6 gennaio 2012
Domani un secolo fa nasceva a Livorno, ma la città della sua vita è Genova.
Ho scritto sulla sua poesia un breve saggio comparso su La mosca di Milano numero 8, del dicembre 2001.
Tutta la poesia che ho studiato, come succede a tutti, ha lasciato segni nella mia. Segni inconsapevoli per lo più, eppure almeno in una delle poesie della mia ultima raccolta, I contorni delle cose (Stampa 2010), so bene che avevo in mente lui.
Riporto qui il saggio al quale ho fatto solo poche modifiche.
Il disabitante.
E’ perenne congedarsi dal mondo la poesia di G. Caproni. Un congedo che dura più di cinquant'anni, da Come un’allegoria che esce nel 1936 a Il conte di Kevenhüller del 1986.
A leggere l’intera sua opera il sentimento di esilio nel mondo, che il poeta esprime, finisce col risultare dominante.Un sentimento che si fa via via più vivo dopo la tragica esperienza della guerra ma che diviene esplicita coscienza a partire dalla raccolta, pubblicata nel 1965, col titoloCongedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee. E’ su questo momento topico e su quelli successivi fino al termine della produzione di Caproni, saltando cioè per ora quella precedente, che vorrei soffermarmi per dichiarare, col poeta, quel sentimento.
Per chi sa “d’avere più conoscenze / ormai di là che di qua” cominciano a farsi necessari i saluti. Succede nella poesia del Congedo che dà titolo alla raccolta. Il cerimonioso viaggiatore saluta, sul treno, i suoi compagni di viaggio, si scusa per il disturbo, si rammarica di non poter godere oltre della loro ottima compagnia. Segnali sicuri avvisano il viaggiatore che l’arrivo per lui è imminente, anche se il luogo del trasferimento è del tutto ignoto. Non solo: il viaggiatore confessa persino di non conoscere “quali stazioni / precedano la mia”.
L’ironia, lieve e controllata, dà alla poesia un tono di leggerezza: è volontà precisa del poeta di trattare così temi impegnativi. Prima dell’ultimo saluto (“Buon proseguimento”), a chiusura della poesia stessa, il viaggiatore proclama l’unica certezza raggiunta nel suo viaggio: “io / son giunto alla disperazione / calma, senza sgomento.”
La disperazione è quella di chi si trova a vivere nello smarrimento esistenziale seguito alla violenza della guerra e al dispiegarsi alienante della modernità. Ma è disperazione calma, di chi non rinuncia a fare i conti con la solitudine, col deserto della vita, con la morte. A partire dal Congedo dunque, e più ancora da Il muro della terra del 1975, che tutti concordano nel ritenere raccolte di svolte decisive nell’opera di Caproni, il tono di fondo della voce del poeta è, sempre più consapevolmente e con maggiore insistenza, quello di chi, smarrite le coordinate di spazio e tempo, si trova ad essere qui e altrove nello stesso tempo. Quella disperazione calma fa tutt’uno, con crescente lucidità, con il sentimento di disabitante del mondo, in perenne congedo, che caratterizza, mi sembra, quasi tutta la poesia di Caproni.
“Io / che non ho abitazione / [...] io / - che non ho ubicazione - ” dice nella poesia Finita l’opera de Il muro della terra, (1975). E ancora, più dichiaratamente, più di dieci anni dopo, nell’universo in cui si sente intrappolato, il poeta conferma di sentirsi “soltanto uno dei suoi tanti / - smarriti - disabitanti”. Lo era già nei panni del preticello irreligioso del Congedo quando costui, allontanandosi dai peccati del mondo, si fa prete per pregare, non perché Dio esiste, ma perché Dio esista. Lo sarà quando, nella raccolta Il franco cacciatore (1982), dichiarerà: “Fa freddo nella storia. / Voglio andarmene.”.
