martedì 26 marzo 2013

I Ciompi e le lotte degli addetti alla Logistica



Persino i Ciompi a Firenze nel 1378 riuscirono a vedere riconosciuti, almeno per qualche anno, i loro diritti di cittadini: i salariati più bassi della lavorazione della lana infatti, addetti alla ‘ciompatura’, alla battitura della lana dopo averci orinato sopra, erano in definitiva cittadini di Firenze (a parte ‘una brigata fiamminga’!), anche se molti di loro erano immigrati in città dal contado, immiserito dalla peste e dalle guerre.  Gli ‘addetti  alla logistica’ del nostro tempo sono invece in gran parte migranti africani. Risiedono sì in Italia ma è come se non ci fossero. Lavorano dieci, dodici ore al giorno ma sono invisibili, non sempre hanno un salario, spesso è dilazionato, non maturano alcun diritto di anzianità perché ad ogni licenziamento devono sempre ricominciare da capo, molti non hanno permesso di soggiorno, chi ce l’ha ha lo stesso trattamento.
I Ciompi occuparono Palazzo Vecchio, allora dei Priori, e con una inattesa rivolta, maturata però negli anni, imposero la propria presenza nella vita politica, i facchini della logistica per ora occupano le strade, per fermare i TIR si sdraiano sotto le ruote. I Ciompi maturarono nel giro della loro stagione di lotta, che durò un quinquennio, la sorprendente consapevolezza rivoluzionaria (a giudicare dalle rivendicazioni divenute leggi per breve tempo) di non poter ottenere la tutela effettiva dei propri interessi senza modificare a proprio favore i rapporti di potere vigenti. Questo difficilmente potrà succedere per le lotte nella logistica, soprattutto perché non hanno nessuna possibilità di aggregare nessuno, non sono una classe, sono paria della lotta di classe,  anche se di essa riescono ad assumere forme di lotta abbastanza simili. Sono dei «sans-droits», «sans-parole», «sans-plume».  Parlano in pochi un italiano stentato e lo affidano a gruppi di giovani studenti che generosamente seguono le loro lotte, anche se in moltissimi casi sono studenti loro stessi. Ci sono anche italiani, ma sempre più spesso vengono licenziati, gli africani senza permesso di soggiorno sono preferiti e si capisce.
Ma proprio come i Ciompi rappresentano un vasto insieme di salariati non specializzati, privi di strumenti di produzione, normalmente retribuiti a giornata, soggetti a una disciplina del lavoro da schiavi. I Ciompi sconvolsero i rapporti di potere grazie a una politica vincente di alleanze, soprattutto con la piccola borghesia delle Arti minori, nella Logistica difficilmente riescono a trovare alleati, potrebbero esserlo forse gli autisti dei TIR. Ciononostante è un vero e proprio ciclo di lotte quello che si è aperto da tempo in questo settore nevralgico dell’economia e lo dimostra lo sciopero indetto per il 22 marzo per il contratto nazionale di lavoro. Alleanze difficili ma capacità organizzative dispiegate grazie all’uso della rete. Lo sciopero è stato deciso in una Globalconference che ha messo in contatto otto città del Nord Italia, il web da spazio virtuale si è trasformato in una agorà reale in cui centinaia di lavoratori hanno discusso e votato per scioperare.
Spiegano Anna Curcio e Gigi Roggero su Il Manifesto del 22 marzo:
‘I lavoratori della logistica, in particolare i facchini, sono nella loro quasi totalità migranti. Ci vuole poco a capirne i motivi: la ricattabilità a cui sono sottoposti dalla legislazione esistente li spinge ai livelli bassi del mercato del lavoro, dove i confini tra occupazione e lavoro nero si dissolvono, i contratti sono formalità di cui i padroni si disfano facilmente, l'intensità dello sfruttamento non conosce regole. Nel sistema delle cooperative, modello della sinistra e in questo caso nemico degli operai, le gerarchie del comando vanno dai vertici dell'impresa a una rete di caporali, passando per l'uso di bande mafiose che colpiscono le figure di riferimento delle mobilitazioni (auto bruciate, minacce e aggressioni, ecc.)’.

