lunedì 31 ottobre 2011

L'amico S. ha letto 'Peter, l'australiano' e ha da ridire. Ma solo per un verso. Il terzultimo. / Peter dice di non fidarsi, /. Che bisogno c'è della virgola? Se vai a capo non intendi già che è lì che devi fare sosta nella lettura?
Appena me l'ha fatto notare la tentazione immediata è stata di andare a toglierla. Ma poi ce l'ho lasciata.
Non so bene, non so spiegare tutto. Ogni verso, molto di più credo da quando il verso è diventato libero, ha una storia a sé. Ma dentro una composizione svolge una sua funzione precisa, deve in particolare contribuire a creare quel ritmo, quella musicalità che sostiene la composizione stessa come uno dei suoi contenuti. E non ci sono in una composizione contenuti più importanti di altri. Tutto ciò che contribuisce a fare un verso è un contenuto importante. E andare a capo aiuta a creare quel ritmo, quella musicalità. (Con buona pace di tutti coloro che appena ti vedono ti chiedono ma tu quand'è che vai a capo? E perché ci vai? Sicuro che abbia un senso farlo? Ci vai a caso o segui una partizione precisa?).
Lì la virgola ci sta tutta, ma devo pensarci su sul perché.
Anzitutto quel verso mi serviva così com'è, nove sillabe sono giuste giuste per fare il giusto ritmo col verso che precede e con quello che segue. Nove sillabe tengono il ritmo, non una di più non una di meno ma la virgola dice pausa per conto suo, non gliene importa nulla che se ne stia a fine verso, pausa perché avvisa che c'è un elenco nell'aria, un elenco che va letto e scandito lentamente: dice, invita, chiude.
Non ero preparato alla sua controrisposta. Va bene, allora come spieghi il terzo e quarto verso? Anche lì  azioni verbali in sequenza ma quella a fine verso - salutano - è senza virgola!
Sono andato a rileggere il post di ieri. E ho scoperto nientemeno qual era il ritmo della poesia. Senza l'osservazione di S. non ci  avrei mai fatto caso. Nell'intera poesia ci sono addirittura due sequenze di tre verbi e una di quattro. E' sul ritmo di queste sequenze verbali che ho costruito i versi. In quella di quattro, alla fine del terzo verso - si salutano - la virgola non ci va perché i ragazzi negli hub si salutano frettolosamente e si scambiano le mappe al volo, perciò le due azioni descritte vanno lette velocemente.
Ma non sarebbe stata la stessa cosa se il verso, invece di finire a 'si salutano', andava avanti comprendendo l'azione di scambiarsi anche le mappe?
Certo che poteva andare anche così. Il ritmo resta quello anche scrivendo tutto il rigo.
Non so. Ho contato le sillabe tanto per fare. Sono quindici. Per me un verso lunghetto, anche se sotto ce n'è uno di diciotto. Un verso lunghetto e quindi sono andato a capo.
Cioè in sostanza qui si dimostra che vado a capo per abitudine. Mah! ma cosa c'è di male?

domenica 30 ottobre 2011

Peter, l'australiano

I giovani cercano senso, fanno
ipotesi sul mondo, sfrondano il mistero.
Percorrono continenti, negli hub si salutano
si scambiano mappe, lasciano indizi.
Raccolgono l'oro lasciato dalla Storia.
La natura è stupida e feroce, dice Peter l'australiano,
otto milioni di uova per fare un salmone
occhio al ragno saltatore, si solleva
fino all'altezza dei tuoi occhi e lì colpisce.
Peter dice di non fidarsi,
invita alla ricerca, chiude il libro dei tuoi versi.

