, ogni stagione, tra città e campagna, tra gioie e affanni, tra malattia e salute, tra ozio e lavoro, vengono raccolti e fatti pulsare nel verso.
Quel verso non potrà fare a meno di trascinare con sé ossimoricamente l’angoscia del consumarsi della vita. Per grande che sia il materiale che Bertolucci riesce a strappare alla memoria, in un gioco che potrebbe durare all’infinito, il verso (che per stare dietro all’ingordo desiderio di recupero memoriale si prolunga all’infinito per coordinate e subordinate, con una tecnica di accumulo ansioso che va, a mio parere, oltre la misura ordinata della sintassi latina che alcuni critici hanno intravisto, ma che mette sicuramente fine a qualsiasi metrica di scuola) il verso, dicevo, non smetterà mai di germinare anche da quella consapevolezza. E accanto agli dei benigni suscitati in noi dalla “riga cangiante delle anatre in marcia” [11], ci saranno sempre i fantasmi liberati da voli di passeri imprigionati negli specchi, volando via dai quali lasciano  “laghi azzurri di morte” [12].
Né le ironiche considerazioni sulla propria condizione di ‘medio proprietario agrario’ possono evitare che lo sguardo del poeta, quando si posa sulla campagna ordinata e fiorente della pianura intorno a Parma, tradisca qualche nostalgia per l’ormai vecchio mondo patriarcale che sta morendo, lasciando il posto alle più efferate e rapinose logiche del profitto e, aggiungiamo noi, a una critica più approfondita che di quel patriarcato mostrerà aspetti tanto poco nobili quanto insospettati [13]. Né il sensibilissimo verso può sfuggire all’eco  di un presente nel quale sono tramontate da tempo l’epica e l’elegia. Quando nella scrittura il tono della voce è tentato da slanci di questo genere, la coscienza del poeta interviene a ristabilire l’equilibrio. E il linguaggio, in anticlimax, torna a essere colloquiale, domestico, feriale.
Tutto ciò contribuisce a dare al poema quella dimensione di mezzo tra slanci lirici dell’immaginazione e prosa quotidiana della realtà [14] nella quale viene tessuta una sorta di autobiografia sognata [15].  Al lettore resta tuttavia qualcosa in più. E’ il brivido di sottile piacere per l’esistenza. Che giunge a noi dalle carezze del vento, dalla tenerezza del rosa e del celeste delle sere, dalle piogge tiepide come lacrime, dalle nebbie molli come lana calda che si straccia al sole, dal lucore umido del sole sui selciati. E, con altrettanto piacere, dagli affetti scambievoli, dalle pene solitarie, dalle vicende pubbliche; Bertolucci mette tutto in mostra, espone con coraggio tutto se stesso senza  scadere nell’esibizione:  il suo vissuto personale fino a toccare l’intimità, la sua vita pubblica fino a rasentare la Storia. Con delicata sobrietà, come dice il critico Raffaeli [16]. Ma infine invita, sia pure con  pudore anti-novecentesco, al vizio di vivere, al vizio della luce prima del sonno. Il volo dei versi di Bertolucci, e non solo ne ‘La camera da letto’, è come quello degli uccelli che segnano l’ora che trascorre stampando sul terreno la loro “ombra fuggitiva” [17] La loro ombra così sottile, inconsistente  e rapida si staglia comunque sul terreno grazie alla luce del sole. Nella complessità di un testo che come pochi ci ha “tanto nutriti e appagati” [18] è “il miele della luce” [19]quello che conta. E’ l’ostinata volontà di “ripetere la luce” già presente in “Viaggio d’inverno” [20]. Perché ne brillino anche i mucchi d’immondizia come ancora in  “Viaggio d’inverno” , o il letame fino a renderlo di rame o d’oro ne “La camera da letto” [21]. Nell’amatissima campagna, nella quale è sempre concretamente presente la mai redenta (nemmeno dalla lotta di classe) fatica dei contadini, la luce, fuori da qualsiasi metafisica, è semplicemente motivo di gioia, di speranza, di vita. Lo sguardo, acuto e mobile, è impegnato con un piacere tutto fisico a coglierla nelle più minute manifestazioni della natura [22]: nell’avventurarsi luminescente dell’acqua tra le pietre dei torrenti, nello scintillio segreto delle zolle appena aperte, nel luccichio notturno delle ragnatele bagnate e delle bave delle lumache. In qualsiasi ora del giorno: nel “pallore delle albe” [23], nei “mezzogiorni frananti dall’azzurro” [24], nei “tramonti smerigliati” [25].
* Il saggio, in versione un po' diversa, è comparso la prima volta nel 2001 su La mosca di Milano.
NOTE

