L’ossimoro leopardiano, presente nella poesia giovanile ‘L’infinito’ come in ‘La ginestra o il fiore del deserto’ uno degli ultimi Canti (privilegiato nell'analisi che segue), segnala la multidirezionalità dello sguardo del poeta in opposizione allo sguardo unidirezionale della modernità, propone un territorio di frontiera nel quale si realizza la compresenza di due aree di significati fortemente connotate l’una in direzione della sofferenza, della distruzione, della morte, l’altra nel senso della consolazione, della socievole propositività, della vita fiera e nobile e infine dell’amore. In questo territorio il nulla e la poesia intrecciano i loro fili in una trama nella quale è possibile cogliere l’intero disegno poetico dell’opera di Giacomo Leopardi e la parte più consistente della sua asistematica riflessione che lo colloca tra i più grandi pensatori del XIX secolo. Qualche tempo prima del diluvio, dunque.
Il titolo del canto (La ginestra o il fiore del deserto), uno degli ultimi composti da Leopardi a Torre del Greco nel 1836, è accompagnato da un sottotitolo costituito da un versetto del Vangelo di Giovanni : E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce, che è un richiamo polemico nei confronti degli spiritualisti: è secondario rilevarlo qui, tuttavia in esso l’opposizione ossimorica tenebre-luce non passa inosservata. Di ben altra visibilità gode però nel titolo l’opposizione della coppia fiore-deserto.
Il titolo del canto (La ginestra o il fiore del deserto), uno degli ultimi composti da Leopardi a Torre del Greco nel 1836, è accompagnato da un sottotitolo costituito da un versetto del Vangelo di Giovanni : E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce, che è un richiamo polemico nei confronti degli spiritualisti: è secondario rilevarlo qui, tuttavia in esso l’opposizione ossimorica tenebre-luce non passa inosservata. Di ben altra visibilità gode però nel titolo l’opposizione della coppia fiore-deserto.
La scelta dell’ossimoro è ricca di implicazioni a va letta come volontà di un richiamo forte del linguaggio poetico (una figura del significato) all’impianto poetico- concettuale che il canto intende spiegare davanti al lettore. L’ossimoro propone un territorio di frontiera nel quale si realizza la co-presenza di due aree di significati fortemente connotate l’una in direzione della sofferenza, della distruzione, della morte, l’altra nel senso della consolazione, della socievole propositività, della vita fiera e nobile e infine dell’amore. In questo territorio vita e morte - il nulla e la poesia - intrecciano i loro fili in un unico tessuto in cui lo stridente contrasto apparentemente si attenua e nel quale è possibile cogliere il disegno poetico del canto e la parte più consistente della asistematica riflessione leopardiana.
Anzitutto all’ossimoro del titolo è sottesa la radicalità di quella riflessione. Ad essa corrisponde l’esito della vicenda storica del poeta: nel ’36 vive, malato e pressoché senza mezzi, in una sorta di piccola comune con l’amico Ranieri e la sorella di lui, avendo da tempo rifiutato i pochi ma comodi privilegi di una sistemazione presso i suoi in Recanati e tagliati i ponti poi, orgogliosamente, anche con il faticoso e malpagato lavoro per la casa editrice Stella & figli di Milano. Risalendo i versanti del Vesuvio Leopardi sembra abbandonare il suo presente storico, farsi straniero al mondo per affidare definitivamente al linguaggio poetico la sua più magnanima e radicale riflessione sull’esistenza e sulla condizione del poeta. Sul deserto lavico e gibboso del Vesuvio, la natura, il divenire eterno, concrezione anche storica di lentissimi mutamenti non rilevabili dai tempi corti della vita della specie umana, illustra le sue abitudini: esse comprendono la distruzione di intere civiltà (La ginestra, versi 24-32), di qualsivoglia forma di esistenza, né prevedono cure particolari per il seme umano, che può essere annichilato in un momento (v. 45-48, 231-233).
Intorno a questa drammatica realtà un noto passo dei Pensieri ci restituisce più articolata la riflessione, che fa capo alla teoria del piacere a più riprese enunciata nello Zibaldone. Anzitutto la sofferenza universale. “Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo…Ciò è manifesto dal veder che tutte le cose al loro modo patiscono necessariamente e necessariamente non godono…, perché il piacere non esiste esattamente parlando… Non gli uomini solamente, ma il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri al loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi (Zibaldone di pensieri, 22 aprile 1826). Quella sofferenza è per Leopardi il risultato del contrasto “tra il fine della natura generale e quello della umana, il fine dell’esistenza universale e quello dell’esistenza umana… Il fine naturale dell’uomo e di ogni vivente non è né può essere altro che la felicità e quindi il piacere suo proprio…, ma il fine dell’esistenza generale non è certamente in niun modo la felicità né il piacere dei viventi…” destinati viceversa al patimento e all’annullamento (Zibaldone, 5-6 aprile 1825).