***

Peter mi invidiava. Ancora oggi, dopo cinquantanni, non posso fare  a meno di pensare che il suo gesto è stato volontario. Credo che il vedermi così euforico e divertito dal gioco lo abbia alla fine spinto a darmi una lezione. Ha lasciato la presa, non poteva non sapere che così facendo mi abbandonava ad un rischio. Mi chiedo come, dentro la mensa, fra gli inservienti, i cuochi, la stessa miss Tennent, abbiano commentato la faccenda. L'episodio ha avuto uno strascico fastidioso. La frattura esposta - l'osso della falange bianchissimo - mi fu curata in un gabinetto medico con una steccatura. Quaranta giorni di prognosi. Mi sembrò subito un'esagerazione, per i tempi che erano (era in corso una delle tante crisi di 'sviluppo', fu coniata in quei mesi la parola congiuntura) e soprattutto per me che venivo dall'Italia. Ma quella era la Germania. All'arbeitsamt, l'ufficio del lavoro, andavo a ritirare ogni quindici giorni il mio salario: era più alto del solito perché conteneva un'indennità dovuta all'incidente. Da noi ancora oggi è meglio non farsi male e nascondere la faccenda se si può, da quando poi c'è la cosiddetta crisi, vale a dire il trionfo del liberismo selvaggio di origine reaganiana e thatcheriana, e con la diffusione del lavoro nero degli immigrati, le cose sono solo peggiorate.
Furono quaranta giorni di frustrazione profonda perché lavorare dava senso ai giorni. Fu in quei giorni che cominciai a maturare l'idea di ritornare in Italia e riprendere gli studi. Passai la maggior parte del giorno a studiare. Mi ricordavo, dalla sua biografia, che Bertrand Russel in carcere, aveva diviso la giornata in tre parti, ciascuna delle quali era destinata a una delle sue discipline di studio (credo filosofia, matematica, letteratura). Organizzai così anche la mia giornata. Fatta eccezione per le ore di passeggio e di chiacchiere con gli amici del campo il resto lo dividevo tra poesia, studio dell'inglese, studio del tedesco.
A volte scendevo a Colonia, risalivo le strade del centro fino alla stazione centrale e sostavo davanti alla cattedrale.

sabato 29 ottobre 2011

Righe in corso: Guido Cavalcanti.

Per la sezione Righe in corso (dove già ci sono una pagina su Dino Campana e una su Giacomo Leopardi) ho pubblicato un'altra pagina - anch'essa cliccabile qui a fianco  -  con il mio lavoro su Guido Cavalcanti. Dove la chiave di lettura è stata l'io diviso. E il suo ricomporsi nella poesia.

Ma c'è chi si interessa a Guido Cavalcanti?

E non starò certo a dire perché un abitante del XXI secolo dovrebbe invece farlo. Ho smesso di fare il prof.
   Come persona e scrittore di righe e versi però...

venerdì 28 ottobre 2011

Quando ho cominciato a scrivere versi?
A quindici anni. Vivevo allora a Rimini. La poesia l'ho perduta. Ma ne ricordo un verso, anzi mezzo, solo un'espressione: una spalliera di rose. La stessa identica espressione che ho trovato a quarantanni in Sereni. Quando l'ho incontrato alla Mondadori, qualche anno prima della sua morte, non ho avuto cuore di raccontargli quella banalità, era già troppo imbarazzato a maneggiare i fogli dei miei versi: lavora, lavora.
Dove ho lasciato Schenk?