Da qui quell’eterno congedarsi. Che non è solo congedo che voglia quasi esorcizzare la provvisorietà terrena, ma anche consapevolezza delle trasformazioni interne e necessarie delle ragioni della poesia, del suo logos. Ogni commiato è in realtà anche un arrivo e una nuova partenza. La calma disperazione del Congedo diventerà straziata allegria in Il franco cacciatore , e ancor più in Il Conte di Kevenhüller quando, non arrestandosi nella realtà il viaggio, il poeta è sempre più impegnato in sfide estreme, quelle della caccia a Dio e al proprio io. Sfide che confermeranno il sentimento di esilio per chi è a caccia di certezze, perché si concluderanno entrambe con la disfatta. La prima perché “Dio esiste soltanto / nell’attimo in cui lo uccidi.”, la seconda perché l’integrità della identità individuale risulterebbe possibile solo nell’autodistruzione: l’io cacciatore che bracca, a fucile imbracciato, la propria ombra, confessa: “ La mira , ero io. / Il resto, / tutta una fantasia.”, e quando spara ai suoi due io divisi ( un Caino e un Abele in ruoli reversibili, che si amano e si odiano con ardente allegria) in realtà spara a se stesso: “Premetti / a bruciapelo il grilletto. / Li vidi cadere insieme / sotto la raffica. / L’urlo / che alzarono, mi colpì in petto / come piombo. / Fuggii.”.
Per il disabitante smarrito, che non rinuncia alla vita, il tema dell’assenza e della ricerca di Dio e quello dello sdoppiamento dell’io diventano temi decisivi, affrontati come sfida col tono di una amichevole, a tratti aspra, conversazione con il lettore. Ciò che mi preme qui rilevare è che quei temi, con la tensione metafisica che comportano, non solo incidono sul rinnovamento del linguaggio e della metrica che si fa franta, sincopata, dentro una musica quasi atonale, ma modificano anche gli scenari, la geografia fisica.
Quel congedarsi dal mondo è anche un prendere le distanze, materialmente, dalla scenografia precedente. Succede così che la città, luogo fisico privilegiato nelle poesie di Caproni precedenti la pubblicazione del Congedo, da ora in avanti tende a scomparire o a comparire perlopiù in negativo. E di negatività è investita anche e soprattutto Genova, la città tanto amata da Caproni (insieme a Livorno sua città natale), anche se viva ormai soltanto nella memoria del poeta che da tempo, come vedremo, si è trasferito a Roma.
In Il congedo (del 1965 quando Caproni è già a Roma da quasi vent’anni) il preticello, smarrito nella sua irreligione, ha infatti voluto allontanarsi dalle tentazioni proprie della sua città, di quella Genova mercantile dei vicoli dove persino il mare “pare insaccare / denaro nel rotolio / della risacca” e che “pone nell’arricchire / (e nel riuscire) il solo / scopo delle sue mire”. Ed è ancora di Genova che il poeta parla quando, in Il muro della terra (1975), dice:“Il trifoglio / della città è troppo / fitto. Io son già cieco”, una poesia nella quale conferma, sia pure con rammarico, di essersi congedato per sempre dalle “matte risate, / la sera, all’osteria / dietro le donne.”. Nella stessa raccolta è sempre in quella città che la luce s’è fatta ormai troppo dura e impura: “nel tronfio rigoglio / bottegaio, la città / sputa in faccia il suo Orgoglio / e la sua Dismisura.” sicché il poeta si sente costretto a sottrarsene avendo negli occhi un “fulminato spavento.”.
Ma la polemica poi investe la città in generale. E’ il cuore stesso di ogni città ad essere morto “ la folla passa / e schiaccia - è buia massa / compatta, è cecità”. Più tardi, in Il conte di Kevenhüller, e saremo nel 1986, il poeta conferma la sua presa di distanza ormai senza tono polemico e senza alcun rammarico: “Le città d’una volta / (le belle città costiere / e le bianche spiagge del sole. / Le barche. Le bandiere. / Le donne nudeggianti / sventate e pigre) la mente / più non ci turbano.”.