[1]Ora in: A. B., Opere, Mondadori, 1997, pag. 469 - 807.
[2] Sta in Aritmie, Opere, cit., pag. 990.
[3] ‘Poetica dell’extrasistole’, è titolo del saggio che apre l’intera raccolta
di prose ‘Aritmie’.
[4] A. B., La camera da letto, cit., pag. 540.
[5] A. B., La camera da letto, cit., pag. 619.
[6] A. B., La camera da letto, cit., pag. 653
[7] E’ uno dei temi ricorrenti nell’intera opera di B., vedi ad es. Viaggio d’inverno,
Opere, cit., pag. 251. E’ un’opera del 1971.
[8] Vedi ‘A Parma con A. B.’, in Stella variabile: V. Sereni,Tutte le poesie, Mon-
dadori, 1986.
[9] A. B., La camera da letto, cit., pag. 565.
[10] A. B., La camera da letto, cit., pag. 523.
[11] A. B., La camera da letto, cit., pag. 538.
[12] A. B., La camera da letto, cit., pag. 596.
[13] Mi riferisco alla letteratura critica di matrice femminista con la quale è stato
evidenziato il ruolo di sopraffazione del maschio sulla donna che l’ha relegata
al margine nel mondo sociale, politico e artistico della cultura patriarcale.
[14]Parlando dei lavori in corso intorno al poema B., scrivendo a Sereni il 30 dicem-
bre 1970, così si esprime:”...le sequenze...partono bassissime (dover dire che ‘una
mattina di giugno del ‘30 la sorella della ragazza amata prima di venire in spiaggia
passa dalla farmacia...’) per poi impennarsi e finire chi sa dove...”. Si trova in A.
Bertolucci V. Sereni, Una lunga amicizia, lettere 1938 - 1982, Garzanti, 1994.
[15] E’ Bertolucci stesso a parlare del suo poema in termini di ‘longue rêverie’. Lo
fa anche scrivendo a Sereni, vedi ad es. la lettera dell’aprile 1965 da Roma:’Sto
scrivendo il mio poema...un po’ in sogno’.
[16] ‘Versi votati al più sobrio dei sublimi’: così definisce la poesia di B. M.Raffaeli
su Il manifesto, 15 giugno 2000.
[17] A. B., La capanna indiana:, Opere, cit., pag. 140. E’ un’opera del 1951.
[18] Così P. Lagazzi in Rêverie e destino, l’opera di A. Bertolucci, Garzanti, 1993,
che numerose considerazioni dedica proprio alla ‘luce’ nell’opera di B..
[19] A. B., La camera da letto, Opere, cit., pag. 592
[20] A.B., Viaggio d’inverno, Opere, cit., pag. 242. La raccolta è del 1971.
[21] A. B.,La camera da letto, Opere, cit., pag. 718.
[22] Interlocutrice fedele per B. risulta essere appunto la natura anche in Cinque
storie stilistiche, di A. Girardi, Marietti.
[23] A. B.,La camera da letto, Opere, cit., pag. 469
[24] A. B.,La camera da letto, Opere, cit., pag. 554
[25] A. B., La camera da letto, Opere, cit., pag. 470.

mercoledì 17 luglio 2013

Il numero 6 di Overleft



L'avventura di Overleft continua e con questo siamo arrivati al sesto numero. Il cuore di questo nuovo numero sono in particolare due aree tematiche: L'ALTRA GLOBALIZZAZIONE e DOPO IL DILUVIO, l'area tematica dedicata alla letteratura, al cinema e alle arti in generale.




Nella prima delle due aree, ospitiamo due interventi: un saggio di Aldo Marchetti, intitolato Gli scioperi più grandi del mondo e un'intervista a Naila Kabeer intitolata Matrimonio maternità, mascolinità nell'economia globale.

Il primo intervento riprende un tema a noi caro: le lotte dei movimenti in tutto il mondo, quella che noi chiamiamo globalizzazione positiva. Dopo le fabbriche recuperate in Argentina su cui ha scritto lo stesso Marchetti, dopo le lotte dei lavoratori della logistica in Italia in un articolo di Paolo Rabissi, è la volta di questi imponenti scioperi indiani che non hanno trovato molta audience sulla informazione mainstream.

L'intervista a Naila Kabeer riprende tutta una serie di temi a noi cari e che sono stati più volte oggetto di interventi redazionali o di singoli saggi, da parte di Adriana Perrotta, altri e altre: la femminilizzazione del lavoro, i rapporti fra i generi, i nuovi diritti.




In DOPO IL DILUVIO, due interventi: sulla poesia di Attilio Bertolucci, di Paolo Rabissi, e un altro sulla Profezia come genere letterario di Franco Romanò.

venerdì 28 giugno 2013

Lo sguardo su Berlino.


