domenica 18 novembre 2012

Fatigue

Così l'American Cancer Society: 'Fatigue' is one of the most common and distressing side effects of cancer. Cancer itself can cause fatigue directly by spreading to the bone marrow, causing anemia. Or it can cause fatigue indirectly, by forming toxic substances in the body that change the way normal cells work.
Ciò sembrerebbe spiegare la mia leggera anemia (del tutto irrilevante) dopo l'operazione, ma soprattutto potrebbe spiegare quel disagio fisico e mentale che accusavo da tempo, e che perdura, una disposizione fisica e mentale a concedermi più del solito al riposo, una maggiore facilità alle dimenticanze e, in particolare dopo l'operazione, maggiore difficoltà a concentrarmi. Epperò tutto ciò non mi ha mai portato a pensare che avevo in corpo da qualche tempo cellule anomale che stavano silenziosamente ulcerando l'intestino, riferivo il tutto all'età e ad altre patologie anch'esse legate all'usura. Quest'ultime mi restano, quei sintomi legati al cancro invece, considerando che è stato tranciato via da una sforbiciata all'intestino e che l'assenza di metastesi mi mette al riparo da ogni ulteriore terapia, sono destinati a rientrare, magari con un  po' di tempo.
Gli otto giorni di degenza in ospedale li ho passati in una stanza con un altro paziente. Luigi. Gli ho detto subito che la nobiltà del nome che portava non era stata sufficiente a risparmiargli l'ospedale, pertanto tutto sommato poteva anche sbarazzarsene per scongiurare la fine di quella dinastia che non era stata capace nemmeno di contare fino a venti. Ha riso di cuore ma la sua sofferenza, evidente sin da primo momento, aveva bisogno di ben altre cure, era la terza volta che tornava in ospedale per vari problemi all'addome, all'intestino. Siamo scesi insieme in sala operatoria, lo stesso giorno, a me sarebbe toccato subito dopo di lui. Ma le porte dell'antro dove era scomparso non si riaprivano mai. A lui invece hanno aperto e ricucito la pancia due volte di seguito nella giornata. Bravissimi chirurghi ma nemmeno dopo ho avuto modo di capire il motivo del doppio intervento. Perché in definitiva non è che stai lì a chiederti tanto il perché e il percome. Non sei nemmeno più di tanto preoccupato dall'idea della morte. Sei piuttosto rivolto a gestire i dolori e la relazione con dottori/e e infermieri/e dai quali dipendi. Lo stato di dipendenza soprattutto ti impegna. Ti chiedi se uno stato del genere potrai in seguito risparmiarlo ai tuoi cari. Te lo chiedi soprattutto quando, dopo l'operazione, nel tuo letto, gradevolissimo spazio simbiotico, non puoi muoverti più di tanto: sul fianco sinistro scende fino a terra un catetere, da un buco nell'alto ventre, che spurga in una specie di scatoletta ( 'i cagnolini' li chiamano le infermiere), a destra ce n'è un secondo da un altro buco nell'alto ventre e fa il paio con un terzo catetere che parte dal tuo membro e finisce in una sacca di plastica dove si raccoglie l'urina. Da una vena del braccio destro, nel mio caso, sulla quale è innestata quella che io chiamavo ciabatta, perché simile appunto alle ciabatte con tante prese che sostano di solito sotto il PC, due cavetti di plastica che succhiano bilanciatori degli antidolorifici da due ampolle sistemate su una specie di attaccapanni. Da un catetere infine che parte dalla schiena un'altra cannuccia succhia invece da un'altra ampolla gli antidolorifici necessari a non farti dare i numeri: nel senso che il dolore fisico non possono e non vogliono eliminarlo del tutto perché resta ancora la fonte migliore per sapere come stai.
Con tutto ciò, quando dopo un paio di giorni senti arrivato il momento di scendere a terra da quella trappola benefica, dovrai portarti dietro la piantana con le ampolle legate alle tue vene, la sacca dell'urina, e infine a strascico i due cagnolini, le due scatolette che raccolgono secrezioni seriose e sangue.
Quando, più o meno sveglio, dopo l'operazione mi hanno riportato nel letto, Luigi si lamentava debolmente. La mia operazione era durata circa quattro ore, la sua sette. Anche lui aveva tutti gli ammennicoli del caso. C'è un momento di interregno tra immediato risveglio e le ore successive in cui tutto sembra disporsi per il meglio, ti dici che ormai il peggio è passato e che qualche giorno di ospedale serviranno per rimetterti in sesto. Si tratta degli effetti dell'anestesia e degli antidolorifici insieme. Ti senti euforico. Luigi mi ha sorriso appena svegliato e io l'ho ricambiato, insomma avevamo l'aria di quelli che ce l'avevano fatta. Su di me l'anestesia ha avuto strani effetti. L'euforia, per adoperare l'espressione che uno dei chirurghi ha usato con mia moglie, mi ha 'delatentizzato', mi sono insomma lasciato andare a battute più o meno spiritose verso i chirurghi, sul loro modo di parlare, sul loro problema di dosare gli antidolorifici, e persino sulla mise sexy di una di loro.