Il territorio nel quale il poeta, straniero al mondo e a se stesso, si è definitivamente inoltrato (con Il muro della terra del 1976, Il franco cacciatore del 1982, Il conte di kevenhüller del 1986) è ora fatto perlopiù di campi spopolati, di pianori deserti battuti dal vento. Ogni traccia di sentiero, se mai ce ne fu, è andata perduta. E’ il vuoto ad avere quasi consistenza e le parole stesse “scavano nel vuoto vuoti / monumenti di vuoto.” E’ rimasto solo il vento “Un vento / lasco e svogliato [...] Un vento / spopolato.”.
Qua e là s’intravedono alberi, un ponte, l’acqua; a volte “i tavoli / della locanda ancora / ingombri”. Talvolta, all’improvviso, compare un bar dove il poeta, che medita sulla propria identità, crede di vedere se stesso in un altro avventore che ha il volto fisso “sulla sua birra svogliata”: ogni tentativo di stabilire un colloquio fallisce: la radio, la calca lo impediscono.
Il paesaggio poi torna a essere spettrale. Nebbia, nevischio, fumo e il cielo come fanghiglia. Finché ci si trova nell’ultimo borgo, dove si aprono i ‘luoghi non giurisdizionali’ di Il franco cacciatore (1982). Brughiere, foreste, aree di confini incerti senza dogane o frontiere, dove non si sosta ma si passa, da un vuoto a un altro vuoto. Sono i luoghi dove con maggiore evidenza la realtà della storia si mostra più inconsistente. Dove ogni violenza, ogni caccia, si mostra ferocemente inutile: ogni cacciatore si rivela in realtà un cacciato, ogni persecutore una vittima. Sono i luoghi nei quali la Bestia vociferata, in Il conte di Kevenhüller (1986), braccata inutilmente, risulta aver dimora dentro noi stessi. Dove appare più chiaro che nessun al di là attende nessuno e che nemmeno il nulla esiste. Dove è possibile infine rivedere, trasparenti, i morti “Vivi dentro la morte / come i morti son vivi / nella vita.”.
Non luoghi, dunque: “Là / fra la palpebra e il monte” dove pure esiste “tutta quest’erba felice / di nessun luogo”, “nelle regioni gialle del sogno”, quando l’ora è: “l’ora / di taglio tra mano e volto”.
In questo scenario poetico si rinnovano congedi, addii. La città è ormai lontana. E’ lo scenario poetico imposto dal cuore e dalla mente al disabitante del mondo che si aggira nel labirinto dei nodi e dei conflitti di un uomo del secondo novecento, dentro,come sottolinea L. Surdich, “le tematiche novecentesche dell’io scisso, dello sdoppiamento, dell’analisi e della rappresentazione del negativo”.
Occorre tuttavia dire che, per quanto aereo e spettrale si faccia lo scenario dal Congedo in avanti, la presa con la realtà è nella poesia di Caproni irrinunciabile. La riflessione, le idee trovano sempre il modo di sciogliersi dalla loro astrattezza per farsi “prodigiosamente narrazione e rappresentazione” dentro situazioni in cui, accanto a una sospensione quasi allucinata del reale, si sente tuttavia, per brevi cenni, la consistenza di una dimensione materiale, quotidiana, domestica. I segnali concreti ai quali accennavo prima (un bar, un’osteria, ecc.) finiscono col rinviare agli scenari abituali interiorizzati nella vita in città. In questo senso mi sembra significativo che una delle ultime poesie di Il conte di Kevenhüller, che è del 1986, sia ambientata in un bar anonimo e come sospeso nell’aria: la ragazza del banco interrogata sulla sorte di un ‘lui’ risponde che è scomparso, “E riprende a sciacquare i bicchieri, / ripresa dai suoi pensieri.”. E’ un’immagine che rimanda inevitabilmente, e faccio qui un’anticipazione, alla ragazza che sciacqua bicchieri nella conclusione di Stanze della funicolare , una complessa composizione interamente centrata nell’universo genovese e che è presente in Il passaggio d’Enea. Questa raccolta è del 1956, cioè di trent’anni prima del sopra citato Conte di Kevenhüller. Nel suo insieme è espressione dello struggente amore di Caproni per la sua città.