In una ventina di giorni abbiamo saccheggiato con lo sguardo la città.
Senza la conoscenza della lingua sei costretto a servirti soltanto degli occhi. Gli altri sensi sono anch’essi chiamati a un surplus di esercizio ovviamente.. Ma il naso e il tatto meno. Meno di tutti il tatto. Il naso in effetti lavora su materiale abbastanza inedito. Anzitutto il profumo di cucinati. Minestrone, brodo di carne, erba cipollina, curry, sesamo, cumino, caffè mit sahne, donerkebab, tutto mescolato insieme ti avvolge già verso le dieci del mattino quando ti sprofondi negli anditi delle metropolitane. E’ un afrore, ti prende alle narici e resta lì, non va più a fondo ma non ti abbandona più, neanche se esci sulle piazze sterminate che per attraversarle non bastano due semafori, neanche se si mescola agli odori di qualche umano maschio o femmina che sia. Finisce che lo cerchi, sfuggente e intenso, colto e perso in un metro di banchina. Ma in fondo niente altri impegni per il naso. Solo in qualche zona ti arriva grato il profumo dei tigli, di per sé beatificante ti gratifica ancora di più se i filari sono lunghi sulla allee. Ma in Unter den linden la delusione è grande, ne hanno rimessi solo un centinaio delle migliaia che c’erano prima che i nazi li spianassero per fare più grandi le adunate..
Con l’udito non c’è storia. I rumori sono quelli delle grandi città.  Il treno,  Ubahn o Sbahn che sia cioè in sotterranea o in sopraelevata, sferraglia proprio come un treno velocissimo e potente nel cuore della città su una superficie che è otto volte quella di Milano, pari a quella di NYC. Stazioni di ferro, di acciaio e cristalli, percorsi di ferro sui ponti di ferro sullo Sprea. Le porte si aprono e chiudono con jingles che sembrano tutti accordi delle sinfonie di Beethoven e forse lo sono davvero. Anche il rumorio di auto e macchinari in azione è uguale a quello di Milano o di qualsiasi altra città europea.
La vista dunque. Ma non è come a NYC. Lo sguardo lì è costretto continuamente a guardare in alto. I giochi dei riflessi dei grattacieli gli uni negli altri tengono la tua testa alzata, ma tieni la testa alzata anche perché sai che lassù in alto si avvicina il Central Park al termine della avenue che sale o perché al contrario sai che laggiù si avvicina Battery Park al termina della avenue che discende verso la foce dell’Hudson e dell’Est river. A Berlino è diverso perché i palazzi sono alti ma non troppo e devi subito fare i conti con la loro struttura quadrata, rettangolare, esagonale ecc. Figure geometriche classiche cioè armoniche cioè leggere, quasi un paradosso. Lungo i viali spaziosi non incombono, massicci e solidi nello spazio ma mai pesanti. Respirano su larghe piazze, spesso così grandi che rinunci ad attraversarle. Si defilano con eleganza se costeggiano lo Sprea, anzi lì scopri la loro vocazione ai vuoti architettonici che liberano spazi con arcate, portici e colonnati neoclassici. Un’architettura sobria e concreta, viva e sonora. Colpiscono la varietà, l’audacia e gli effetti coloristici delle soluzioni formali dei palazzi moderni (sono stati chiamati a realizzarli architetti di tutto il mondo tra cui Piano) ma quelle forme neoclassiche sono meno decadenti e ingenue di quanto la mia ignoranza mi faceva pensare. Qui infatti ti ritrovi davanti a estesi quartieri di fattura settecentesca, ancorché rifatti ma fedelmente dopo le distruzioni belliche, omogeneamente neoclassici al punto che ti sembra di entrare ogni tanto direttamente negli spazi della scuola di Atene di Raffaello. Colonnati, porticati, frontoni, spazi vigorosi con statue e fontane che adornano cortili e piazzali. Da manuale cinquecentesco. Anche perché sono i palazzi civili a prevalere, chiese non ce n’è o vivono una vita appartata. In quella che è forse la più bella piazza di Berlino, la Gendarmenmarkt, ci sono sì contrapposte due chiese, quella luterana per i tedeschi e quella  ugonotta per i francesi fuggiti dalla Francia a fine seicento, ma non hanno alcun peso religioso nemmeno formale perché ora sono due musei e comunque nella piazza dominano elegantemente neoclassico il teatro costruito da Schinkel durante la Restaurazione e il monumento a Friedrich Schiller.
In ultimissima annotazione non puoi fare a meno di renderti conto che il gotico non è passato da qui. Sembra quasi impossibile. Eppure quello stile che ha contribuito  a riempire di chiese tutta l’Europa ma soprattutto l’Italia dove si è innestato sul romanico, non ha lasciato gran che in tutto il Brandeburgo. Qui a Berlino una delle poche testimonianze è una chiesetta bicuspidata nei pressi di Alexanderplatz. 

lunedì 24 giugno 2013

Il muro di Berlino e il Caos



Del muro di Berlino è rimasto un pezzo lungo un chilometro e qualcosa . Costeggia lo Spree. Il territorio tra il muro e l'altra sponda del fiume era considerata zona neutra, chi cercava di attraversarla difficilmente sfuggiva alle mitragliatrici della DDR e veniva giustiziato sul posto. Dieter lo sciancato che ricordo in Inverno a Colonia era scappato per un'altra strada, nascosto dentro la fusoliera di un piccolo aereo. Rivedendo oggi il muro mi è tornato in mente, per la prima volta mi sono posto il problema se Dieter vive ancora nella Germania unificata. Oggi dovrebbe avere più o meno settant'anni come me, senza incidenti di percorso è realistico pensarlo vivo. Ma l'italiano non lo conosceva e quindi difficilmente può aver intercettato il mio blog (che altri seguono in Germania). Parlava un inglese maccheronico mentre oggi i tedeschi, quando si accorgono che sei straniero, per risponderti mettono automaticamente il disco inglese che è come una seconda lingua materna per loro che lo studiano dalle elementari, se poi vedono che non capisci allora si bloccano e chiedono aiuto increduli. Dieter non parlò mai della sua avventura, preferiva chiedermi in continuazione appena mi vedeva che cosa avrei fatto se fossi entrato in possesso di un milione di dollari! 