Insomma uno stato che è durato circa ventiquattrore, poi i dolori hanno cominciato ad avere la meglio. Già la seconda notte Luigi l'ha passata, tenendo sveglio anche me, a lamentarsi fortemente. Quello che colpiva era che lui non aveva certo l'aria di un piagnone, se si lamentava era perché i dolori erano intollerabili. A tratti lo erano anche i miei, ma paradossalmente la sofferenza di Luigi mi inibiva un po'. Anche perché quando il terzo giorno l'hanno lavato, con cura, nel letto, la sua nudità mi ha impressionato per via dei tagli operati in verticale e in diagonale, quasi una ragnatela. Non ho mai chiesto dosi ulteriori di antidolorifici, avevo una sorta di pudore. Luigi infatti li chiedeva in continuazione. Per i primi due, tre giorni la storia è andata avanti così. Un'ampolla di antidorifici faceva effetto per un'ora e mezzo circa durante la quale Luigi cadeva quasi in trance, sbuffando e singhiozzando. Al risveglio, che fosse giorno o notte, chiedeva un'altra dose. C'erano delle resistenze ma poi infermiere o dottori cedevano. La mattina credo del quarto giorno la visita del primario con tutta la corte dei suoi chirurghi e dei dottorandi fu un evento particolare. Il primario dosò con cautela ma con fermezza una sorta di rimprovero: a me Luigi sembra trascurato, bisogna rivitalizzarlo, l'operazione è andata bene e tutto questo dolore non lo capisco. E' stata una sferzata per tutti, dottori e infermiere, ma non è che le cose per Luigi siano tanto cambiate nei giorni successivi. Quanto a me il primario mi ha dato un'occhiata severa e ha aggiunto: lei sta bene. Non si capì se era un ordine, un invito, una domanda, una verità. Non gli ho risposto ma in definitiva in qualche modo la feci mia.
Al terzo giorno ho avuto anch'io una crisi. Era domenica e c'era mia moglie, e un caro amico di allora. Reggevo a fatica la posizione a letto ma la conversazione mi distraeva. Nel pomeriggio uno dei chirurghi con fare molto friendly mi ha ridotto gli antidolorifici che scendevano direttamente nella schiena. Con un semplice gesto, sul monitor ha abbassato il valore di due gradi. In pochi minuti un freddo totale mi ha attanagliato dai piedi alla testa, tra brividi e dolore ho spaventato un po' tutti i presenti. I medici hanno lasciato che trascorresse una mezz'ora durante la quale un paio di coperte  hanno diminuito il freddo, e poi hanno riportato il valore degli antidolorifici a quello precedente. Sono stato subito meglio. Ma ho avuto un attimo di smarrimento quando verso le dieci di sera un altro dottore, altrettanto friendly, è venuto non ad abbassare il valore dell'antidolorifico ma a staccare del tutto la spina. Solo, con la notte davanti, senza antidolorifici? Le infermiere mi hanno tranquillizzato, loro erano lì se avevo bisogno. Mi sono tranquillizzato, ho pensato che se facevano così avevano le loro ragioni: in ogni caso bisognava avere fiducia dei medici. La notte non ho dormito, ma più che altro perché rimanevo all'erta in attesa dell' insorgenza dei dolori! Non è successo nulla, i dolori erano sopportabili. Ho capito lì che l'episodio del pomeriggio era stato causato apposta: era come se al fisico in quel modo avessero dato una sferzata per fargli capire che la normalità non era quella sotto antidolorifico!
La fase più dura è stata quella successiva. L'intestino bloccato che tenta di liberarsi causa dolori atroci. La storia si risolverà solo col tempo. Alla visita di controllo in ospedale, l'oncologo mi ha confermato che non c'è bisogno di terapie tipo chemio o radio, ma che la mia attuale irregolarità intestinale resterà la mia normalità per un bel po'. Ne ho approfittato per visitare Luigi. Era ancora lì. Ci siamo scambiati auguri. Soffriva di meno ed era fiducioso.
Uscito dall'ospedale le meditazioni d'obbligo. Esiste una percezione soggettiva del dolore, ma non significa nulla perché siamo fatti ciascuno in maniera diversa e i medici calibrano i farmaci sulla tua resistenza. Mi lasciavo alle spalle un palazzo nel quale le tecnologie in uso oggi sono più avanti di quanto io sia in grado di comprendere. Bisogna avere fiducia nei medici, nella maggior parte dei casi sanno quello che fanno anche se c'è sempre una zona d'ombra nella quale procedono a tentoni. Il cancro anche quando ce l'hai e non lo sai, altera in modi diversi il tuo stato psicofisico e quei modi non siamo ancora educati a monitorarli. Dal cancro al colon infine si può guarire, se lo prendiamo in tempo. E anche dalla 'fatigue' che ti resta addosso, prima o poi, riusciremo a liberarci.













sabato 17 novembre 2012

Elsa Morante nasceva cento anni fa



Stralcio questi pochi versi da Il mondo salvato dai ragazzini, 1968, una delle opere più belle del Novecento.


