lunedì 26 dicembre 2011

Mi è capitato spesso nel passato, per strada, di riconoscere improvvisamente nell'aria di città l'odore di Colonia del 1963. Assolutamente identico, non ho dubbi. Allo stesso modo ricordo l'afrore dell'acqua marina di superficie, immobile sotto riva fra qualche scoglio con le erbe verdi sul fondo, nel mio paesino in Puglia, più di sessantanni fa. Quell'afrore ha somiglianze con l'acqua profonda del tratto di mare di Trieste dove ho imparato a stare a galla, più o meno nello stesso periodo. Quello di Colonia invece è quello della città industriale. Ma ormai è molto che non lo sento più qui a Milano. Credo dipenda dal fatto che quasi tutte le fabbriche sono state sostituite da condomini. Non c'è più lo smog nero e denso, ci sono invece le polveri sottili degli scarichi delle automobili e dei riscaldamenti delle case. Suppongo che l'aria non abbia più lo stesso odore nemmeno a Colonia. Sono tornato recentemente in Puglia e a Trieste e il mare aveva lo stesso profumo. I mari sono certamente più inquinati e l'afrore è più chimico, ma credo che il risultato sia pressoché uguale perché si tratta sempre di decomposizione e morte di alghe, pesci e rifiuti.
La prima notte nel dormitorio studentesco di Colonia la passai sveglio, pensavo a cosa mi ero lasciato alle spalle. Respiravo con piacere l'aria fredda che entrava dalla finestra aperta alla mia altezza nel letto a castello. Verso le due o le tre del mattino il freddo diventò più importante dei miei pensieri, accostavo la finestra e il tipo di sotto si alzava e la spalancava. Siamo andati avanti così. La mattina volli dare un'occhiata a quel personaggio, era un tedesco mingherlino, sottile e pallido. Forse doveva evitare di dormire al freddo.
Non dovettero trascorrere più di uno o due giorni quando in un tardo pomeriggio, mentre io e il nero americano cercavamo di comunicare con i nostri dizionarietti, un giovane di statura piuttosto alta, capelli biondi mossi e occhi chiari mi si è rivolto sorpreso di trovare in quel posto un italiano. Il suo accento era inconfondibilmente triestino. Come per chiunque è inconfondibile il dialetto del proprio paese. Anche se come per me la permanenza nel luogo di nascita è stata saltuaria. Oggi non so parlarla, ma nemmeno a vent'anni, già allora ne conoscevo ormai solo la cadenza, l'accento, il ritmo. Per questo chiesi subito a Claudio se era triestino come me. Doppia sorpresa.
Una mattina di molti anni fa in un bar di Ripamonti ne riconobbi un altro, gli dissi che anch'io ero triestino. Strano di solito i triestini sono molto più affettuosi, mi rispose. Insomma mi tolse definitivamente quell'identità che già a me sembrava sovradeterminata. Da quel momento ho smesso anche di tentare ogni tanto di parlare in triestino per gioco. Che poi i triestini siano più affettuosi di altri era un'idea pellegrina, Claudio non lo era affatto. Piuttosto era curioso. Chi ero, quanti anni avevo, cosa ci facevo lì, se ero davvero studente, il tutto con un pizzico di diffidenza che non ho mai capito da dove gli provenisse. Dato che allora, proprio come oggi, ero molto insicuro di me pensai che gli provenisse dal fatto che mi spacciavo per triestino senza esserlo in effetti, infatti non parlavo in triestino. Prese a comportarsi da subito da fratello maggiore e in effetti qualche anno in più li aveva.
Il vero personaggio era lui. Aveva sulle spalle un doppio tradimento. Quello verso la sua famiglia che lui accusava di essere una famiglia patriarcale, autoritaria, soffocante e stupida, e quella verso lo studio perché aveva abbandonato l'Università.
E' per questo che la terza parte del poemetto si chiama "Il tradimento di Claudio".

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