Difficili dunque anche alleanze istituzionali . E tuttavia il ciclo di lotte aperto da qualche anno non solo ha l’aria di voler continuare ma è già in grado di ottenere qualche riconoscimento. Comincia , con tante difficoltà, a lasciare traccia la continua denuncia della criminalizzazione dei migranti che crea uno straordinario bisogno di sicurezza, s’incrina in qualche modo la possibilità delle aziende (IKEA, COOP…) di gestire autoritariamente la mano d’opera senza alcun controllo.
La logistica è ancora uno dei pochi settori dove si crea occupazione. Nel 2011 nel Veneto ad esempio c’è stato un saldo positivo di 564 unità, interamente attribuibile a forza lavoro straniera. La logistica è ancora un settore ad occupazione prevalentemente maschile. La grande maggioranza è  rappresentata da facchini, seguono gli autisti, i conduttori dei mezzi pesanti, gli impiegati, i portalettere/fattorini. Ma, nonostante che la logistica sia un settore a capitale umano molto basso si tratta in realtà di un settore ad elevata “conoscenza tacita”, caratterizzato da saperi non codificabili e non codificati, trasmissibili solo per via informale attraverso l’esperienza diretta. Gli esperti lo chiamano ambiente di knowing by doing. (Sergio Bologna, 15 marzo 2013).
La domanda da porsi riguarda la possibilità che il ciclo di lotte riesca ad ottenere riconoscimenti forti e duraturi. Il pessimismo è d’obbligo. Per il motivo che dicevamo all’inizio, per il quale persino i Ciompi nel lontano 1378 avevano più chance dei migranti del duemila, la mancanza di cittadinanza. Contro la quale c’è un’agguerrita opposizione. Ma sembra comunque di poter dire che un’alleanza ‘civile’ su questa parola d’ordine forse è ancora possibile nel nostro paese e sembra l’unica via perché le lotte dei migranti e di tutta la logistica acquistino visibilità e maggiori possibilità.
Ma non è così semplice. Di mezzo c’è anche un fattore in qualche modo legato alla politica nazionale. Si tratta del voto. Il voto dei 4 milioni e passa di residenti stranieri di tutte le età (il 6,7% del totale della popolazione). Ci avverte Ferruccio Gambino ( sbilanciamoci.info del 22 marzo): ‘Ovviamente questa è una conta per difetto, poiché i migranti privi di documenti legali – variamente stimati nell’ordine di meno di un milione di individui – si sono tenuti alla larga dai rilevatori durante i mesi del Censimento. Come sempre, la ripartizione dei seggi è avvenuta sulla base del totale della popolazione residente che risulta dal Censimento medesimo. Mentre gli aventi diritto al voto sono soltanto gli italiani, l’assegnazione del numero dei seggi alle 27 circoscrizioni della Camera e alle 20 circoscrizioni del Senato nel territorio nazionale è data dal totale della popolazione residente – italiana e straniera – nelle singole circoscrizioni’.
Ma non basta. Gambino spiega anche che le regioni come la Lombardia che hanno più immigrati finiscono con l’esercitare ‘un peso territoriale iniquo per eccesso di seggi ottenuti rispetto a quelle circoscrizioni dove la presenza straniera è minore.’.
Dimodoche ‘al momento delle elezioni politiche una massa di più di quattro milioni di migranti residenti in Italia, in gran parte giovani di classe operaia, diventa il fantasma della politica corrente.’.
La cosiddetta ‘società civile’ dovrebbe riuscire a trovare in questo obiettivo del voto di cittadinanza una ragion d’essere.
Dopo cinque anni di potere effettivo a Firenze i Ciompi furono sconfitti ed estromessi dalla vita politica definitivamente. Del resto dopo qualche decennio a Firenze si instaurò la Signoria e gli ordinamenti democratici messi in cantina per qualche secolo. Non è detto che debba finire di nuovo così anche oggi.