...

Dal luogo illune del tuo silenzio
mi riscuote ogni giorno l'urlo del mattino.
O notte celeste senza resurrezione
perdonami se torno ancora a queste voci

Io premo l'orecchio sulla terra
a un'eco assurda dei battiti sepolti.
Dietro la belva in fuga irraggiungibile
mi butto sulla traccia del sangue.

Voglio salvarti dalla strage che ti ruba
e riportarti nel tuo lettuccio a dormire.
Ma tu vergognoso delle tue ferite
mascheri i cammini della tua tana.

Io fingo e rido in un ballo disperato
per distrarti dall'orrenda mestizia
ma i tuoi occhi scolorati di sotto le palpebre
non ammiccano più ai miei trucchi d'amore.

Alla ricerca dei tuoi colori del tuo sorriso
io corro le città lungo una pista confusa.
Ogni ragazzo che passa è una morgana.
Io credo di riconoscerti, per un momento.

E mendicando rincorro lo sventolio di un ciuffetto
o una maglietta rossa che scantona...

domenica 23 settembre 2012

Aristofane e Lisistrata

caro amico, cara amica

sto leggendo le commedie di Aristofane e sono sorpreso dall'ennesima prova di quanto la nostra cultura non sia altro che un'articolazione di quella greca classica. Rischio la banalità, lo so. Mettila sul conto della mia naivetè e della mia ignoranza. Lisistrata ovviamente è stata reinterpretata come protofemminista. Ma Aristofane non potrebbe essere più lontano da ciò. E non perché invece è maschilista (e neanche perché, più verosimilmente, era misogino, che in certi casi è pure da capire) ma perché al contrario è portatore assolutamente organico del patriarcato: all'interno del quale a noi interessa la codificazione irrigidita dei ruoli, che genera i fondamentalismi (il possesso e la violenza legalizzati sul corpo delle donne) e in tempi favorevoli genera l'emancipazionismo che di per sé non modifica la sostanza del patriarcato, anzi lo rinforza, come la liberazione degli schiavi neri rinforza il sistema di fabbrica.
Insomma nel quinto secolo a.c. (Lisistrata viene rappresentata per la prima volta nel 411) il patriarcato è già al suo apice nella società greca tanto che il sistema culturale può esprimersi al massimo. Non mi interessa dunque rintracciare lì nella commedia di Aristofane, sintomi di rivoluzionamenti, mi interessa rilevare che lì i ruoli sono così vivi che ormai nessuno mette in dubbio che siano 'naturali', nessuno sa più che sono nati da una ipotesi di lavoro resa necessaria per la sopravvivenza. Così ad esempio l'uomo è in sostanza un guerriero e la donna è una casalinga che ama le relazioni, i sentimenti e la pace. Lisistrata che occupa l'acropoli con le donne ateniesi e spartane le invita a sacrificare il proprio desiderio sessuale (potranno magari consolarsi con quel fallo di cuoio che  artigiani di Mileto hanno messo sul mercato) sottraendosi contemporaneamente all'intimità con i propri uomini, sapendo che questi ultimi per riottenerla saranno più disposti a concedere quanto sta a cuore a Lisistrata, cioè la dichiarazione di pace tra ateniesi e spartani (siamo in piena guerra del Peloponneso).
Sembra quasi femminismo ma è solo assunzione di soggettività della donna dentro il patriarcato: che fa vincere qualche battaglia, e la storia qua e là ce ne dà tanti di esempi,  ma perdere la guerra.
Da cosa si deduce ancora l'organicità al patriarcato di Aristofane? Dal suo immaginario erotico. Prima di tutto che lo stimolo sessuale non possa che trovare appagamento dentro la vagina. Non dentro un culo né tra le mani (come Lisistrata invita a fare). In una delle scene finali gli uomini si presentano alle trattative con le donne con i cazzi ritti a dimostrare che i loro appetito sessuale senza le donne non poteva essere soddisfatto. Certo Aristofane conosce le altre risorse ma l'uomo vero, che espone a un pubblico la propria cultura e dunque ciò che fanno i maschi per bene, non può che essere rappresentato in questa maniera.
Le donne vestono baby doll, hanno una quantità incredibile di scarpe, si truccano e profumano e amano l'uomo profumato e coi peli nel culo: Aristofane quasi senza accorgersene sollecita all'accettazione di un immaginario erotico che anzitutto è maschile e non femminile e lo spaccia per naturale, al quale come tale la 'vera' donna deve uniformarsi. Lisistrata è una donna messa in scena da un maschio, portatore di un patriarcato mite ovviamente non fondamentalista. Un patriarcato non fondamentalista ma sempre ordine 'naturale' del mondo.

