giovedì 29 marzo 2012

Il tradimento di Claudio è il titolo di questa quarta parte. Claudio dovrebbe esserne il protagonista ma la memoria qui è avarissima. Tema di fondo resterà però quello su lavoro manuale e lavoro intellettuale, se ne discuteva molto in quegli anni di boom economico quando l'Italia era una sorta di locomotiva dell'economia europea.

In novembre in questo blog avevo dato inizio alla presenza di Claudio, riporto qui quanto scritto il 3 novembre 2011, era un giovedì.



Sbarazziamoci dell'autunno affrontiamo
l'inverno, dice Dieter, la giustizia non viene da Est,
nemmeno da Ovest gli fa eco Claudio.
Sul piazzale Claudio aggredisce Dieter
rientrante al dormitorio, lui prende servizio
nel pub per gli ufficiali proprio a quell'ora,
verso le dieci di sera è bevuto, come tutti.
Tell me Italia, tell me Italia...
Claudio triestino ha un perfetto inglese
ma Saba e Svevo non fanno argomento.
.

mercoledì 28 marzo 2012

La poesia è scandalo.
Nulla di più scandaloso che essere fuori dalla competizione per il tot e il quot e il plus. L'up, il best, lo score. La performance, l'accumulo, il consumo. Il tutto inteso come qualità, eccellenza. Il meglio, for ever. Nient'altro.  Chi vive dentro questa filosofia di vita ha questa caratteristica: la ritiene il meglio delle scelte, anzi l'unica possibile le altre essendo frutto di ideologie perdenti. Come se il mercato con le sue derive fondamentaliste e con le sue forme dettate dall'evoluzione intrinseca delle regole del profitto, come le multinazionali e la finanziarizzazione dell'economia, non fossero organizzate dentro una ideologia: il fatto è che questa è più vincente delle altre, anche se i vincenti sono costretti, obtorto collo, ad addomesticare e riformare le loro forme a causa di un'opposizione più o meno organizzata che ogni tanto vince qualche battaglia. Sono convinti di essere nel giusto. E vogliono essere liberi di licenziare l'operaio tutte le volte che gli sembra giusto, perché loro rischiano i propri soldi. L'operaio ha bisogno almeno della sicurezza del posto di lavoro perché a rischio in fabbrica c'è la salute, non solo quella organica del corpo ma anche quella organica alla mente perché dieci ore di lavoro manuale ti impediscono di fare nient'altro.
Si chiedono come facciano a scoppiare le rivolte e le guerre 'necessarie' contro le rivolte.
La poesia imbarazza come nessun'altra arte. Fuori com'è dal mercato e dal potere che esso porta con sé. Chi c'è dentro si scrolla di dosso la poesia con un'alzata di spalle, a volte persino con l'irrisione dato che relega all'immaturità la scrittura di versi. L'irrilevanza della poesia essendo così acquisita ufficialmente, gli animi si tranquillizzano facilmente. Anche se a qualcuno resta il sospetto in fondo all'animo che invece è nella poesia che si giocano la sapienza, la sintesi dell'essere nei suoi movimenti semplici e complessi e persino la bellezza. A volte la poesia s'insinua come il dubbio. Si intrufola come un ladro e ci interroga. Accade quando siamo soli e magari ci sentiamo per un attimo impegnati a non mentire con noi stessi.
Ma tra i vincenti in nome del mercato e quanto c'è al mondo di piatto c'è relazione. I loro sono volti piatti, busti piatti, e hanno dentro piatti intestini e fegati, dimodoché per loro il mondo è solo il luogo dove devono mettere in serie, in sequenza numerica, quantità di oggetti piatti e di momenti piatti, magari aiutandoli a tenersi per mano e accompagnandoli con una musichetta fino all'orlo della vita. Dalla quale restano esclusi per l'impellenza del quantum/tantum prioritario, con seguito di parole piatte, cacaminuzzoli da capre, barbette piatte al mento.
La poesia è scandalo perché vuole parlare anche ai piatti, che  parlando oramai solo tra di loro hanno perso di vista l'universo.

