giovedì 6 ottobre 2011

Andare a capo.

giovedì 6 ottobre 2011


Intorno alla metà degli anni sessanta c'era aria di interdizione alla scrittura. Sentivo dire cose tipo: dopo Proust, Musil e Kafka come si può ancora presumere di saper scrivere? E in poesia l'uscita dall'ermetismo non attraeva ancora più di tanto (nonostante o a causa del gruppo '63!). Ma quella interdizione aveva caratteri di natura diversa da quelli letterari. Chi diceva così era attratto dal sentimento della necessità di un impegno totale nei movimenti politici di trasformazione del mondo. Così in particolare è stato nel '68. Se poi si aggiungeva a quella anche una interdizione personale risalente alla propria storia, come nel mio caso, c'era di che disperare della legittimità di una scelta di vita dedicata alla scrittura più o meno artistica. 
Cos'ha a che vedere tutto ciò col fatto che quella che potrebbe essere la mia prossima raccolta di poesia abbia una cadenza così prosastica sia nelle parole che adopero che nel ritmo? Ormai ho consapevolezza che il mio verso ama narrare. Non certo perché seguo una moda, è una caratteristica originale del mio scrivere.  Tuttavia è vero che là dove trovo accoglienza ciò accade proprio perché narrare non è interdetto. Ciò ha un' automatica conseguenza con la maggiore o minore prosasticità del verso? Qual è il limite che non va superato perché continui ad aver senso l'andare a capo del verso?

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