lunedì 30 luglio 2012

Di corpi, di versi: l'affollata solitudine di P. P. Pasolini

In una pagina qui accanto con questo titolo ho ora postato il mio saggio su Pasolini (una rielaborazione di quello già apparso nell'autunno del 2002 su La Mosca di Milano) ora presente nel numero quattro di Overleft.

lunedì 16 luglio 2012

Il numero quattro di OverLeft

E' finalmente on line il numero quattro di OverLeft.
www.overleft.it
La sezione letteraria è questa volta molto ricca.
Di mio c'è una  riflessione sulla poesia italiana attuale che prosegue il dibattito aperto su OverLeft e che dovrebbe/potrebbe sfociare in un momento collettivo che la redazione sta definendo (convegno, tavola rotonda, ecc.) anche come analisi e interrogativi sugli esiti della poesia d'avanguardia nata cinquant'anni fa. L'articolo è intitolato: La poesia dopo il diluvio: molte domande, quasi nessuna risposta.
Alessandra Pugliese ci scrive da Berlino sulla poesia tedesca.
Romanò analizza due libri di autori tedeschi.
Adriana Perrotta scrive di A. Kristov e A. Ceresa.
Giampiero Neri ci ha regalato una sua lettura di intensa commozione di Vita e destino, di V. Grossman.
Ma ci sono tante altre cose!
Qui accanto, con la scritta in bianco e col titolo: 'Di corpi, di versi: l'affollata solitudine di P. P. Pasolini', ho postato anche il mio testo su P.P.Pasolini pubblicato nell'autunno del 2002 su La Mosca di Milano.

martedì 26 giugno 2012

Il gorgo di cui parlavo recentemente si è sciolto e la quarta e ultima parte è terminata.
La quinta, l'epilogo, consta di un'unica strofa.


La fuga di Claudio

Il campo a Nord protegge non offre impunità.
La cantina apre a sera, senza donne, senza ubriachi.
Il campo protegge e dimidia.
Qui lavoro manuale e servile garantiscono
vite solitarie. Dopo la pioggia sui sentieri
compaiono vermi, vesciche gonfie spurgate
dalla terra.


La memoria richiama persino odori, rumori
ma il labirinto si completa solo se il presente
le presta un senso, come quando viene giù l’acqua
a cascata tra le felci e si deposita a valle in bacini
di pietra e lì è la gravità che spiega caduta, percorso
e quanto l’acqua ha trascinato con sé.


Sbarazziamoci dell'autunno affrontiamo
l'inverno, dice Dieter, la giustizia non viene da Est,
nemmeno da Ovest gli fa eco Claudio.
Sul piazzale Claudio incontra Dieter
rientrante al dormitorio, lui prende servizio
nel pub per gli ufficiali proprio a quell'ora,
verso le dieci di sera è bevuto, come tutti.
Tell me Italia, tell me Italia...
Claudio triestino ha un perfetto inglese
ma Saba e Svevo non fanno argomento.


Mi sottraggo al tot, al quot, al plus,
all'up, al best and score,
la performance, l'accumulo, il consumo,
al tutto compreso di qualità e di eccellenza,
ovvero al meglio for ever,  nient'altro...
Claudio dice di tenere ai suoi libri, ha fatto il liceo,
non gli pesa il lavoro servile, teme la guerra e la rivoluzione,
si riserva la fuga come rivolta possibile.
Piange con sentimento con gli ufficiali
del pub, smaltisce la sbronza da solo nella branda.


A volte la memoria non seleziona, forse sempre.
Te ne accorgi quando richiama lo sgradito, il turpe.
Così l'inconscio quando accende i sogni.
Ti chiedi dove ha trovato quella materia.
Pensi che sia sentina, vive invece con te
nella rete invisibile del presente.
Della giovane greca non si sa più nulla
qualcuno dice di averla vista entrare di nascosto
nel campo, altri sanno di più,
il sardo la picchia sul ventre per farla abortire.


Dal piazzale delle passioni verso Ovest
si vedono nella pianura lunghe teorie di treni
entrare e uscire dalla fabbrica, portano
auto incerate verso le grandi città.
Da qui fino a qui, racconta l'operaio della Ford,
il lavoro alla catena è come in amore
la mia donna dice da qui fino a qui, oltre
non si fa toccare, nemmeno io mi faccio
fare, se i pezzi che lavoro sono di più
vuol dire che la catena è più veloce
e io la fermo del tutto, non sono un servo
e i patti sono patti anche per noi.


Il maschio latino, dice Claudio, misura
il necessario col disponibile, come scambio
naturale tra cacciatore e femmina preda.
La ripetizione per lui è un atto d'amore
ma è solo performance del genio,
raramente la preda piegata al bisogno
conosce attrazione e desiderio.
Se accade si liberano voci
per favole, racconti e incontri d'amore.