venerdì 15 marzo 2013

Per scendere all'estate


Non c'è più storia, l'inverno è finito 
e per scendere all'estate mi occorre poco, 
una faccia meno timida, la voce meno rauca,
le gambe meno storte, il pelo meno corto.
Fra i piccoli che urlano, le sirene che stonano,
le storie dei più deboli, perderò la postura 
semirigida, il passo crepitante di pozzanghere, 
la voglia di stordire il giorno buio. 
Un po' di luce in più, un po' di sole in più, 
un po' di fiori in più, 
sostegni vitaminici per ripetere l'amore.

lunedì 4 marzo 2013

Aristofane e Lisistrata, poesia e patriarcato.



Rileggo Aristofane e resto ancora sorpreso dall'ennesima prova di quanto la nostra cultura non sia altro che un'articolazione di quella greca classica. Rischio la banalità, lo so. Da mettere sul conto della mia ignoranza. Lisistrata in una lettura moderna ma non convincente è stata reinterpretata come protofemminista. Ma Aristofane non potrebbe essere più lontano da simili prospettive. E non perché invece è maschilista (e neanche perché, più verosimilmente, fosse misogino, che in certi casi è pure da capire) ma perché al contrario è portatore assolutamente organico del patriarcato: che proietta fino a noi la codificazione irrigidita dei ruoli tra maschio e femmina, cosa che a sua volta genera i fondamentalismi (il possesso e la violenza legalizzati sul corpo delle donne) e in tempi favorevoli genera l'emancipazionismo che di per sé non modifica la sostanza del patriarcato, anzi lo rinforza, come la liberazione degli schiavi neri rinforza il sistema della fabbrica industriale.
Insomma nel quinto secolo a.c. (Lisistrata viene rappresentata per la prima volta nel 411, duemilaquattrocento anni fa!) il patriarcato è già al suo top nella società greca tanto che un  sistema culturale che lo riflette può esprimersi al massimo grado nel teatro. Insomma lì nella commedia di Aristofane i ruoli sono così vivi che ormai nessuno mette in dubbio che siano 'naturali', nessuno sa più che sono nati da una ipotesi di lavoro resa necessaria per la sopravvivenza di un ordine sociale. Così l'uomo è in sostanza un guerriero e la donna è una casalinga che ama i buoni sentimenti e la pace.
Lisistrata occupa l'acropoli con le donne ateniesi e spartane e le invita a sacrificare il proprio desiderio sessuale sottraendosi all'intimità con i propri uomini: costoro per riottenerla saranno più disposti a concedere quanto sta a cuore a Lisistrata, cioè la dichiarazione di pace tra ateniesi e spartani (siamo in piena guerra del Peloponneso). Già per se stessa l’idea della donna portatrice irenica di pace e dolcezza è una delle mitizzazioni maschili più note. Ma mi interessa rilevare altro nella commedia.
L’iniziativa femminile, che può essere scambiata per femminismo, è qui certamente assunzione consapevole di una soggettività anche forte, ma tutta interna al patriarcato.
Una soggettività che fa anche vincere qualche battaglia nella storia del rapporto tra i sessi.
A guidare la commedia sulla scena del teatro è un uomo col suo immaginario erotico prettamente maschile. Dal quale si deduce appunto l'organicità al patriarcato di Aristofane.
Anzitutto suggerisce che, prima che altrove, lo stimolo sessuale non può che trovare appagamento dentro la vagina. Almeno ufficialmente. Altre vie non sono dignitose, anche se poi, per non scontentare nessuno, Aristofane mette in bocca a Lisistrata l’invito ai maschi di servirsi all’occorrenza delle mani! Ma, e questo è ancor più significativo, Lisistrata appare convinta che in generale anche le donne concentrino esclusivamente il proprio piacere sessuale nella stimolazione della vagina: quando proprio non ce la faranno più le sue compagne nella lotta impegnate nell’astinenza potranno servirsi per consolarsi di uno di quei falli di cuoio che artigiani di Mileto hanno messo sul mercato!
Ma non basta. In una delle scene finali gli uomini si presentano alle trattative pubbliche con le donne con i falli in erezione per dimostrare che il loro appetito sessuale senza le donne non poteva essere soddisfatto. E questo non può che creare rischi per l’ordine familiare e sociale di cui la donna, con il suo lavoro di ‘cura’ domestico e ad personam è altamente responsabile. Di fronte alle donne e agli altri maschi presenti nella stessa scena e davanti al pubblico in platea, l'uomo vero non può che avere nel suo fallo desiderante la vagina l’argomento più convincente.
Ma non basta ancora. Nella commedia si dice delle donne che vestono baby doll, hanno una quantità incredibile di scarpe, si truccano e profumano e amano l'uomo profumato e coi peli nel didietro: Aristofane quasi senza accorgersene sollecita all'accettazione di un immaginario erotico che anzitutto è maschile e non femminile e lo spaccia per naturale e al quale come tale la donna deve uniformarsi. Lisistrata è una donna messa in scena da un maschio, portatore di un patriarcato mite, non fondamentalista. Un patriarcato non fondamentalista ma sempre ordine 'naturale' del mondo.