mercoledì 26 ottobre 2011

C'è da credergli a Rimbaud quando dice che lui ha inventato i colori delle vocali ( credo: a nera, e bianca, i rossa, u verde, o blu). Ma credo che abbia fatto qualcosa di più. Il suo deragliamento dei sensi ha aperto piste nel deserto. Anzi ha scoperto il deserto da popolare. Una di queste piste è appunto quella delle libere associazioni sulla quale si è inoltrato Freud non molto tempo dopo. In ogni caso la sinestesia acquista solo dopo Rimbaud una vera e propria cittadinanza in letteratura. Non è che sinestesie non ce ne fossero mai state. Qualsiasi grammatica di retorica comincia a rintracciarle già in Dante (il luogo 'd'ogni luce muto') poi in Ariosto ( il 'lamento amaro') ecc.  Ma è solo nel Novecento che,  i poeti soprattutto, ne fanno un uso consapevole e raffinato. A scuola non adoperavo in realtà la grammatica per illustrare la sinestesia, portavo esempi tratti dalle pubblicità televisive. I ragazzi poi si divertivano a cercarne. Del resto la multimedialità è per sua natura sinestetica anche se al cinema i sensi coinvolti sono solo la vista e l'udito. Ma è notizia recente delle intenzioni di diffondere odori e profumi durante la proiezione dei film! E Steve Jobs ha ormai destinato, prima di morire, anche il tatto all'uso dell' iPad. Insomma la sinestesia è ormai codificata, istituzionalizzata e tecnologizzata. E dunque ormai vecchietta, consumata. E' questo che sin dall'inizio mi aveva creato un po' di disagio, era il titolo del libro di Don DeLillo che mi aveva lasciato perplesso. Rumore bianco.
E però, in questo romanzo, cosa si addice meglio di una figura retorica vecchietta e moribonda per la descrizione di un percorso di vita destinato per natura alla morte e per artificio, il disastro ecologico, a una morte quasi sicuramente prematura?
La metafora, la sinestesia, come in questo caso, danno potenza all'espressione. Ma la caricano di suggestioni. Più di quanto già per se stessa non faccia la parola semplice e quindi allontanano vieppiù il lettore dal significato che intendevi darle. Tutto ciò mi è estraneo,  non è mai nelle mie  intenzioni creare suggestioni. Cerco sempre la parola diretta, giusta, quella, per dire. 
Anche se non hai nessuna garanzia che poi il lettore la intenda proprio nel senso che tu le volevi dare, perché ci mette sempre del suo. Ma tant'è. Non si può inseguire il lettore. Il problema è sempre quale sia il tuo gusto personale.
Il problema. Te lo sei formato accogliendo (solitamente nei primi anni della tua vita) nel timbro della tua voce suoni tristi, melanconici, mesti e desolati? La parola giusta che ti corrisponde fino in fondo, che segnala con esatta geometria i significati che le affidi, avrà quel suono lì. Il timbro della tua voce sei tu. Non puoi discostartene troppo, non puoi indugiare in esso con insistenza. Intorno a quel timbro la parola scelta sarà quella che gli sosta più vicina. Più sarà lontana grazie o a causa dei mezzi retorici e maggiore sarà l'aura letteraria che la circonderà, fatta di suggestioni e/o sentimentalità. Questione di gusti.

lunedì 24 ottobre 2011

La lunga pace infittisce il sottobosco

La cattedrale, salva per caso, di Colonia distrutta.
La lunga pace infittisce il sottobosco,
i parchi cittadini ricchi di acque. Hohe strasse,
l'arteria principale, di sabato invasa da proletari.
Al cinema danno 'Accattone' di Pier Paolo Pasolini.
Hans figlio di operai studia legge,
ha nostalgia di un passato che non conosce,
dice di averne memoria.
La Storia per lui è un eterno presente.

Gli spazi vuoti segnalano forme invisibili.

Gli spazi vuoti segnalano forme invisibili.
Il filo di ferro della rete che separa i due campi,
spesso e rugginoso, intreccia rombi,
nella pioggia sono occhi luccicanti.
A rientrare a sera i dormitori sono ombre distese.
Gli spazi vuoti fra di loro sono terra di nessuno,
è una geometria, è familiare.