Sul piazzale delle passioni Claudio fa la corte
alla giovane donna,
Qualcuno ci metta corone di aneto intorno al collo
e sul petto versi dolce profumo
le canta,
recita Alceo a memoria senza errori,
La  medicina migliore è darsi da fare col vino
ubriachiamoci.
Claudio tradisce la pena, ha rotto col passato
è pronto per il deserto.

Ci vuole coraggio per fare di una riga un verso
accendere parole senza incendiarle
guardare i passanti diritto negli occhi.
Claudio a tarda sera traccia una serpentina
sul sentiero, non sbaglia la meta
ma alberi e cielo ruotano insieme sulla sua testa.
Nella sua branda la brace della sigaretta
s’illumina a tratti nel buio per tutta la notte.


L’inverno lascia tracce come tutte le stagioni,
l’inverno di Colonia anche si scioglie
in una stagione nuova, per molti più a Sud
dove il sole più caldo, i giorni più lunghi
moltiplicano ombre e luci.
Chi crede nel rito, nel gesto sacrificale
versa a larghi gesti in mezzo al campo
una birra conservata la notte sotto il letto.


Orlando, che è lui quello che resta,
incollerito mescola lingue - schon holiday...
dice al suo capo e allude  a Peter
che batte fiacca e lascia a lui di caricare
patate sul furgone - già in vacanza.
La voglia di fuga è sottesa alle ore
un pensiero sottinteso, da non spartire.
Chi abbandona il campo non fa annunci
non lascia tracce dietro di sé,
non consegna nemmeno, come dovrebbe,
il pass al Main Gate col numero di matricola,
la foto sbiadita. Nemmeno per chi chiederà notizie
di Claudio ci sarà risposta,
salvo un gesto della mano nell'aria.




                                            **************************


Il brusio della memoria
Ci muoviamo, ci incontriamo, parliamo,
ci tocchiamo. Con leggerezza, con gravità,
con passione, con allegria.
Un brusio che ora si infittisce ora si sgrana,
viene da lontano o procede qui davanti,
esiste intorno a noi, qualcuno lo intuisce il poeta
lo traduce in parole. Patrimoni di saperi,
vicende narrabili, potenze, soggettività si intrecciano
formano una dimensione invisibile,
una compresenza immateriale. Un disegno a lapis,
che pulsa, nel cuore delle città, nelle praterie,
nelle valli di boschi.

lunedì 25 giugno 2012

Recuperate in ordine sparso le ultime strofe dell'ultima parte, restano ancora almeno tre quattro strofe per completare. In realtà mi risuonano in testa e stanno lì quasi fosse inutile trascriverle. Credo sia perché una volta trascritte non avrò più scuse e dovrò chiudere davvero.
Ma il mio corpo a corpo con la memoria non credo che finirà qui. O forse, diciamolo, siamo solo memoria.

Orlando incollerito mescola lingue

Orlando incollerito mescola lingue
- schon holidays...
dice al suo capo riferendosi a Peter
che batte fiacca e lascia a lui di caricare
patate sul furgone - già in vacanza.
La voglia di fuga è sottesa alle ore
un pensiero sottinteso, da non spartire.
Chi abbandona il campo non fa annunci
non lascia tracce dietro di sé,
non consegna nemmeno, come dovrebbe,
il pass al main gate col numero di matricola,
la foto sbiadita. Nemmeno per chi chiederà notizie
di Claudio ci sarà risposta,
salvo un gesto della mano nell'aria.

Epilogo

Ci muoviamo, ci incontriamo, parliamo,
ci tocchiamo. Con leggerezza, con gravità,
con passione, con allegria.
Ma  un brusio che ora si infittisce ora si sgrana,
viene da lontano o procede qui davanti,
esiste intorno a noi, qualcuno lo intuisce ma il poeta
lo traduce in parole. Patrimoni di saperi,
vicende narrabili, potenze, soggettività si intrecciano
e formano una dimensione invisibile,
una compresenza immateriale. Un disegno a lapis,
che pulsa, nel cuore delle città, nelle praterie,
nelle valli di boschi.