Hans a Colonia

Ho un rammarico per il mio Inverno a Colonia, non sono riuscito a inserire dei versi su Hans. Ma non è detto che non succeda. Intanto recupero qui quanto avevo annotato in bozza ancora prima di concludere il poemetto.


Nel dormiveglia della notte che ho ormai alle spalle mi è tornato di nuovo alla mente colui che chiamo Hans, con poche possibilità che questo fosse davvero il suo nome. Nel dormiveglia avevo davanti il suo volto segnato da una cicatrice che impegnava l'occhio sinistro e scendeva fino alla bocca, la cucitura non aveva trovato pelle e carne sufficienti dimodoché l'occhio risultava per un terzo chiuso e la bocca si torceva verso sinistra. Ma Hans non aveva un'aria sinistra, non tanto quanto lui pensava. Convinto di essere spaventoso quando t'incontrava mandava un grido di guerra per atterrirti sgranando quanto gli restava degli occhi e spalancando quanto gli restava della bocca. Più che impaurire indispettiva, per quel gridare che era anche chiusura di qualsiasi comunicazione, che forse temeva. Nel dormiveglia gli ho detto ti chiami Hans vero? ma lui mi ha risposto col grido di guerra col quale era solito salutarmi: spachetti, spachetti, manciare, manciare. Ma ci furono davvero poche parole fra noi. Anche quando, dopo qualche mese, ne avevo un po' in tedesco da usare. Credo che avessimo una soggezione reciproca. Lui era veramente un proletario e quel mestiere lo faceva perché era probabilmente l'unico che aveva trovato e che sapeva fare, non aveva evidentemente diplomi da spendere, quanto a me si doveva vedere da lontano che non appartenevo alla sua stessa condizione. Anzitutto avevo due paia di pantaloni, poi nella valigia m'ero portato un po' di libri, comprese due grammatiche, una di inglese e una di tedesco. E poi mi ero presentato come studente. Ma non era vero. Da più di un anno facevo l'impiegato contabile. Forse entrambi ci riconoscevamo nella nostra solitudine. Dopotutto anche lui si sentiva estraneo all'insieme, veniva infatti da un paesino del sud, a Colonia era un immigrato interno anche lui. La storia tra di noi ebbe un seguito. Un giorno mi offrì il pranzo in una trattoria. A tavola ordinò lui, fece insomma tutto lui. Fu allegro ma non ci fu niente da condividere. Nessuno di noi due conosceva la lingua dell'altro ma da quello che risuonava nella sua voce capii che lui parlava un dialetto. Ma il gesto è rimasto notevole nella memoria. Per questo me lo sono sognato a distanza di cinquant'anni. Continuo a volergli bene nonostante  gli spaventi che mi procurava mentre ero assorto a pelare patate.