martedì 18 ottobre 2011

I bianchi e i neri di Trieste

Non ho mai capito perché la memoria mi rimanda Trieste solo in bianco e nero. Sarà perché i ricordi d'infanzia sono legati molto di più all'inverno. Ma sarà anche perché quegli inverni, ma poi anche le estati, mi sono rimasti dentro privi di amore. Ogni tanto ho sentito N. dire che lui ama l'inverno. Detto da un grande poeta come lui mi è sembrata da subito la condizione indispensabile per diventare anch'io grande. Mi sono detto cioè che per scrivere versi più efficaci dovevo smetterla di temere l'inverno, di pensare che morirò d'inverno...  Ma Trieste continua a essere nella memoria sempre soltanto in bianco e nero. Le strade levigate dalla bora. I palazzi bianchi. Gli anditi scuri. Certe scalinate scure. L'improvviso riemergere al bianco dopo il nero delle gallerie. L'arco di ombra scura col quale il doppio filare di piante avvolge via XX settembre. Nemmeno la memoria di anni più recenti, decisamente estivi e di vacanza, con l'allegria di Adriana, Emanuele, Francesco e persino Blouse, la nostra labrador nocciola, mi hanno residuato una Trieste più colorata. Ferrigna sempre. Anche il mare. Tranne in un'occasione. Quel giorno era verde e le trasparenze profonde. Fu l'anno della nostra visita a A. I ragazzi erano da qualche parte in Europa e noi passammo una settimana a casa sua. Quel giorno volevamo andare a visitare il castello di Miramare.  Posteggiata la macchina nelle vicinanze percorrevamo il lungomare che ci avrebbe portato fino al castello. Ma Adriana notò che lì il mare era di un verde mai visto. Rimanemmo a mangiare un panino su una panchina per goderci la vista ma non fu sufficiente. Adriana decise che voleva fare il bagno e che il costume ce l'aveva addosso. A. e io abbiamo insistito per rispettare il nostro programma ma alla fine dovemmo accettare un compromesso. Noi due a visitare il castello lei a fare il bagno. Il mare era verdissimo lo ricordo bene. Non avevo voluto darla vinta a lei ma mentre mi allontanavo non potevo fare a meno di provare un po' di disagio. Perché la lasciavo sola, in una città pressoché sconosciuta a lei, addirittura a fare il bagno nel mare di Miramare? Sulla scogliera di Miramare? Inquietudine ma anche invidia e gelosia per quella situazione alla quale mi stavo sottraendo, per quel mare così verde, per lei così elegantemente libera di me. Credo di non aver goduto granché della visita al castello con A.. E comunque questo conferma la mia intuizione iniziale: è stata la povertà di affetti nella mia infanzia triestina ad aver bloccato la memoria della città in una fotografia in bianco e nero. Il giorno del bagno di Adriana il mare lo ricordo verdissimo!
Il mio amico di sempre, S. intendo, grande amante ed esperto di fotografia, direbbe che dico una stupidata, le foto in bianco e nero, le sue, sono piene d'amore. Ma questa è un'altra storia. C'è un nero in particolare che ricordo. La casa dove ho vissuto con una nonna e una zia, il mio nono anno di vita, era in via Molino del vento, nella periferia nord-est della città. Una casa molto modesta, di due locali, col gabinetto in comune con altre famiglie sul corridoio. La casa adiacente era stata bombardata, era crollata su se stessa e dal muretto che la sovrastava si vedeva una voragine buia di macerie.

domenica 16 ottobre 2011

Titolo di questo post sconosciuto

L'impostazione di default del blog mi chiede sempre un titolo appena apro un nuovo post. Una rigidità inutile. Chi programma questi aggeggi parte dall'idea che dovrà usarlo anche un bambino e quindi pensa di venire incontro a un suo bisogno di ordine suggerendogli di dare come prima cosa un titolo. Da scolaro e fino alla fine della scuola in effetti mi davano il titolo del tema e poi dovevo 'comporre'. Qui in fondo ci si limita a dire che prima viene il titolo. Ma non è così. Quella è l'ultima cosa. Tuttavia, se stai scrivendo qualcosa che segue grosso modo un progetto,  arriva sempre il momento in cui devi deciderti a dare un titolo alle parti o al tutto.
Così è stato ieri sera, prima di addormentarmi, essendo a letto da almeno un'ora, sulle pagine di Don DeLillo di Rumore bianco. Una scrittura intensa la sua, con accensioni di spirito, di ironia e di acutezza psicologica come da tanto non leggevo. Ma c'è qualcosa che non mi convince e ancora non ho capito cosa. E' come se un esito particolare della scrittura debba manifestarsi da un momento all'altro, ma ieri sera ho già superato la metà del libro. Vedremo.
Ho interrotto all'improvviso la lettura folgorato, come talvolta mi accade, dalla improvvisa chiarezza dei titoli che darò alle altre due parti del poema. La seconda parte sarà intitolata La nostalgia di Orlando, la terza ed ultima Il tradimento, o La fuga di Claudio.
In realtà i titoli mi hanno subito dimostrato un'altra cosa, e cioè che il poema sarà in tre parti. Così è.
Accade così anche in altre situazioni. Così la fisioterapeuta mi svela che mentre richiama la mia concentrazione sui movimenti necessari per sbloccare la rigidità delle ultime vertebre del rachide, in realtà sta liberando dal dolore acuto l'area intorno al piede destro sul quale pesa il nervo sciatico infiammato. Preoccupato del titolo da dare alle parti successive, ieri sera ho capito che il poema non andrà oltre una terza parte. Meno male. Tuttavia l'idea di aver intravisto una fine mi angoscia. Dopo aver finito cosa scriverò? E' da un po' che ho l'impressione che questa sarà l'ultima cosa che scrivo in poesia.

lunedì 10 ottobre 2011

Guardigli e la musica del verso.