La natura ha provveduto le specie di qualche piacere non c’è dubbio “ma la somma e la intensità del dispiacere nella vita di ciascun animale passa senza comparazione la somma e intensità del suo piacere” (Zibaldone, ibidem). Il bilancio dell’esistenza dell’individuo è dunque negativo per la quantità e sistematicità dei mali e per il nulla al quale è destinato: la natura, nel suo casuale e cieco procedere, dopo aver tratto l’individuo dal nulla, tende a eliminarlo per dar luogo ad altri individui in una eterna vicenda di produzione e distruzione destinata a perpetuare l’esistenza, non a rendere felice il singolo esistente. Così l’opposizione tra il fine individuale (il piacere, la felicità) e quello dell’esistenza universale dà luogo a quella contraddizione dolorosa e tragica che spiega le sofferenze immedicabili della condizione umana.
L’ossimoro va colto come corrispettivo linguistico nel discorso poetico di questa estrema e spaventevole contraddizione che Leopardi legge nell’esistenza: la natura organizzata per perpetuare il suo divenire e la sua contemporanea e necessaria indifferenza verso le singole specie, compresa quella umana. Nell’ossimoro la vita, la ginestra, si accoppia, co-esiste, con il nulla, le rovine e la forza distruttrice della natura. Il deserto, la morte, è anche vita: in esso attecchisce e fiorisce la ginestra profumata con le sue molli foreste. La ginestra mostra la vita e diffonde, consolatrice generosa, il suo profumo (e il poeta il suo canto) ma ha le sue radici non nella vita bensì in un manto funebre che ricopre le rovine di antiche civiltà (l’opera nullificante del divenire).
C’era un ossimoro anche in L’infinito, il canto quasi dell’esordio della carriera poetica di Leopardi (il “naufragar m’è dolce in questo mare”): a distanza di quasi vent’anni, al termine quasi della vita, l’ossimoro si conferma come la soluzione necessaria che apre la strada al recupero del piacere, della poesia, delle illusioni, dell’amore contro i limiti posti dalla natura accanitamente matrigna. La soggettività morente si solleva dal fango (A se stesso, 1835, v. 10) che è l’esistenza, l’indifferente divenire eterno, in un territorio (l’ossimoro, la co-presenza di vita e morte) nel quale è ancora possibile il progetto di una diversa sintassi umana di poesia e amore.
Avendo come nemica la natura ogni progetto ‘virtuoso’ è da vili, tanto vale allora sostare, costi quel che costi (“l’oblio, di cui il poeta si ride”, La Ginestra, v. 71) nelle illusioni più potenti, l’amore e la poesia: “Oggi non può scegliere il cammino della virtù se non il pazzo, o il timido e vile, o il debole e misero” (Zibaldone, 23 aprile 1821). L’amore e la poesia in quanto illusioni grandi sono anche il viatico verso la grandezza .“Pochi possono essere grandi se non sono dominati dalle illusioni” cioè dal disordine perché “quelle cose che noi chiamiamo grandi d’ordinario sono fuori dell’ordine e consistono in un certo disordine…” (Zibaldone, ibidem). La poesia, l’ossimoro, è in certo modo disordine e rende grande Leopardi.
Ma l’ossimoro, il linguaggio poetico, accogliendo in sé contemporaneamente vita e morte, con-vivenza e con-morienza, vuole disordinare, euristicamente, anche le tradizionali regole della conoscenza greco-cristiana. Il problema Leopardi se l’era posto appunto nel considerare quella contraddizione di fronte alla quale la mente dell’uomo non può che arretrare sbigottita: “Contraddizione evidente e innegabile nell’ordine delle cose e nel modo della esistenza, contraddizione spaventevole ma non perciò men vera: misterio grande, da non potersi mai spiegare se non negando, secondo il mio sistema, ogni verità o falsità assoluta e rinunziando in certo modo anche al principio di cognizione non potest idem simul esse et non esse (in corsivo nel testo, Zibaldone, 5 aprile 1825).
Capace di accogliere in sé quella spaventevole contraddizione che è la vita umana coi suoi desideri rispetto al divenire, l’ossimoro risolve, ‘spiega’ la contraddizione stessa: accoglie in sé la conflittualità dei termini e fa interagire questi ultimi in una tensione dinamica che permette ‘in certo modo’ la rinunzia al principio fondamentale della teoria della conoscenza legato alla nozione logico-metafisica di identità secondo il quale la stessa cosa non può insieme essere e non essere. Il dolce naufragio. Il deserto che fiorisce.
L’ossimoro avvia in un territorio nel quale la compresenza degli opposti costringe a rendere più acuto lo sguardo che diviene capace di cogliere una doppia molteplicità dell’essere. E la multidirezionalità dello sguardo diviene fondamentale segno dell’opposizione leopardiana alla dimensione unidirezionale dello sguardo della modernità, nella quale una parzialità viene eretta a sistema generale: l’utilitarismo come filosofia politica e morale, le risorse umane matematizzate da scienze e tecnologie, presunte indefinitamente progressive.