sabato 24 marzo 2012

Interessante quel tuo scritto.
Trovo ormai insostenibile il peso di questa presunta gratificazione che ti arriva quando non ti aspetti gran che ma comunque altro.
Ma insomma la poesia riguarda l'arte o no? E se sì ha a che vedere con l'estetica o no? E allora una poesia o è bella o non lo è, o ti piace o no. E se la trovi interessante intendi che c'è dentro qualche spunto che varrebbe la pena che io sviluppassi o intendi che ahimé non c'è niente da fare?
Pochi hanno il coraggio di dirti: bello! Pochi si assumono la responsabilità di dirti direttamente: bella schifezza!
Anche perché in effetti a chi scrive il giudizio arriva di solito da un altro che scrive, e da una parte è un po' difficile che chi scrive non riesca a dire, in quanto scrive, almeno una cosuccia interessante, dall'altra il giudicante, che scrive appunto anche lui, si troverà presto nella parte del giudicato.
A furia di somministrarci questi 'interessante' abbiamo finito col trovare molto significativo che il tale te lo abbia regalato. Avrà voluto dire che stoffa e talento ci sono ma che vanno coltivati ancora. Avrà voluto dire che la prima impressione è stata buona e che una seconda lettura solleverà e confermerà il giudizio positivo ora prudente. Oppure che la tua poesia non vale proprio niente e dire così è stata una formula per non abbatterti.
La realtà nella maggior parte dei casi è che la tua poesia è irrilevante, che ha davvero qualcosa di interessante ma che si ferma prima che uno possa dire: bella!
La storia è cominciata con Baudelaire, con quel suo perdere l'aureola nel fango della metropoli. Da quel momento è diventato sempre più difficile parlare di bello.
La poeticità anzi è stata messa al bando. La cosiddetta 'aura poetica'.
Giusto così.
Per far pari, o magari qualcosina in più, visto che l'umanità per ora sopravvive, con le brutture del Novecento, bisogna saper andare ben oltre la poeticità.
Perché l'umanità sopravviva bisogna, rispetto alla bruttura che produce, che riesca a creare un grammo di bellezza in più, un secondo di bellezza in più, un millimetro di bellezza in più.
Per questo siamo sempre a un passo dall'abisso, per questo riusciamo sempre a scavalcarlo. Almeno sin qui.

mercoledì 21 marzo 2012

La posta in gioco era l'adesione a una delle regole più efferate: prima ti sistemi, poi pensi all'amore. Prima il lavoro poi la famiglia. C'era a dire il vero anche di più, fuori dalla grande città verso Nord ci si sposava solo dopo avere comprato già la casa! Il sistema funzionava così, prendere o lasciare. E le prime a fare propria questa regola erano le donne. Le quali avevano cominciato a inserirsi nelle attività con grande accoglienza: erano poche ma motivate e comunque avere una buona segretaria era quanto di più normale e desiderabile ci fosse in quell'inizio di anni sessanta. Poche restavano, finivano col fare le amanti del capo e rimanevano zitelle, le altre più numerose e più fortunate trovavano marito e al primo figlio tornavano alle 'loro' faccende domestiche.
Nel campo tedesco quel popolo di emarginati a dire il vero sembrava aver rinunciato a tutto. Nessuno parlava di amore e il lavoro che avevano bastava per sigarette, birra e qualche passeggiata fuori porta al tempo del carnevale. Nessuno si poneva certo il problema se era preferibile il lavoro manuale, grosso modo lavoro servile, o qualche altra dimensione più elevata socialmente. Lavoro servile se ne trovava, persino quello in fabbrica, ma in quel campo mi resi conto che l'operaio apparteneva a una sorta di aristocrazia del lavoro, era gente scafata, muscolare, fiera e combattiva e non amava certo il lavoro servile come quello che facevo io. L'eco delle loro lotte dentro la fabbrica giungeva fino al campo. Le donne impiegate nei lavori di pulizia nelle cucine e nelle mense se non erano  sfatte o brutte puntavano a quegli operai.
Dal campo lo sguardo era attratto spesso dai lunghi treni merci che trasportavano le auto fuori dalla Ford e si perdevano nella pianura diretti in tutta Europa.
La fabbrica attirava anche me, il lavoro che facevo era sotto di almeno un paio di scalini nella guaduatoria sociale, ma gli operai che conoscevo impazzivano per la fatica e l'impossibilità di vivere realmente l'amore, la famiglia, i figli e tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. La fabbrica dettava i ritmi di vita anche fuori, anche nelle case, nelle tavole, nei letti. I giovani spendevano le ultime energie della giornata in qualche bordello improvvisato in un incontro veloce e inutile oppure ubriacandosi di birra nelle cantine.