Il muro rimasto è un'opera d'arte en plain air per via dei murales che lo ricoprono interamente. Ne esci come puoi uscire dal museo Bergruen dopo aver visto un centinaio di Picasso e altrettanti Klee. Sbalordisci e ti affatichi un po' di più perché devi fare i conti con il cielo vastissimo e mobile di nuvole che mutano la luce e tu devi registrare lo sguardo dopo ogni click della tua macchinetta. Le due facciate del muro sono dipinte e disegnate secondo l'estro in murales brevi o lunghi. L'omogeneità delle opere è data ovviamente dal tema, interpretato in un paio di centinaia di pezzi dagli artisti di cui molti famosi, ma soprattutto dal tipo di colorazione acida delle bombolette a gas. 

C'è una riflessione cui ti costringe involontariamente una bacheca posta all'inizio e alla fine del muro. Essa avverte che mentre i murales della facciata esposta a Est, il territorio riconquistato, è quello riconosciuto ufficialmente di valore, nel quale cioè si sono impegnati artisti di nome, quella esposta a Occidente con i murales di autori ignoti è ritenuta di natura 'selvaggia'. Si tratta di un paradosso involontario. E' come se si fossero invertite le parti. A Est, che un tempo era occupato dai barbari, l'Occidente espone la sua arte con i suoi modi coinvolgenti, le sue linee informali ma dirette a un senso, la bellezza di composizioni ammirevoli per genialità. A Ovest l'Occidente espone la serie B e C, opere dei giovanissimi, che curvano lo spray al momento giusto per disegnare un cerchio quasi perfetto ma poi la direzione deraglia da qualsiasi senso. E' difficile cogliere in quei murales emozioni e significati. Se ci sono, sono rimasti in un cantuccio della testa dell'autore tanto che finisci col pensare che la prima è vera Arte e la seconda è solo Caos. Salvo poi non poter fare a meno di considerare che l'ordine dell'Occidente contiene una quantità considerevole di caos, quella che attualmente si manifesta nella crisi delle democrazie europee, nella crisi della globalizzazione capitalistica, nella insolvenza  drammatica del pensiero unico e della sua pratica. Forse i giovani della facciata Ovest sono nel Caos ma forse stanno cercando una via d'uscita dal Caos dell'Occidente. 

I benpensanti ovviamente tengono all'ordine della prima facciata. Essa contiene una sicura quantità di razionalità che garantisce, almeno a loro, la sopravvivenza. Se tutti i soggetti politici e culturali si acconciassero a razionalizzare al meglio strutture mentali e pratiche, se si adattassero con professionalità alle necessità pragmatiche del mercato tutti starebbero meglio e in ultima analisi non ci sarebbe un'Arte di serie B. Non si rendono conto, o non vogliono farlo il che è più verosimile, che esprimono in maniera plateale le conseguenze di un 'utopia. Oggi è finalmente evidente che anche l'Occidente, che sbandiera a gran voce le proprie libertà, è animato da un'utopia gigantesca: il re è nudo e tutti quelli che hanno passato gli ultimi decenni a denunciare i mali delle ideologie, che ovviamente stavano solo a sinistra, dovrebbero avere il coraggio di affermare che quello era il modo per mascherare l'utopia del pensiero unico che stava di casa da sempre di qua dal muro. Il che dimostra tra l'altro che l'umanità senza sogni e utopie non varca nemmeno le porte di case di lusso e non solo quelle delle favelas o dei centri sociali. L'utopia del liberismo e del suo attestarsi come pensiero unico è appunto quella di ritenere che, con un pizzico di razionalità in più, questo sistema può evitare il Caos al quale il grosso dell'umanità sarebbe affezionata. Un'utopia rischiosa di questi tempi. Ma tant'è, tutti i suoi sostenitori sono profondamente convinti che non si tratta di utopia ma dell'unico mondo possibile, una realtà cioè oggettiva e inconfutabile. Non sanno, non accettano, che la loro è solo un'opinione, una interpretazione soggettiva, un'ipotesi di lavoro che ha funzionato per un po' ma che non funziona più. 

Ho lasciato il muro dipinto con questo fardello. Il ponte più bello di Berlino, l'Oberbaumbrucke, ha accolto me e Adriana sotto le sue arcate in una piccola friggitoria gestita da tre giovani che friggevano patate e cotolette di maiale davanti a te. Alle pareti tanti manifesti di gruppi rock e jazz. Noi eravamo proprio gli anziani, qualcuno ci ha guardato incuriosito. Tutti giovanissimi, birretta in mano, teller di patatine fritte, tutte e tutti convinti della propria gioventù e del proprio diritto a godersela. Una pausa ristoratrice.

domenica 16 giugno 2013

Berlino, la memoria, le mutande.


