Da pochi minuti è domenica 11 novembre.
Nel post del 26 novembre c'è un commento di una lettrice che lamenta la lunghezza della divagazione storica su Colonia. Dopo averla scritta mi sono chiesto anch'io perché ho sostato così a lungo a descrivere la guerra di Cesare. C'entrano i ricordi liceali. La solitudine di Schenk è nata come prosecuzione di quelle quartine che hanno per titolo Indicazioni e che non a caso userò nella stesura finale come prologo, come introduzione. Vi sono descritti attimi di vita liceale. La superstiziosa visita alla chiesetta prima delle lezioni, le soste liberatrici all'uscita, la pretesa della frase definitiva che doveva spiegare il mondo, gli appuntamenti dati, gli insegnanti. Tutto comincia lì. Poi, quasi come sua naturale prosecuzione, è scattata la memoria sui miei due anni successivi alla maturità e quindi il viaggio a Colonia. In qualche modo scrivere in righe sembra indurmi a sequenzialità logiche e temporali che con la poesia hanno poco a che spartire o che comunque di solito non rispetto. L'escursione storica sul limes romano sembra essere appunto una di queste concessioni. Che peraltro, a parte la seria probabilità di risultare noiosa, credo abbia una sua peculiare consistenza strutturale se riferita al mezzo di scrittura che adopero. Voglio dire che scrivere qui, dentro un blog, con l'idea che qualche sguardo estraneo lo attraversi da un momento all'altro, implica quasi naturalmente una rottura con una ricerca metodica e sequenziale, il blog sembra essere per sua natura disposto alle libere associazioni, alle connessioni le più lontane tra loro, anzi sembra provocarle come se si trattasse di scorrere un nastro il più velocemente possibile e cogliere all'istante il frammento di vita che mostri più senso o maggior forza di sopravvivenza, senza tenere conto del legame più o meno immediato con il frame precedente da cui si è partiti.
Già, perché poi, in gioco, cos'altro c'è in poesia? La misura della sua forza sta nella sua sopravvivenza, al di là della nostra stessa vita, cioè un dato del quale non sapremo mai nulla. Sul mio primo libretto universitario (rintracciato apposta nella ricostruzione dell'anno di Colonia) ho trovato scritto a matita in un angolino: Non omnis moriar, con relativa nota del numero dell'ode di Orazio. Un amico poeta noto e affermato, molto più avanti di me negli anni, è solito dire: speriamo! Si riferisce per l'appunto solo a questo: speriamo che i miei versi sopravvivano a me stesso! Lui però è anche cristiano e a una certa sopravvivenza in un al di là ci crede, probabilmente si chiede se da dove si troverà potrà dare un'occhiata all'esito futuro dei suoi versi (non ho capito bene in cosa consiste la sua aspettativa, credo che pensi a una sopravvivenza limitata a chi ha ben operato in vita, magari scrivendo appunto versi non caduchi...).
Scrivere torno a scrivere. Per lo più mi sembra di andare alla cieca. E non può che essere così. Per due motivi. Primo, perché scrivere è una necessità e considero ormai inutile perdere tempo a dare una spiegazione di essa. Secondo, perché la necessità primaria non è quella di una scrittura generica, è necessità di scrivere in versi e anche spiegare ciò è inutile perdita di tempo. Infine le righe, che accompagnano i versi che vengo scrivendo, sono una compagnia caldissima in attesa che venga il verso a dare inizio a un'altra strofa. Già mentre scrivo in righe compongo mentalmente versi che per lo più poi scarto. Se qualcuno di essi mi si ripresenta, anche durante la notte, ci lavoro su e prima o poi, se hanno qualcosa di convincente, diventa necessario dar loro corpo. A volte a dire il vero passano giorni, settimane.
Tutto comunque in effetti va avanti alla cieca. Scrivere devo, e in versi. Ogni tanto mi illudo che qualche senso tutto ciò ce l'abbia.
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