mercoledì 13 novembre 2019

Nel salotto letterario di Gabriella Galzio




Nel salotto letterario di Gabriella Galzio, nota poeta romana trapiantata nell'Oltrepo pavese, si respira un'aria decisamente milanese. Anzitutto perché si lavora. Quasi tre ore tra le sue acute presentazioni critiche, solitamente tre, di autori e autrici che nella serata vengono chiamati/e a leggere e commentare le proprie opere, i commenti successivi della dozzina di presenti alle opere lette e la finale estrazione di una carta da gioco che designa un/a autore/rice chiamato/a a leggere la volta successiva. Il tutto scandito da una clessidra dalla sabbia celeste (gestita con garbo ma con determinazione dalla padrona di casa) che aggiunge un pizzico di esoterismo ma che richiama tutti/e al rispetto dei tempi. A garantire infine la qualità milanese dell'incontro c'è la cena fredda, più o meno in piedi, cui ciascuno ha contribuito, che prolunga a piacere la serata. Tra i presenti, quelli più in età, hanno già provveduto autonomamente, nel pieno spirito della situazione, a governare la salute con l'assunzione della pillola serale o a sgranocchiare un tramezzino necessario per calmare la calata degli zuccheri e bevendo da un piccolo termos conservato nello zainetto. Solo in pochi abbandonano il campo, tra costoro il sottoscritto, qualcuno forse con qualche rimpianto. Perché, si sa, e questa forse è pratica universale non solo milanese, in quella situazione si consumano i commenti più franchi, si legano amicizie, si prospettano incontri e progetti. Insomma una serata intensa e ricca, non potrebbe essere altrimenti se si considera che Galzio organizza questi incontri partendo da un assunto impegnativo, quello di dare spazio a una poesia e a una letteratura che aggancino tensioni civili, politiche, etiche.
Questo spiega anche perché ha dato spazio anche ai miei versi, quelli cioè che appartengono all'ultima produzione e che hanno le loro premesse teoriche e pratiche nel blog diepicanuova.it fondato con Franco Romanò (qui). Ma Galzio ha fatto a dire il vero qualcosa in più, nel presentare il poemetto che poi ho letto (quello intitolato Di signoria e servitù... che appartiene alla raccolta Inverno a Colonia ancora inedita) ha fatto un excursus critico sulla mia produzione cercando di dare ragione a una certa evoluzione in senso 'epico'. La ringrazio anche qui. Riporto il testo del suo intervento che mi ha gentilmente spedito.


PAOLO RABISSI
Paolo Rabissi, questa sera, vorrei prenderlo per la coda, ossia vorrei partire dai suoi inediti, anche perché è dalla coda che l’ho acciuffato alla libreria esoterica quando gli ho sentito leggere alcuni testi tratti da “Inverno a Colonia”, e mi sono parsi diversi dalla sua precedente produzione, destando in me una certa curiosità. La curiosità nasceva dall’ascolto di una sorta di ampiezza degli orizzonti del discorso poetico, da una tenuta etica del testo, certamente da un’inclinazione a testimoniare la storia della nostra civiltà. Motivo per cui l’ho coinvolto nei nostri incontri. La lettura ha poi confermato quanto percepito nell’ascolto. E per meglio comprendere questi ultimi testi, ho pensato di accostare un resoconto della discussione, promossa da Rabissi e Romanò, intorno all’idea di una “epica nuova”, perché negli inediti di Rabissi, vi si riscontrano parecchi tratti. Comunicabilità, oggettività, recupero di un forte senso della Storia. Come lui stesso mi ha detto, a un certo punto si è data la “stura” di una poesia narrativa ed evocativa - e aggiungo – che rinvia ora al tempo presente ora al tempo passato, dal verso lungo e disteso, totalmente libero e irregolare. Una poesia che si sottrae all’oscurità dei significanti e ai crucci individuali esistenziali e identitari. Mancano dunque eroi e guerrieri dell’epica tradizionale – più semplici Tonino e Angelo attraversano una storia di zappa e semina, sulla scia di quella ragazza Carla inaugurata da Pagliarani (non a caso compreso anche lui tra gli autori considerati di epica nuova). E non si tratta nemmeno degli antieroi, o delle antifavole o del non senso, che pure attraversavano la neoavanguardia romana del laboratorio di Pagliarani (di cui sono stata io stessa testimone). Perché qui il senso c’è ed è serio. Sono i soggetti sociali e politici forti ad essere al centro dell’attenzione, in quanto portatori di forme nuove di vita, cultura e identità. Nel senso più profondo, l’epica nuova di cui sono espressione i testi di Rabissi, si muove entro un orizzonte di ricerca positiva, non inconsapevole del conflitto, ma sottratta al sentimento di impotenza. “Chi non spera l’insperabile, non potrà mai scoprirlo”, recitano i versi di Eraclito in epigrafe a “La solitudine di Schenk” anch’esso parte del poema “Inverno a Colonia”.