giovedì 21 giugno 2012

Un'esperienza al termine

Ho amato moltissimo scrivere 'Inverno a Colonia' quasi in diretta con quella mezza dozzina di persone che hanno frequentato il blog. Mi sono sentito gli occhi addosso. Questo è stato uno stimolo, non un peso come qualcuno può ritenere. Non riservo alla poesia nulla di esoterico, i versi nascono per una loro autonoma forza che richiede ascolto e pazienza.
Ma 'Inverno a Colonia', nonostante un certo desiderio di prolungare la faccenda ancora un po', è davvero terminato. La memoria, in nove mesi di auscultazione, mi ha restituito tutto quello che poteva e la riflessione si è intrecciata ad essa spontaneamente. La consapevolezza di aver concluso, ora mi emoziona inaspettatamente: è come se mi staccassi da una parte di me, come se partissi per altrove, del resto sto abbandonando, probabilmente per sempre, forse il periodo più complicato della mia vita.  Quanto ho qui scritto sarà ora oggetto di una revisione lunga e attenta che non so quanto durerà e in quanto modificherà il tutto. Una cosa è certa, conclusa questa esperienza insolita, le tre parti del poemetto conosceranno una edizione cartacea, non so ancora con quale casa editrice.
Manterrò il blog, con lo stesso titolo. Resterà una finestra di riflessione sulla poesia contemporanea, ma continuerà anche ad essere un luogo della mia produzione, intorno alla quale per ora non ho progetti.

lunedì 4 giugno 2012

Mi sottraggo al tot, al quot, al plus,
all'up, al best and score,
a performance, accumulo, consumo,
al tutto compreso di qualità e di eccellenza,
ovvero al meglio for ever,  nient'altro...
Claudio dice di tenere ai suoi libri, ha fatto il liceo,
non gli pesa il lavoro servile, teme la guerra e la rivoluzione,
si riserva la fuga come rivolta possibile.
Piange con sentimento con gli ufficiali
del pub, smaltisce la sbronza da solo nella branda.

martedì 29 maggio 2012

Dal piazzale delle passioni verso Ovest
si vedono nella pianura lunghe teorie di treni
entrare e uscire dalla fabbrica, portano
auto incerate verso le grandi città.
Da qui fino a qui, racconta l'operaio della Ford,
il lavoro alla catena è come in amore
la mia donna dice da qui fino a qui, oltre
non si fa toccare, nemmeno io mi faccio
fare, se i pezzi che lavoro sono di più
vuol dire che la catena è più veloce
e io la fermo del tutto, non sono un servo
e i patti sono patti anche per noi.

giovedì 24 maggio 2012

L’inverno lascia tracce come tutte le stagioni,
l’inverno di Colonia anche si scioglie
in una stagione nuova a Sud d’Europa
dove il sole più caldo, i giorni più lunghi
moltiplicano ombre e luci.

giovedì 17 maggio 2012

Il maschio latino, dice Claudio, misura
il necessario col disponibile, come scambio
naturale tra cacciatore e preda.
La ripetizione per lui è un atto d'amore
ma è solo performance del genio,
raramente la preda piegata al bisogno
conosce attrazione e desiderio.
Se accade si liberano voci
per favole, racconti e incontri d'amore.

martedì 15 maggio 2012

La memoria richiama persino odori, rumori
ma il labirinto si completa solo se il presente
le presta un senso, come quando viene giù l’acqua
a cascata tra le felci e si deposita a valle in bacini
di pietra e lì è la gravità che spiega caduta, percorso
e quanto l’acqua ha trascinato con sé.

martedì 8 maggio 2012

A volte la memoria non seleziona, forse sempre.
Te ne accorgi quando richiama lo sgradito, il turpe.
Così l'inconscio quando accende i sogni.
Ti chiedi dove ha trovato quella materia.
Pensi che sia sentina, vive invece con te
nella rete invisibile del presente.
Della giovane greca non si sa più nulla
qualcuno dice di averla vista entrare di nascosto
nel campo, altri si spingono oltre,
il sardo la picchia sul ventre per farla abortire.

venerdì 4 maggio 2012

Sul piazzale delle passioni Claudio fa la corte
alla giovane donna,
Qualcuno ci metta corone di aneto intorno al collo
e sul petto versi dolce profumo le canta,
recita Alceo a memoria senza errori,
La migliore medicina è darsi da fare col vino
e ubriacarci.
Claudio tradisce la pena, ha rotto col passato
è pronto per il deserto.

lunedì 30 aprile 2012

Ci vuole coraggio per fare di una riga un verso
accendere parole senza incendiarle
guardare i passanti diritto negli occhi.
Claudio a tarda sera traccia una serpentina
sul sentiero, non sbaglia la meta
ma alberi e cielo ruotano insieme sulla sua testa.
Nella sua branda la brace della sigaretta
s’illumina a tratti nel buio per tutta la notte.

sabato 28 aprile 2012

In Giacomo Leopardi poesia e teatro sono fonti di coesione sociale.