Chi non accetta quella conflittualità, quella contraddizione, è un vile, un servo oppure è un superbo for-sennato (fuori del senno). Chi non accetta il nulla non può aspirare a diffondere il proprio profumo, non può elevare alle stelle il proprio canto, non vive, non prova piacere. La posta in gioco è la capacità creativa di rendere il conflitto piacevole e, rovesciando i termini, di rendere conflittuale il piacere pena la noia mortale per il genio creativo. L’ossimoro, il linguaggio poetico, rimanda alla capacità del poeta di dare scacco alla vita che è deserto e naufragio accettando la conflittualità del piacere e il piacere del conflitto, sì che del deserto e del naufragio l’uno si faccia fiorito, l’altro dolce. Il piacere, che è una attenuazione del senso di vita, un’illusione, diventa progetto possibile e necessario per il genio quando il suo canto conservi ben limpida l’eco del nulla che è la vita: il canto che si fa elegia riflette sul nulla coi suoi giuochi di parole (l’ossimoro) che “nulla al ver detraendo” (v. 115) consolano la vita della sua morte. La poesia, il canto, il profumo, la ginestra rendono piacevole il conflitto.
Ma occorre preservare la conflittualità del piacere, mantenere il contatto col nulla, col “verace saper” (v. 115) al quale voltano le spalle solo i vili e i forsennati privi di poesia e animati da volontà di potenza: l’immortalità e la ragione della tecnica. Chi non fa propria la conflittualità dell’ossimoro (la con-vivenza, la con-morienza) tende a eliminare per una illusione vile (poesia e amore sono illusioni potenti) o l’uno o l’altro dei due termini. Lo spiritualista, il quale “fin sopra gli astri il mortal grado estolle” (v. 86), nasconde il nulla e la morte con l’immortalità promessa dagli “autori delle universe cose” (v. 192) scesi apposta in terra a “conversar sovente” ( v. 193) con gli umani; egli solleva il capo “con forsennato orgoglio inver le stelle” (v. 310) dimentico del deserto dove “e la sede e i natali / non per voler ma per fortuna ebbe” (v. 312-313).
Altri (coloro che esaltano la nuova scienza e la nuova tecnologia) animati da “fetido orgoglio” promettono destini superiori e straordinarie felicità (v. 103), annunciano “le magnifiche sorti e progressive” (v. 51) e nel conclamato utilitarismo soffocano la poesia, la vita, il profumo della ginestra. Gli uni e gli altri disconoscono il deserto, nascondono il conflitto e finiscono poi col distruggersi in guerre fratricide, proprio quando incombe il nemico (la natura)(v. 135-144).
Solo nell’ossimoro, nel linguaggio poetico, c’è il piacere vero, che non nasconde il conflitto: c’è il piacere vero perché il non-piacere non è nascosto, c’è; c’è la vita vera perché la non-vita è presente; c’è amore vero perché l’amore non c’è.
Saldamente radicata nel nulla la ginestra è “contenta dei deserti”, gode del suo esistere sulla non-esistenza, le ceneri infeconde dell’impietrata lava (v. 18-19). In breve soccomberà “alla crudel possanza del sotterraneo foco” (v. 300-301). Essa sa che per non –amore tornerà nel nulla da cui proviene, ma non per questo dimentica le rovine e la sofferenza dei “tristi lochi” che ama, spande invece il suo profumo a consolare la morte, il deserto. Libera dai lacci della viltà o della tracotanza, non sfiderà il fuoco come se avesse uguali forze o superiori, ma non piegherà nemmeno il capo codardamente supplice (v. 305-310). La sua libertà le consente di continuare magnanimamente a diffondere il suo profumo. Così il poeta, liberato dai vincoli della codardia o della volontà di potenza del folle o dell’astuto che “ fin sopra gli astri il mortal grado estolle” (v.86), può dalla landa del Vesuvio volgere all’intorno il suo sguardo, fattosi acuto, verso la complessità del nulla. Nel deserto risonante sotto i suoi passi ma anche nelle infinite stelle fiammeggianti (v. 163) nel cielo dell’eternità, irraggiungibile dalla precarietà delle radici umane. Sull’”oscuro granel di sabbia il qual di terra ha nome” (v. 191), ma anche sulla moltitudine sofferente che lo abita, condannata alle tenebre dall’illusione vile dell’immortalità e dalla ragione senza poesia della tecnologia e della scienza.
La molteplicità dello sguardo del poeta com-prende ora, prende ora con sé, l’intera umanità e la abbraccia in un progetto d’amore. Nella poesia, nella doppia verità della poesia, l’amore, vero, è un progetto possibile perché nel suo territorio amore e non-amore convivono: qui “ l’onesto e retto conversar cittadino, e giustizia e pietade” hanno ben altre radici ( le non-radici) che non le “superbe fole” del secolo (v. 151-154). Come la ginestra spande ovunque il proprio profumo così il poeta volge il suo sguardo sul mondo e “tutti abbraccia con vero amore” (v. 131), con il suo canto.
Il poeta traccia col linguaggio poetico la pista sul deserto: la “social catena” in cui ciascuno porge e aspetta “valida e pronta aita” (v. 133), è ora percorso possibile nel non-luogo dell’ossimoro.
Il presente lavoro è una rielaborazione del saggio pubblicato sulla rivista MILLEPIANI, numero 5, 1995, ed. MIMESIS. A giorni anche sulla rivista on line www.overleft.it