Qualcuno, un poeta dialettale mi ricordo, mi trovò banale quando gli dissi che per me andare a capo era solo una questione di respiro. Probabilmente aveva ragione.
C'è un motivo per cui ho adoperato l'immagine del respiro. Quando mi sono accorto che perdevo tempo col mettere alla prova la mia capacità di scrivere un romanzo mi dissi che per farlo occorreva un respiro più lungo del mio. Il respiro cioè di chi sa o può concludere un pensiero dopo una fila ininterrotta di righe che si sono distese interamente per disegnarne corpo e arti. Ma non posso dire che scrivo in versi perché non ho il respiro lungo della prosa!
Scrivo in versi per un altro motivo. Per quel motivo che Guardigli mi ha convinto a fare mio nonostante la mia riluttanza. La poesia ha un ritmo, una musicalità proprie, diceva. Quando hai il tuo ritmo in testa vai a capo in automatico. Il tuo verso libero non ha un metro fisso, trovare il tuo ritmo di volta in volta non sarà facile.
Non è questione di respiro lungo o corto. Ma ho sempre un ritmo in testa cha devo rispettare. E' quello che detta la lunghezza del verso.
N. risolve la questione parlando di tonalità, di tono del dire. Ma credo sia la stessa cosa.

Il campo protegge non offre impunità.
La cantina apre a sera non un ubriaco.
Mai visto donne.
Il campo protegge e dimidia.
Qui lavoro manuale e servile garantiscono
vite solitarie.
Dopo la pioggia sui sentieri compaiono
vermi, vesciche gonfie spurgate
dalla terra.

***

A volte la memoria non seleziona, forse sempre.
Te ne accorgi quando richiama lo sgradito, il turpe.
Così l'inconscio quando accende i sogni.
Ti chiedi dove ha trovato quella materia.
Pensi che sia sentina, vive invece con te
nella rete invisibile del presente.


Non mi sembrano da modificare. Mantengono il ritmo. Devo stare attento a non esagerare con il tema della memoria, rischio un po' di compiacimento. Il tema è necessario ma non può essere ripreso ad ogni passo.

***

Un brusio che ora s'infittisce ora si sgrana

Ci muoviamo, ci incontriamo, parliamo, ci tocchiamo. Con leggerezza, con gravità, con passione, con allegria. Ma  un brusio che ora si infittisce ora si sgrana, che viene da lontano o procede qui davanti, esiste intorno a noi, qualcuno lo intuisce ma il poeta, lui solo, lo traduce in parole. Patrimoni di saperi, vicende narrate, potenze, soggettività si intrecciano e formano una dimensione invisibile, una compresenza immateriale. Un disegno a lapis, che pulsa, nel cuore delle città, nelle praterie, nelle valli di boschi.

giovedì 6 ottobre 2011

Andare a capo.

giovedì 6 ottobre 2011


Intorno alla metà degli anni sessanta c'era aria di interdizione alla scrittura. Sentivo dire cose tipo: dopo Proust, Musil e Kafka come si può ancora presumere di saper scrivere? E in poesia l'uscita dall'ermetismo non attraeva ancora più di tanto (nonostante o a causa del gruppo '63!). Ma quella interdizione aveva caratteri di natura diversa da quelli letterari. Chi diceva così era attratto dal sentimento della necessità di un impegno totale nei movimenti politici di trasformazione del mondo. Così in particolare è stato nel '68. Se poi si aggiungeva a quella anche una interdizione personale risalente alla propria storia, come nel mio caso, c'era di che disperare della legittimità di una scelta di vita dedicata alla scrittura più o meno artistica. 
Cos'ha a che vedere tutto ciò col fatto che quella che potrebbe essere la mia prossima raccolta di poesia abbia una cadenza così prosastica sia nelle parole che adopero che nel ritmo? Ormai ho consapevolezza che il mio verso ama narrare. Non certo perché seguo una moda, è una caratteristica originale del mio scrivere.  Tuttavia è vero che là dove trovo accoglienza ciò accade proprio perché narrare non è interdetto. Ciò ha un' automatica conseguenza con la maggiore o minore prosasticità del verso? Qual è il limite che non va superato perché continui ad aver senso l'andare a capo del verso?