Poco prima dell'inizio della sua avventura alle dipendenze di Antonio Fortunato Stella, editore in Milano, Leopardi compone il  ‘Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani’: da esso è possibile in qualche misura dedurre anche le sue conclusioni sulle possibilità di una massificazione del lavoro intellettuale in generale al suo tempo in Italia (e questo al di là del suo giudizio specifico sulla letteratura italiana che, come si sa, era negativissima). In quella complessa indagine di tipo sociologico, scritta nell'aprile del '24 e frutto probabile delle sollecitazioni e delle suggestioni provenienti dall'Antologia di Gian Pietro Viesseux (il quale ultimo da Firenze insisteva invano per ottenere la collaborazione del poeta recanatese), Leopardi, partendo dalla constatazione della arretratezza complessiva della società italiana rispetto a quelle d'oltr'Alpe, ne rinveniva la causa fondamentale nella mancanza di quella che egli chiamava ‘società stretta’.
Frutto in parte della natura socievole e imitativa degli individui e in parte del bisogno e della volontà, questa società stretta è propriamente, nell’analisi di Leopardi, una sorta di patto sociale attuato «principalmente» tra coloro che «dispensati dalla loro condizione dal provvedere coll'opera meccanica delle proprie mani alla loro e all'altrui sussistenza», impiegano il loro genio a riempire il vuoto della vita, a dissimulare la vanità delle cose, a ingannare il pensiero della «inutilità della vita e delle fatiche»
e a mantenere «come che sia e per quanto è possibile l'illusione dell'esistenza». Condizione indispensabile al funzionamento di tale patto e conseguenza essa stessa è l'affermarsi come valore, dentro quella società stretta, della pubblica opinione. È questo, afferma Leopardi, l'unico, ma potentissimo, vincolo sociale rimasto alle nazioni dopo che la diffusione dei lumi settecenteschi ha provocato «la quasi universale estinzione o indebolimento delle credenze su cui si possono fondare i principii morali»; la sua forza è l'unica nelle società moderne a garantire la saldezza di un corpo sociale, sopperendo alla comprovata insufficienza delle leggi e della forza pubblica a «ritenere dal male» o a «stimolare al bene».
Nelle nazioni in cui questa società stretta si è affermata, là dove si è affermato «un commercio più intimo degli individui tra loro» e cioè l’amore per la conversazione e per «relazioni più strette e piùfrequenti», gli individui sono maggiormente portati a tenere conto l'uno dell'altro e a desiderare stima e buona opinione reciproche.
Ciò sicuramente, avverte Leopardi, non avviene in Italia, fatta forse eccezione per qualche città più grande; perlopiù infatti, al contrario di quanto avviene negli altri paesi dove ciascuno considera
«la massima delle sventure la perdita o l'alterazione dell'opinione pubblica verso loro» (tale peraltro è la "miseria" dei tempi), gli italiani hanno addirittura in spregio l'essere o l’apparire conformi,
affini, intonati d'opinioni e d'idee. «Ciascun italiano fa tuono e maniera da sé» conclude a proposito Leopardi. Viceversa il "bon ton"ovvero l'amore per un'opinione pubblica favorevole, per quanto «piccolissima e freddissima cosa» è, insiste Leopardi, l’unico principio conservatore delle società e ad alimentarlo, e il poeta mette ora a fuoco il nocciolo della questione, contribuiscono efficacemente un teatro nazionale e soprattutto una letteratura nazionale moderna, la quale ultima è anzi la fonte più grande di quella auspicabile affinità di opinioni, gusti, costumi, maniere.
L'amore per la società stretta è dunque nell'analisi leopardiana peculiare di una società culturalmente dinamica, moderna, capace di offrire occasioni e stimoli al vivere sociale. Solo in una società stretta anche chi è intimamente convinto della inutilità della vita e delle fatiche finisce, a dispetto di sé, col dover battagliare e scendere a patti con quell'io collettivo interiorizzato che spinge al socievole e a considerare la vita stessa degna di essere coltivata, studiata ed esercitata. È questa la situazione migliore perché l'immaginazione inneschi finalmente tutta la sua potenza illusoria contribuendo con le sue opere alla formazione di quella pubblica opinione che sedimenterà poi nella nazione usi e costumi.
Ma l'Italia fra le nazioni è «la più morta, la più fredda [...] indifferente, insensibile, la più difficile ad essere mossa da cose illusorie, e molto meno governata dall'immaginazione neanche per un momento [...] priva affatto di opere di immaginazione, di poesia qualunque [...] di opere sentimentali, di romanzi [...]». Gli italiani passano il loro tempo «a deridersi in faccia gli uni e gli altri» disprezzando giudizi e opinioni altrui e il grado più elevato di vita di società e conversazione per loro sono il passeg-gio, gli spettacoli, le messe e le prediche. Di quella società stretta, che facendo stima del giudizio altrui e delle sue «lusinghe senza bassezza» attivasse l'immaginazione a produrre illusioni, simboli, miti e leggende per dare un senso alla vita e vincoli ad una nazione altrimenti disintegrata, Leopardi non trovava quasi traccia in Italia. Gli italiani gli apparivano chiusi in una fredda, geometrica, «ragionevole» indifferenza sociale; piuttosto che il loro raziocinare cinico ed egoistico, annotava infine, non sarebbe stato da considerare scandaloso un diffondersi ulteriore di libere espressioni di fanatismo e miracolismo, visionarismo e settarismo nelle quali l'immaginazione giocava almeno ancora una parte.