Se tutto questo è il precipitato dell’ultima produzione poetica, vediamo ora come Rabissi ci arriva. Risaliamo dunque all’indietro. Con l’ultimo libro edito “I contorni delle cose” (del 2010), ci troviamo certamente di fronte a un libro di snodo: si colgono già nell’ultima sezione testi come “Lettera all’amico tornato in città” e “Il bello della miseria” che anticipano questa vis narrativa che distende versi dal lungo respiro in prosa con naturalezza ritmica, ricordando il miglior Sereni (compreso più tardi anche lui tra gli autori di epica nuova). Ma in questo libro è ancora in bilico la scelta del poeta che nell’omonima poesia, s’interroga: “Si sgraverà della moltitudine/ per centrare la lirica? O scorrerà leggero sulle varie umanità?” Il Rabissi della sezione “Diario sentimentale” di questo libro è ancora l’Autore di versi meno lunghi, di poesie limpide, dai finali talvolta epigrammatici, enigmatici, ma ancora brevi. Nella polifonia dei soggetti, si spartiscono la scena l’io, il tu, il noi, il voi e la terza persona per dire, per narrare, ma sono ancora vicende radicate nel quotidiano, anche se emerge, per es., tra i temi di epica nuova, lo scontro tra uomo e donna nel rapporto d’amore permeato dalla cultura patriarcale. “L’amore verrà/ e sarà quello che avrai cercato/ con occhi da combattimento”. Del resto, anche nella plaquette d’esordio “Città alta” (del 2001), quelle vicende del quotidiano, quell’”acqua di tutti i giorni” in cui era radicata la sua poesia, rimandava pur sempre, sia pure per assenza, a un’”acqua senza storia”, segno che la storia come dimensione poetica già innervava il suo quotidiano e che della sua poesia successiva sarebbe rimasto un caposaldo, dapprima come passato personale, poi come storia collettiva (seguendo una parabola che molto ricorda quella di Romanò, con cui forse non a caso ha dato vita alla riflessione su un’epica nuova). Inizialmente dunque una storia personale di emigrato (si direbbe al contrario, da nord a sud, dalla sua Trieste alle Puglie), nel suo caso per ragioni storico-geopolitiche a seguito delle revisioni di frontiera con la Jugoslavia. Una storia di sradicamento che consente un’altra “disadattata” focale d’osservazione, lo stile è limpido, e il tempo è il presente, fedele testimone dei fatti alla maniera di Neri. Il tono è sobrio, asciutto, colloquiale, già allora all’insegna della comunicabilità, talvolta con finali quasi plastici (come “Il barbiere [che] resta con le forbici per aria”); il verso è già sin dagli inizi irregolare e alterna versi più brevi e affondi in versi più lunghi che si distendono. Questo stesso background biografico irraggerà anche il suo successivo “La ruggine, il sale” (del 2004), anche se qui il focus della poesia apparirà intensificarsi sui tanti nodi dell’esistere, il tempo passato sembrerà prendere la mano al tempo presente, e una poesia in prosa alla Giampiero Neri sembrerà farsi più insistente.

In grande sintesi, Rabissi, mi è parso tra gli Autori più fortemente lombardi per i suoi riferimenti formativi (Pagliarani, Neri, Sereni) che però oggi si stacca da quel retroterra noto per avventurarsi in un territorio ignoto cui è stato dato il nome di “epica nuova”…quali i tratti di continuità, quali le fratture o le discontinuità, ce lo dirà nel tempo…



“Incontri tra Autori”, 14 maggio 2019                                     Gabriella Galzio