Il disabitante innamorato.
Recupero ora all’analisi le opere che precedono Il Congedo del viaggiatore. Là dove la città, Genova, domina la scena.
A Genova Caproni giunge nel 1922, a dieci anni. Vi trascorre la sua adolescenza e giovinezza. Vi resta fino allo scoppio della guerra. Fino ad allora la sua poesia ( nelle raccolte Come un’allegoria e Ballo a Fontanigorda, del 1935 e del 1937) è in presa diretta con l’amatissima città.
E’ presa di sensi in continua sollecitazione. Coglie il permanere nel vento, quando le risse e le sassaiole sono finite, di “un fiato di bocche accaldate / di bimbi”. Coglie, al tramonto, il colore del mare, così sbiadito che pare entrato negli occhi - “macchie d’indaco appena / celesti “- del bagnino. O, nella notte, l’odore acre di sugheri bruciati in improvvisati falò estivi. Più spesso nella città, nei pressi del porto, l’odore di catrame e il tanfo “di bolliture / rancide, d’olii di semi” che viene dalle friggitorie. Se i sensi si incrociano soccorrono sinestesie e allora “un tram / col suo fragore la brace / dei gridi attizza”.E’ presa carnale. Su fanciulle: “ sento ancora / fresco sulla mia pelle il vento / d’una fanciulla passatami a fianco / di corsa.”. Sulle donne: “S’illuminano come esclamate, / ad ogni scoppio di razzo, / le chiare donne sbracciate / ai balconi.”. E “carnali risa di donne” si levano, in una poesia successiva, dal putridume fresco delle acque del porto. Di donne “che sanno / così bene di mare”.
Poi si avvicina il tempo di guerra. La raccolta Finzioni (pubblicata nel 1941) raccoglie poesie scritte entro il 1939 ed è già incupita da un sentimento di fine delle cose, del loro inevitabile spegnersi. Avrebbe scritto più tardi lo stesso poeta di una “quasi allucinata chiaroveggenza con cui nel sangue era presentita [...] l’ineluttabilità della tragedia in agguato.”. Siamo già nell’atmosfera dell’addio e del congedo. La guerra sarà il trauma più doloroso della vita di Caproni.
Dopo aver partecipato alla guerra di liberazione in Val Trebbia si stabilisce a Roma con la famiglia. Fa il maestro. Genova è ormai lontana. E’ un ricordo. Tanto più vivo quanto più estranea gli risulta la nuova città: “ah perdere anche il nome / di Roma, enfasi e orina.”. Ed ecco la raccolta del 1956 Il passaggio d’Enea che vive interamente nel recupero memoriale della propria giovinezza genovese.
Solo a Genova si può scrivere, vivere, solo lì sarebbe possibile una morte gentile. “Genova mia città fina : / ardesia e ghiaia marina. / Mare e ragazze chiare / con fresche collane di vetro / (ragazze voltate indietro, / col fiasco, sul portone / prima di rincasare)”. Unico punto saldo di riferimento, nella memoria, Genova è simbolo di consistenza, di fermezza, di solidità: ”Mia Genova difesa e proprietaria. / Ardesia mia. Arenaria. / Le case così salde nei colori”. Ma, più ancora, città degli amori, della vita viva: “La mia città dagli amori in salita, / Genova mia di mare tutta scale / e, su dal porto, risucchi di vita / viva”.
Genova dunque come dimensione dell’anima. “Genova l’ho tutta dentro. Anzi, Genova sono io. Sono io che sono ‘fatto’ di Genova. Per questo anche se nato a Livorno (altro porto: altra città mercantile), mi sento genovese”.
Lasciare Genova ( i suoi rimorchiatori, le persiane verdi e i gerani, le ragazze a coppie col petto commosso, i passeri dalla voce calda ma grezza, il gioco cantilenante della parlata genovese) è stato per il poeta entrare nella tenebra.