Giordano Bruno:
"Mi par cosa ridicola il dire che extra il cielo sia nulla. Di maniera che non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole: ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose."
Nato a Nola vicino a Napoli, bruciato sul rogo il 17 febbraio 1600.
C'è ancora. Lì a Postdamer platz, temevo che la furia ricostruttrice su Berlino est si portasse via la bella immagine a testa in giù di Giordano Bruno che uso come foto qui sopra dal 2005, data della mia prima visita. E' lì, come se quella fosse la sua posa naturale con quella testa schiacciata che lo assomiglia a Et del film di Spielberg. Giusto così. Intellettuali e poeti e scienziati, non in pochi, sono spesso a testa in giù, vanno contro, vengono da un altro mondo. Godono tutti di un trattamento speciale soprattuto se mettono in discussione ruoli e poteri, allora gli si scatenano contro chiese religiose e laiche, i fascismi, gli stalinismi, i razzismi. Allora li ammazzano e prima li torturano. Così è capitato a Giordano Bruno. Gli hanno inchiodato la lingua al palato con un solo grosso chiodo perché non parlasse.
                                                             
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Impressionante qui a Berlino l'esercizio quotidiano della memoria, non puoi sfuggirgli. Come a Milano non puoi sfuggire alla pubblicità delle mutande, soprattutto delle donne, qui non sfuggi alla memoria del nazismo. Postadamer platz è attualmente tappezzata di foto di polacchi deportati e condannati al lavoro forzato dopo il '39.

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La città si dilata su una superficie otto volte superiore a quella di Milano. Tre milioni e mezzo di abitanti, pochi se pensiamo che sulla stessa superficie a NY ce ne stanno più di dieci. Le strade non sono stressate dal traffico, ma anche quando frotte di turisti si disseminano frastornate sempre in cerca di qualcosa raramente fanno resse tipo quelle di piazza del Duomo a Milano. Unter den linden, la strada usata dai nazisti per le adunate lunga un chilometro e mezzo e poi famosa per il muro dal 1961, è larga sessanta metri: non tutte sono così larghe ma aggiungendo i marciapiedi che sono larghissimi, la sensazione resta quella di territorio di pianure estese che devi conquistarti gambe in spalla. Altrimenti ti perdi tutto. In realtà ci sono le Ubahn, metropolitane sotterranee che ti portano ovunque, e poi ci sono le Sbahn che sono come le Ubahn solo che viaggiano in superficie ma su percorsi sopraelevati o comunque protetti dunque veloci come le prime. Non puoi pensare di andare da un quartiere a Ovest a uno a Est a piedi, ti va via la giornata. Da un quartiere all'altro invece si va in metro ma con la bici. Grandi biciclette che nei vagoni occupano grandi spazi e devi stare attento a  non esserne infilzato.

martedì 11 giugno 2013



Il sole sui nostri panni stesi

splende solo nel pomeriggio ma basta

qui a Berlino a ricordare quello di Lisbona,

Europa Europa, t'illumina un sole occidentale

ma i confini senza più storia

non segnalano case comuni.

mercoledì 5 giugno 2013

Nemmeno Leopardi, il poeta europeo più materialista del XIX secolo e verosimilmente di gran parte del XX, sfugge alla cultura antropologica cattolica della decadenza, quella per la quale in principio era il paradiso e poi è iniziata la caduta dal momento della scoperta della conoscenza e del piacere: che è poi per me abitatore del Novecento psicanalitico la discesa dall'utero alla luce di questo mondo. Anche lui ci infilza dentro un mondo decadente, quello decaduto dal rapporto più intimo con la natura, che sopravvive in una seconda natura, la nostra civiltà, con rammarichi e nostalgie, dimodoché la poesia si sostanzia anzitutto delle rimembranze del mondo primigenio, che poi era appunto quello paradisiaco dell'utero materno dove non esistevano bisogni e necessità. Ne conseguirebbe che i padri non fanno che alimentare con i figli questa decadenza. I figli, secondo questa logica, non farebbero altro che acuire la perdita. Non è così. I padri, comunque vadano le cose, deluderanno i propri figli. Ma non perché non sono in grado di garantirgli il ritorno alle fonti originarie della felicità ma solo perché i figli  apriranno percorsi diversi e sconosciuti alla loro ricerca: si avvieranno faticosamente su strade che i padri difficilmente riconosceranno come proprie ed essi soffriranno per il distacco da quelle dei padri. Il nuovo mondo. C'è sempre un nuovo mondo all'angolo degli occhi e della mente. Beati quegli anziani di turno che non se  lo lasciano scappare. Ci sono. Ascoltano i figli e da loro imparano, i figli li sopportano con qualche disagio ma anche loro devono accettare il proprio fardello, accettare che il nuovo in qualche modo procede dall'antico, che non significa né subirlo né amarlo senza condizioni.

mercoledì 15 maggio 2013

Ballata del Nord e del Sud



Sono cresciuto sulle strade
su quelle del Sud polveroso
su quelle del Nord piene di vento
ovunque ho lasciato fratelli
e la miseria non era per strada
la ricordo solo nelle case.
Le strade al Nord le incrinava il vento
sfrontatamenente svelava
i dolori alle case sventrate
ma la miseria non era per le strade
perché nell’alito dei giorni
diafani e secchi
già correvano ovunque
bande di fratelli.