mercoledì 5 ottobre 2011




Mi sono sentito dire che a Milano poeti e poete sono animati dall'invidia, l'uno/a contro l'altra/o. Qualcosa in effetti ha sfiorato anche me. Immeritatamente direi! Ma penso che le cose non stiano propriamente così. Credo che nella maggior parte dei casi chi semina in giro questo genere di cose è proprio lui ad essere invidioso. Giusto il detto che ciascuno giudica sulla base di ciò che lui stesso è. Conosco un poeta di questo genere. E' un ragazzo intelligente. Vede invidiose/i dappertutto. Quando poi gli proponi una cosa tua da leggere prima o poi, bontà sua, ti dice che invidia questo o quel tuo verso. Qui c'è il dubbio legittimo che sia un modo per dirti che, a parte questo o quello, tutto il resto è da buttare. Ma se la faccenda si ripete in  occasioni diverse la sua diventa una tiritera sospetta. Alla lunga ho in effetti capito, conoscendolo meglio, che la sua invidia è davvero costituzionale. Per difendersene lo dice apertamente ad ogni piè sospinto, difficile poi pensare che sia davvero invidioso!
Credo di essere invidioso. Ma non è da dirsi apertamente. Perché è già fonte di vergogna intima. Ma invidio la molteplice cultura di chi ce l'ha. Per una certa quantità di motivi, ma comprendo anche la pigrizia, mi sono giocato una preparazione generale sicura e approfondita. Per un poeta non è giustificabile. Per il poeta contemporaneo poi non ne parliamo.
Il fatto è che quando ti manca l'estro per proseguire, un verso un po' più letterario magari aiuterebbe. Ma per l'appunto occorre conoscere, avere letto molto.
Non mi nascondo che non è affatto detto che poi non me ne libererei, una volta ritrovata la vena. Sono proprio avverso alle raccolte di poesia organizzata su temi che hanno alle spalle una messe secolare di trattazione in versi e in prosa cui attingere, consapevolmente o meno. Il peggio è ovviamente quando avviene inconsapevolmente.  Leggo così quantità industriali di versi dei quali  non si avverte che siano percorsi da un'intima necessità, in compenso senti spesso che nascono per affiliazione ora di senso ora di suono con le parole o i versi precedenti. Sono autori o autrici dotati di grande capacità  di articolare, stabilire contatti e nessi, affiliare immagini lontane e vicine. Pregi indubbi di molti versi, spesso restano nella memoria con facilità per la loro capacità di spiazzare, sorprendere, stupire. Eppure sento in essi la mancanza di un'anima. C'è molta poesia petrarchesca tra di noi, minore poesia dantesca.

***
mercoledì 5 ottobre 2011

Peter
Da un giorno all'altro Peter scompare. Chissà che fine ha fatto. Era allegro, fastoso di allegria. E così finivi col chiederti quanta disperazione tenesse per sé. Studia, studia. Studia l'inglese, lascia perdere quella roba. Shit. E accompagnava la parola con un gesto indispettito della mano. Aveva forse un paio d'anni meno di me. Oggi dunque dovrebbe essere vicino alla settantina.
C'è qualcosa di significativo nel fatto che ho ripescato nella memoria prima il nome di Orlando, l'ex magliaro che guidava il furgone nel campo inglese ridistribuendo viveri a mense, pub, magazzini, e poi di seguito quello di Peter? Peter fece l'aiutante di Orlando per qualche mese finché sparì. E io presi il suo posto. Chiaro che desidero dare sostanza di carne e ossa alla seconda parte. Ricordare i nomi, senza una mia apparente volontà di farlo, è un aiuto che mi sono dato.
Ci sono almeno un paio di versi irrinunciabili per Peter, di quando lui racconta della straordinarietà della natura in Australia. Racconta soprattutto di ragni, ne conosce di tante specie, li classifgica a seconda della loro ferocia.
Ho scritto così per ora, saranno sue parole:
La natura è stupida e feroce, otto milioni di uova per fare un salmone.
Occhio al ragno saltatore, si solleva fino ai tuoi occhi
e lì colpisce.