sabato 2 marzo 2013

Con la pressa di vivere sul collo

Certo che sono in grado di dirti come succede che a un certo punto scrivo dei versi. Non c'è niente di misterioso, se è questo che pensi. Non dico che è un lavoro come gli altri ma gli assomiglia molto. Solo che la prima cosa che devi attivare è l'attenzione a una emozione, questo non è facile non perché presenti difficoltà meccaniche ma perché se sei impegnato nella tua vita quotidiana di lavoro, impegni familiari e di relazione non ti viene spontaneo dare attenzione a quelle emozioni. Non sono mediamente riconosciute produttive,  in quelle condizioni l'unica emozione sempre allerta e che non puoi ignorare, per me e credo per la maggior parte degli uomini, è l'attrazione sessuale. Più sei impegnato nel lavoro più è difficile ignorare l'oggetto del tuo desiderio se ti passa accanto profumato e scollato (nel senso proprio che non fa niente se si tratta di una persona che non stimi se è però sexy!). Ma a tutte le altre emozioni si lascia uno spazio minimo, perlopiù segreto, intimo e quasi vergognoso. Il poeta è abituato a stare allerta su di quelle, certo lui ci si è  educato ma perlopiù si tratta di una disposizione dell'animo alla quale lui ha scelto di lasciare tempo e luogo per manifestarsi, insomma non ci ha rinunciato mai, anche se poi maschera questa condizione e sopporta la necessità di nasconderla sotto traccia.
Del resto riportare in qualche modo l'emozione in versi scritti è anche il modo di liberarsene e dominarla, solo che questa liberazione perché sia totale deve essere comunicata ad altri, se no non funziona.
Ma prima c'è l'emozione, poi su di essa si innesta di solito una riflessione.
Ieri quei versi che ti ho mandato sono nati dall'emozione di aver risentito per l'ennesima volta nel corpo il brivido della primavera. Li ho scritti e sono lì bisognosi di aiuto perché la prima stesura non è mai l'ultima, anzi. Ci tornerò con pazienza, finché saranno a mio parere degni di essere condivisi. Anche perché non c'è nulla di più pericoloso della primavera per un poeta. I poeti ne parlano da tremila anni, da quando conosciamo, almeno nel mediterraneo, la scrittura. Per cui essere banali è il primo rischio. Anche perché molto verosimilmente l'emozione è sempre simile a se stessa, almeno in questo caso.
Il risorgere della primavera, tanto per cominciare, è legato di solito all'infanzia, e per forza, si tratta di nascita e rinascita. A me istantaneamente, appena raccolto nell'aria quel brivido, sono venuti in mente i miei sei, sette anni, un'età lontanissima e in un luogo altrettanto lontano da qui. Dove c'era il mare. E questo è già l'altro rischio, parlare del mare. In un'epoca in cui sono tanti (tante) che sostengono che tutto è già stato detto. Vero, ma il limite è del pianeta, mica nostro, il mare c'è e continua a esserci, e ci siamo ancora noi che diciamo mare in un modo sempre diverso. Il problema appunto è nominarlo in modo diverso.
Primavera, mare.
Non puoi sbrodolare e devi dire i colori, delle strade degli alberi delle case. Gli odori, la temperatura, e i rumori del mare sotto gli scogli fino al cielo, alberi nebulosi di prima mattina, odori tenuissimi, di camomilla nei campi, delle fiorescenze sugli alberi da frutto, e poi il tepore che ti arriva a brani mescolato all'afrore del mare freschissimo di uova marce. E il riconoscimento del corpo nato e di nuovo nascente, il suo odore chimico, la consistenza delle mani, il liquore degli occhi, la sonorità della voce, l'umidità della pelle. Uovo deposto.  Le galline per la strada sterrata dove vivevo. Il salnitro sui muri, la risacca che esibisce alghe e muffe, la pioggia fitta e silenziosa.
Ma basta, basta.
Perché poi l'altra difficoltà è innescare la riflessione su questo materiale. Evitare anche qui la banalità. Perciò stai tranquilla, non pensare che io pensi sulla morte. Prima che nascessi c'era il nulla. Tornerà ad essere nulla tutto ciò.
Ultima nota: l'importante in poesia è dire velocemente, e devi stare sempre in piedi mai seduto, con la pressa di vivere sul collo.