Si andava contro vento
il vento tra le labbra
il vento negli occhi sguscianti
alle spalle fischiava di porta in portone
e non c’era pietà per i vecchi
ammutoliti al limitare di strade
che non erano più loro,
si andava contro vento
nessuno tenendosi per mano
perché qualcuno tossiva sangue
in quei portoni di Trieste sventrata.

Quelle bande ricordo al porto
a San Giacomo o dietro l’ippodromo
e tra noi più violenti gli insulti
a perdere un tempo per casa,
al porto tenevano i vecchi il lavoro
nessuno poteva convincerli più
a migrare sulle strade,
là prendevamo il presente
sono sempre tante le strade
ma mai bastanti i sassi
per abbattere le case del tempo
noi sassi aggiungevamo ai sassi
perché a nessuno venisse in mente
di rifare case e case sulle rovine,
sono cresciuto tra casa e casa
le rispetto per quel tanto d’angoli
e cantoni che fanno tra loro
e sono preziosi posti per echi e sentinelle
all’incrocio del vento.

Un fratello ricordo era uno di quelli
ma ci rivedevano sguardi
che non erano legami di sangue         
le strade curve montava ingobbito
spavaldo d’insulti ma poi generoso
come chi finalmente lo è per le strade,
non mi disse ti insegno a sputare
ma lui solo nel vento sapeva
correre sbieco frustandosi il culo
schizzando da labbra strizzate
lische rapprese di ghiaccio e saliva,
un giorno mi disse fratello tu bari
e schivò col silenzio il dolore da me,
non perdonava chi perde barando.

Nessuno parlava di fiori per strada
ma negli angoli di nude case
il vento accordava per noi musiche nuove
malinconiche ballate
stringevano cuori e cervelli a difesa
dei nostri sensi acuminati,
non timore di violenza
né pudore di contatti sconsacrati
ma il vibrare dei polsi freddi
per le gare senza sconfitti.

Più d’uno di noi sostava costretto
a garretti stroncati nei larghi portoni
l’affanno di asma
dei vecchi ubriachi di grappa
bevuta con l’aria vetrosa
di mille fessure del Carso,
ma sempre uno ne avanzava
di piazza in piazza scendeva
le scalinate di pietra
la chesterfield sbieca su labbra viola,
avevamo voltato le spalle per sempre
al porto dei ferri divelti
sarebbero state pur spente
una volta per tutte le antiche officine.

##########

Scendendo al Sud
qualcuno ha subito detto che ero sprecone
che portavo calzoni alla zuava
ma alla lotta impacciavano poco
colpi ne conoscevo anch’io,
c’era rabbia nell’aria asprigna di mare
urlavano le madri di casa in casa
vi tornavano con sporte di grandi pani,
tiravano i maschi su con paura,
d’inverno bruciavano pali
rubati pieni di catrame
la domenica  sul marmo
qualcuno versava zucchero sciolto,
era difficile uscire di sera
mirare coi sassi ai lampioni
ondate battevano il lungomare
e spumavano per strada,
l’umido dei muri
incrinava le vertebre ai vecchi
seduti attorno ai bracieri.

A primavera non c’era violenza
intrecciavamo palme su brevi marciapiedi
a blandi rintocchi di vecchie campane,
ma nell’alito caldo dei giorni crescevano i sensi
le armi erano tante
non sempre vincevano a sassi
le bande musulmane in scorreria
( chi le riportava alla memoria? ),
occupavamo i terrazzi sul mare
un po’ arabi e bianchi
palazzine misurate per tanti padroni d’olive
delle Puglie interiori,
arrivavano il primo di giugno
materassi sul carro
al cancello sostava la giovane
umida e nera di umori di terra
ai capelli puntava forcine
le crescevano a sorsi i seni nell’aria.

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Quando sono arrivato in questa Milano
del Nord e i navigli erano ancora aperti
alle nebbie pavesi
ho temuto per un po’ i lunghi capolinea
e li ho cercati a lungo
saltabeccando su immagini e immagini
con righelli e compassi precisi
solitari vortici
litanie di arresti e ritorni
rintocchi di aria spostata
bolle d’aria circonvallate
per moti concentrici in fuori
perché non ci sono angoli a Milano
e case e palazzi ruotano per sempre.
In disordine il bagaglio, a cuore ripiegato
il mio diviso io rollò con sicurezza
sulle circonvallazioni,
non avevo sino in fondo numerato
gli accordi di chitarra
ma dentro innocue superfici
gli abitanti in molti e i pochi cittadini
sembravano disporsi volentieri,
parevano all’ordine tutti segnati
dentro ruoli e professioni
proprio in quanto prestazioni
sineddochi di sé
disertate le radici
fuggiaschi come me.