martedì 20 marzo 2012

Inverno a Colonia.
Questo ora risuona come titolo definitivo.
E non perché la mia stagione attraversò solo l'inverno: arrivai in inverno, era gennaio, ma me ne andai a autunno inoltrato, in realtà cioè vidi l'alternarsi quasi completo delle stagioni dell'anno.
Ma fu inverno per più motivi. Soprattutto perché, se la tensione complessiva rimandava alla necessità dell'amore, amore lì dentro, in quel campo, non ce ne fu. Ma la posta in gioco era anche un'altra. La dimensione del lavoro sarà il tema della quarta e ultima parte del poemetto. Tra lavoro manuale e lavoro impiegatizio, le due dimensioni del lavoro che avevo sperimentato sin lì, stavo liberandomi con fatica verso la dimensione del lavoro intellettuale. Avevo contro mio padre che all'arte aveva dedicato tutta la sua vita, ma avevo contro anche mia madre che temeva a priori che la vita da intellettuale mi avrebbe allontanato da lei.
D'altra parte qualcosa di intellettuale a quel punto dovevo fare per campare visto che in fabbrica non ci andavo e come impiegato avevo già dato. Certo non potevo pensare di campare facendo il poeta. Anche se continuavo a scrivere versi, come fossero appendice caudale inevitabile. Versi per lo più poco curati, poco convinti.
Inverno a Colonia.

sabato 17 marzo 2012

Le cicogne di Micene

8 marzo 2012 - 17 marzo.

Le cicogne di Micene 
(lettera in ricordo dell'amica di viaggio).

Non era l'alba dei sogni né il tramonto delle idee
quel nostro varcare la porta dei leoni 
incastonati nelle pietre di Micene,
aprivano per noi un varco nel tempo,
e a tetti e pareti mancanti
ci accolse odore di fieno e di morte
come se gocce di sangue, ferite aperte,
scintillassero ancora tra basamenti intatti.
Il sentiero ci conduceva a voci sopite,
io a lei tu a lui la mano, per quei tremila anni
come un battito di ciglia, la tracotanza di Agamennone, 
il rancore di Clitennestra.

Dicevamo di scenari soliti,
maschi guerrieri, inventori di ruoli e tradizioni 
per la propria egemonia, private vendicatrici
mai libere a mimarne gesta  e pensieri,
come fosse un destino, più forte degli dei
che hanno abitato alberi, statue e ginestre
di questo paese.
No, nessun destino. 
E' volere arcaico, ordine patriarcale, 
che intreccia passioni e divino,
che ci vorrebbe eredi per sempre di maschere d'oro,
tombe ciclopiche, armature ammaccate.

Ci teniamo noi a passioni pazienti di lumi
e non di incendi. La tua mano a lui la mia a lei
voltiamo le spalle a Micene, abbiamo un patto nuovo
all'altro capo del sentiero, dividere tra tutti 
il tempo di cura dell'aria, dell'acqua, della terra, 
del fuoco e di tutte le nostre risorse. 
Finché il pianeta ci tenga.
Per ora ci contentiamo di un the in questo bar
fuori mano. Le cicogne su quel palo 
ci mandano segnali. L'una si stacca in volo e ritorna,
l'altra, rimasta nel nido, l'accoglie col battito sonoro del becco,
un applauso.
Ci chiediamo chi sia il maschio e chi la femmina.
Le abbiamo lasciate al loro destino.

mercoledì 7 marzo 2012

Divagazioni.




A proposito di 'versi'

Che il pettirosso chioccoli è dato,

l'ape che bombisce si sa,






il tordo che zirla è pure noto,


                             e, per restare terra terra,




nessuno si stupisce che il coniglio zighiMostra immagine a dimensione intera




e che il tacchino goglotti,
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ma via, che il pavone paupuli 

fa un po' effetto, no?