Il sentimento della vita come un passaggio ( verso il nulla) si sta acuendo e sarà, come abbiamo visto, la fonte delle meditazioni delle raccolte successive. Ma congedo e morte qui vengono affrontati ancora dentro la disperazione calma che sarà esplicito approdo della coscienza nel Congedo del viaggiatore. Caproni dice i temi gravi dell’addio e della morte con naturale semplicità, con lo sguardo disincantato e leggero che gli proviene dalla sua accettazione delle regole del gioco della vita. Con Genova ancora nel cuore e nella mente.
Quando avrà deciso di andarci, in paradiso, ci andrà con l’ascensore di Castelletto ( uno dei quartieri di Genova), e di notte, interrompendo il sonno. Sul belvedere, in vestaglia, forse incontrerà le ragazze genovesi: “le leggiadre / giovani in libera uscita / con cipria e odor di vita / viva” e forse anche sua madre: “Con lei mi metterò a guardare / le candide luci sul mare. / Staremo alla ringhiera / di ferro - saremo soli / e fidanzati, come / mai in tanti anni siam stati”. Sarà commosso fino alle lacrime perché lascerà sola Rina, la compagna della sua vita, come quel giorno che era partito per la guerra.
Quando la commozione del ricordo di Genova si fa pressante allora la poesia diventa quasi preghiera. La poesia Litania , che chiude Il passaggio d’Enea , è organizzata con lo schema del rosario. Le quarantacinque quartine di distici baciati si srotolano in una infinita serie, alla maniera litaniale, in un verso di proposta e uno di risposta (in corsivo). La prima: ”Genova mia città intera. / Geranio. Polveriera. / Genova di ferro e aria, / mia lavagna, arenaria.”. E’ la sua Genova tradita, che lo carica di rimorso. Ma soprattutto Genova “rimario, puerizia e sillabario”. Città di mercanti e industriali ma soprattutto di “Campana Sbarbaro e Montale”.
Ne esce un quadro totale della città, nei suoi scorci paesaggistici e nella sua topografia, nei suoi aspetti umani, storici e civili, nella memoria autobiografica.
Sono però, infine, le Stanze della funicolare, la vasta composizione che occupa la parte centrale de Il passaggio d’Enea (del 1956) e che rappresenta un viaggio allegorico dalla vita prenatale fino alla morte, a dare definitiva sostanza alla mitologia genovese di Caproni. La funicolare, come accade nella realtà, parte da un breve tunnel (il prima della nascita) e poi sale lentamente senza potersi fermare, tirata dal suo cavo (il destino inarrestabile), verso la meta finale ( la morte) avvolta nella nebbia che dà alla conclusione una atmosfera ‘vagamente purgatoriale’. Qui spazio e tempo si confondono, allegoria e onirismo sembrano prevalere. Ma sotto e intorno c’è la città.
Anche nel ricordo la presa di Genova è sui sensi. Luci acide feriscono gli occhi; l’alba, che segna l’inizio del viaggio, sa di rifresco e di rifiuti gelidi. In basso sui marciapiedi deserti si sente il fracasso delle carrette degli spazzini. Dal mare sale il respiro. L’aria vibra di sale e di rame al primo passaggio di un tram. L’aurora colora il sartiame del porto. Poi le tende bianche sulla marina, agitate dalla prima brezza, richiamano sciami di ragazze dai calcagni arrossati. Sui tetti a mezzogiorno compaiono i bucati stesi, si sentono risse esplodere tra i grigi casamenti di Oregina. Più in là, sopra le carceri, genovesi in raduno giocano a bocce al tramonto. Scesa la notte, la pioggia lava la città e sugli scogli ragazze in amore porgono la spalla spruzzata di pioggia ai marinai e le pietre odorano di luna appena spuntata. In un buio bar sul lungomare una donna lava in terra e una giovane sciacqua bicchieri nella nebbia del nuovo mattino.
Così, con rimpianto, con rimorso, il poeta si congeda da Genova. Aveva già scritto:“Nell’ossa ho un’altra città / che mi strugge. E’ là. / L’ho perduta. [...] Città / cui nulla, nemmeno la morte / - mai, - mi ricondurrà”.
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