######

Qualcuno dal Sud è salito a primavera
su queste strade accavallate
dentro le officine,
gli ho sgranato le ricche notizie
statistiche serie alla mano,
gli ho chiesto         dove ti metti?
Chi è rimasto non mi ha badato,
si è fermato a raccogliere le idee
lì alla darsena
che la corrente è livida,
ci vive un compare di famiglia
brava gente che giù ha la casa
a terrazza sul mare
qua vende sigarette e conta le sue morti per galera,
ricordavamo insieme le preghiere
il rosario, detto sgranando spaghetti di bocca
che la madre tappava bottiglie di salsa
la sorella piegava lenzuola
e il vecchio poetava
facendo puntelli al melograno.
Si diceva che qui nell’aria
c’era una vecchiezza un po’ strana
che nuove erano solo botteghe con dentro botteghe
si diceva che a stupirci
erano i mille cortei di tute blu
furenti di parte espropriata,
si diceva che a stupirci erano donne
ormai tutte femmine sorelle
e non c’erano più madri.

Poi qualcuno ha staccato le mani dai ferri
di quelle officine
di balaustra in balaustra di sera
si sono passati la voce,
con un solo biglietto si sono fatti portare
a tutti i capolinea della città,
hanno colorato i muri e orinato nelle università
( l’esegeta di Marx professore in Statale
ci gridava con Croce avevamo una guida ),
domani si occupa e si fa corteo
le chiese sono tante ma anche i sagrati.
Altri erano già in corsa per le strade,
tutti insieme hanno segnato vertici di comunità,
ridisegnando angoli a case e muri.
 
Milano 1974.

mercoledì 1 maggio 2013

La festa del primo maggio

Sono ormai trent'anni che sento le geremiadi sulla ritualità burocratica e noiosa delle manifestazioni per il primo maggio! Ma che le lascino perdere, che spengano  la tv e la radio e i quotidiani, e la retorica di tant*! Da tempo stiamo dentro primi maggio di lavoro e non-lavoro. E di non-lavoro si disperano e muoiono quasi quanti ne muoiono di lavoro. Una dialettica micidiale. Come ne usciamo? E' possibile uscirne? Magari la sosta del primo maggio può servire ad avviare la riflessione, magari in quei luoghi non istituzionali dove la riflessione è già avviata (mayday, ecc...).

Cronache di Aprile


9 aprile


Margareth Thatcher?

L'ha guidata l'odio di classe, l'ha guidata l'odio per tutto ciò che odorava di rispetto, socialista o comunista che fosse, per le genti sottomesse piegate dallo sfruttamento dell'organizzazione capitalistica del lavoro. A tren'anni un giovane che non si è ancora comprato una casa è un fallito, diceva. Il cinismo criminale che l'ha guidata era frutto delle frustrazioni di classe dalle quali proveniva e non c'è niente di peggio che il revanscismo pieno di livore di chi ha potere. Come ha fatto ad avere tanto potere? Il fiuto politico non le è certo mancato, ha saputo cogliere l'occasione, degna in questo di una nipotina di Machiavelli, ha fiutato prima degli altri che quella organizzazione del profitto per i ricchi andava cambiata e che lo si poteva fare perché i rapporti di forza stavano cambiando. Il movimento operaio occidentale e L'URSS stavano cominciando a segnare il passo a mano a mano che la capacità espansiva del fordismo e dei grassi profitti legati ad esso, pur con le concessioni del Wellfare, venivano meno. Ha rischiato molto a essere la prima ma è stata valanga, il partner Reagan e il bravo Bush le hanno poi aperto le autostrade. Il tutto in nome del neoliberismo, nel quale ovviamente le teste pensanti non si sono certo riconosciute, si trattava in realtà del capitalismo più selvaggio del secolo, quello più predatorio e riservato alle élites finanziarie. Per forza che passerà alla storia. Anche perché era una donna, e questo la dice lunga sulla sussunzione in proprio di certe donne dei canoni fondamentali del patriarcato, dai quali secondo alcun* saremmo liberi, confondendolo con l'emancipazionismo spicciolo. Una brutta donna. Non una donna brutta, ché questo c'interessa davvero niente.



20 aprile
Giorgio Napolitano di nuovo Presidente.
Buona notte, notte.

Con la differenza, aggiunge il mio amico Ponziani, che Herlitzka alla fine del film se ne usciva dalla prigione proletaria sulle note di Great Gig In The Sky...

Forse ha ragione, forse molti di noi stanno uscendo da una prigione, e i Pink Floyd vanno sempre bene.

22 aprile

Oggi è l’anniversario della morte di Raffaella Tornaghi, sposata con Silvio Pacillo. Due amici, due compagni di strada e di viaggi dai tempi del liceo.

A Raffaella ho dedicato questi versi, usciranno presto in un’altra raccolta.

Le cicogne di Micene
(lettera in ricordo dell'amica di viaggio).