***

martedì 4 ottobre 2011

Peter

martedì 4 ottobre 2011


In qualche modo godevo di quella vita, ma ogni tanto in questi giorni mi chiedo cosa ci facessi a Colonia nell'inverno del '63!
Comunque Peter, tanto più ora che ricordo il nome, me lo ricordo bene. Fulvo di capelli arruffati usava un inglese molto friendly che capivo bene. In effetti dedicavo allo studio di grammatica e lessico almeno due ore al giorno. Gli occhi sfuggenti non faceva nulla per evitare che scintillassero la propria follia.
Credo avesse dell'acrimonia verso la mia predilezione per i libri, la storia, la poesia. Lui l'avventura. Lavorando solo qualche mese all'anno e occasionalmente dove si trovava, girava il mondo. Quando eravamo a tavola per il magro lunch dello staff, senza che glielo chiedessi, esaltava con gli altri la mia dedizione allo studio. Non ho mai capito quanta ironia usasse ma c'era, c'era!

sabato 1 ottobre 2011

Poema, poema.

sabato 1 ottobre 2011


Ormai lo chiamo poemetto. E ora avanza a singhiozzi.
Certo, aver letto in pubblico e dato da leggere la prima parte che ho chiamato La solitudine di Schenk, è stato positivo, tutti i commenti, o quasi, sono stati positivi. L'osservazione più sorprendente è venuta da Silvio. Non l'ho capito, ha detto. Terribile. Avesse detto che non  gli era piaciuto avrei retto meglio. Dire che 'La solitudine di Schenk', coi miei versi più 'prosastici' di sempre, non l'aveva capita non stava né in cielo né in terra. Insomma non ho capito l'insieme, l'atmosfera, il contesto. Sono rimasto in silenzio a riflettere. Vuoi vedere che quella breve introduzione che avevo in animo di premettere al poemetto è più necessaria di quanto pensassi? Gli ho chiarito quale fosse appunto il contesto, a cosa e a chi mi riferivo, la situazione. Proverò a rileggerla. Qualche giorno dopo, che lui se n'era andato da Esino e a Milano aveva ripreso in mano la cosa, mi ha richiamato e il giudizio questa volta era buono. Ma vattelapesca. Quando dai da leggere qualcosa di tuo non sai mai cosa puoi aspettarti. In ogni caso è vero che in tutte le precedenti situazioni alla lettura ho fatto precedere qualche notizia su quell'episodio della mia vita giovanile che i versi rammentavano, e forse ciò aveva spianato la via ad una accoglienza più immediata. Inoltre ho presentato quei versi come una prima parte. E lì per ora sono rimasto. Da ora in avanti su queste pagine vorrei aggiornare più o meno quotidianamente la situazione della composizione delle parti successive.
Ho recuperato qualche settimana fa a Esino il nome dell'australiano, quel ragazzo vivacissimo che ha contribuito, non ho mai capito con quanta intenzionalità, all'incidente in cui mi sono spaccato l'anulare della mano destra sotto la pressione di una sbarra di ferro. Ma non fu tutta colpa sua. Di Peter. L'enorme carrello portavivande lui lo spingeva da dietro io lo tiravo davanti. La bella idea, in preda evidentemente a una euforia ludica, fu quella di sollevare le gambe ad angolo retto contando sulla spinta continua di Peter, il quale invece ha mollato la presa. Il carrello si è sollevato da dietro e il davanti sotto il mio peso si è schiacciato al suolo, io ho lasciato le mani sotto la sbarra sulla quale mi ero sollevato. Fortunatamente il carrello si è piegato in parte su un lato   e lo schiacciamento ha interessato il fondo schiena, con postumi che risento ancora oggi dopo cinquanta anni, e la mano destra, l'anulare in particolare che è scoppiato. Per il dolore sono svenuto e ho ripreso conoscenza su un tavolo della dining room con addosso la faccia premurosa di uno dei cuochi che mi confortava, quel cuoco era inglese ma non ne ricordo il nome. Take it easy, take it easy...