Non era l'alba dei sogni né il tramonto delle idee
quel nostro varcare la porta dei leoni
incastonati nelle pietre di Micene,
aprivano per noi un varco nel tempo,
e a tetti e pareti mancanti
ci accolse odore di fieno e di morte
come se gocce di sangue, ferite aperte,
scintillassero ancora tra basamenti intatti.
Il sentiero ci conduceva a voci sopite,
io a lei tu a lui la mano, per quei tremila anni
come un battito di ciglia, la tracotanza di Agamennone,
il rancore di Clitennestra.

Dicevamo di scenari soliti,
maschi guerrieri, inventori di ruoli e tradizioni
per la propria egemonia, private vendicatrici
mai libere a mimarne gesta e pensieri,
come fosse un destino, più forte degli dei
che hanno abitato alberi, statue e ginestre
di questo paese.
No, nessun destino.
E' volere arcaico, ordine patriarcale,
che intreccia passioni e divino,
che ci vorrebbe eredi per sempre di maschere d'oro,
tombe ciclopiche, armature ammaccate.

Ci teniamo noi a passioni pazienti di lumi
e non di incendi. La tua mano a lui la mia a lei
voltiamo le spalle a Micene, abbiamo un patto nuovo
all'altro capo del sentiero, dividere tra tutti
il tempo di cura dell'aria, dell'acqua, della terra,
del fuoco e di tutte le nostre risorse.
Finché il pianeta ci tenga.
Per ora ci contentiamo di un the in questo bar
fuori mano. Le cicogne su quel palo
ci mandano segnali. L'una si stacca in volo e ritorna,
l'altra, rimasta nel nido, l'accoglie col battito sonoro del becco,
un applauso.
Ci chiediamo chi sia il maschio e chi la femmina.
Le abbiamo lasciate al loro destino.

 25 aprile 

Leggo rabbia e rassegnazione. Del resto qui sembra di aver perso la guerra civile. Bisogna ripartire dalla lavagna, tirare una riga nel mezzo e segnare da una parte le cose buone e dall'altra le cose cattive. Ma non scambiamola per l'astratta ed eterna guerra del bene contro il male. C'è un ceto politico che è asservito alla classe del capitalismo più predatorio. Messi insieme sembrano invincibili ma come ricorda il mio amico poeta Atena si allontana ben presto dal campo dei vincitori.

27 aprile

Ecco, cominciamo da capo, ridiamo senso alle cose: ci dice Gino Strada:

"Una sostituzione mitralica, un intervento di cardiochirurgia, eseguita in una struttura pubblica o privata, viene rimborsata intorno ai ventimila euro. Lo stesso intervento, compiuto nel centro di cardiochirurgia di Emergency, costa 1850 euro. Perché ì costa ventimila euro quando noi ne spendiamo 1800?"

27 aprile

Cara Cecile Kyenge Kashetu, ti auguro buon lavoro. Avrai il tuo daffare con la gente che ti ritrovi intorno, qualcuno nel profondo Nord deve avere già la febbre, il mal di pancia.

28 aprile

C'è chi continua a sostenere che la proposta per Rodotà era sostenuta solo dai circa cinquemila grillini. Sono persone male informate, leggono solo la giornaleria di palazzo e guardano la tv. Ma informarsi, si sa, costa fatica, perché le notizie che riguardano il mondo della sinistra, sinistra sinistra, non sono strilli utili per i soliti giornali.

29 aprile

Il diritto all'ozio.

Qualcuno potrebbe pensare che questo reddito minimo garantito sia una proposta per accontentare il M5S e i movimenti ma verosimilmente non è così. Penso piuttosto che sia nelle corde della UE. Anche perché formule del genere sono già in atto in molti paesi. Credo cioè che il problema stia in una sua formulazione con condizioni capestro un po' come è il sussidio di disoccupazione negli USA. Se viene ridotto alla logica lavorista apriti cielo, entrerebbe in conflitto con la CIG, se viene concepito come un diritto di chi è in cerca di primo o secondo impiego sarebbe un buon inizio, bisognerà allora vedere se riuscirebbe ad agganciare quelli che non hanno più voglia di cercare lavoro o che giustamente si rifiutano di fare un lavoro qualsiasi.

...Per non parlare di quelli che rivendicano il diritto all'ozio! Come sono lontani i tempi in cui le Pantere nere agitavano la parola d'ordine: ventanni di lavoro in fabbrica e poi la pensione!

29 aprile

Complice la Rete il primo ministro di colore è sommersa da insulti e minacce spesso irripetibili.

Serve a qualcosa il fatto che gli insulti razzisti siano un reato? Come si fa a educare questa gente che si ritrova unita e auto legittimata in comunità e organizzazioni?

1 maggio

Buon primo maggio!

Viaggiamo alla media di tre morti al giorno sul lavoro. Le leggi per punire la mancanza di sicurezza nei cantieri, nella manifattura, nei trasporti esistono ma non vengono applicate. Ma fa più schifo che la legge organica antiinfortunistica risale al 1965! questo in pratica significa che tutti gli infortuni o morti nei settori con tecnologie più evolute non possono nemmeno essere nominati! Orrenda responsabilità delle nostre classi dirigenti e politiche.