giovedì 26 aprile 2012

giovedì 26 aprile 2012

A proposito di quanto detto nel post del 24 marzo.
La bellezza sta nei significati, mi suggerisce l'amica V. , non senza un pizzico di malizia.
Più radicale l'intervento dell'amico N. il quale taglia corto e mi spiazza con la serafica affermazione contraria: quel lavorio instancabile, a volte ossessivo, dei poeti che sperimentano dilatazioni e/o contrazioni semantiche è fonte di bellezza! Con una avvertenza per l'uso, si affretta ad aggiungere prima che io tiri fuori le mie obiezioni, di quella bellezza la poesia può fare a meno, anzi meglio lasciar stare. I poeti che hanno assunto come loro unico universo poetico il lavoro sui significanti hanno spesso del genio ma hanno perso la strada. In ogni caso la bellezza dei significati è sufficiente a se stessa, quella dei significanti no! I significati possono fare a meno dei giochi sul significante: essi stanno a un buon piatto sostanzioso, condito e servito a dovere come i significanti stanno ai manicaretti dello chef di grido!
Un lettore mi chiede come mai ultimamente pubblico post molto a rilento.
'Inverno a Colonia' continua ad essere la mia prova creativa più importante anche se sono impegnato su altri fronti. Continuo a pensare che quella in corso sarà l'ultima parte ma sarà anche quella più complessa per le sue novità nel linguaggio e nei temi. Non è più solo una questione della memoria a rilento su un episodio così lontano, è la materia in sé a fare gorgo. In certi momenti sono come ingolfato da una quantità di idee e immagini che nella pressa di uscire si ostacolano e io non riesco a trovare l'ordine con cui accompagnarle su questa pagina, bianca come quella di carta. Altre volte, forse come conseguenza, resto muto come in un deserto. Ma questa, più della prima, è condizione felice per scrivere. L'idea del deserto è quella con la quale ho maggiore confidenza nonostante non ne abbia mai attraversato realmente uno.  L'idea di deserto è sufficiente a farmi intravedere la pista. So che nel deserto di cui parlo la pista non esiste ma è tutta da scoprire, è il desiderio della pista che crea il deserto.

giovedì 29 marzo 2012

Il tradimento di Claudio è il titolo di questa quarta parte. Claudio dovrebbe esserne il protagonista ma la memoria qui è avarissima. Tema di fondo resterà però quello su lavoro manuale e lavoro intellettuale, se ne discuteva molto in quegli anni di boom economico quando l'Italia era una sorta di locomotiva dell'economia europea.

In novembre in questo blog avevo dato inizio alla presenza di Claudio, riporto qui quanto scritto il 3 novembre 2011, era un giovedì.



Sbarazziamoci dell'autunno affrontiamo
l'inverno, dice Dieter, la giustizia non viene da Est,
nemmeno da Ovest gli fa eco Claudio.
Sul piazzale Claudio aggredisce Dieter
rientrante al dormitorio, lui prende servizio
nel pub per gli ufficiali proprio a quell'ora,
verso le dieci di sera è bevuto, come tutti.
Tell me Italia, tell me Italia...
Claudio triestino ha un perfetto inglese
ma Saba e Svevo non fanno argomento.
.

mercoledì 28 marzo 2012

La poesia è scandalo.
Nulla di più scandaloso che essere fuori dalla competizione per il tot e il quot e il plus. L'up, il best, lo score. La performance, l'accumulo, il consumo. Il tutto inteso come qualità, eccellenza. Il meglio, for ever. Nient'altro.  Chi vive dentro questa filosofia di vita ha questa caratteristica: la ritiene il meglio delle scelte, anzi l'unica possibile le altre essendo frutto di ideologie perdenti. Come se il mercato con le sue derive fondamentaliste e con le sue forme dettate dall'evoluzione intrinseca delle regole del profitto, come le multinazionali e la finanziarizzazione dell'economia, non fossero organizzate dentro una ideologia: il fatto è che questa è più vincente delle altre, anche se i vincenti sono costretti, obtorto collo, ad addomesticare e riformare le loro forme a causa di un'opposizione più o meno organizzata che ogni tanto vince qualche battaglia. Sono convinti di essere nel giusto. E vogliono essere liberi di licenziare l'operaio tutte le volte che gli sembra giusto, perché loro rischiano i propri soldi. L'operaio ha bisogno almeno della sicurezza del posto di lavoro perché a rischio in fabbrica c'è la salute, non solo quella organica del corpo ma anche quella organica alla mente perché dieci ore di lavoro manuale ti impediscono di fare nient'altro.
Si chiedono come facciano a scoppiare le rivolte e le guerre 'necessarie' contro le rivolte.
La poesia imbarazza come nessun'altra arte. Fuori com'è dal mercato e dal potere che esso porta con sé. Chi c'è dentro si scrolla di dosso la poesia con un'alzata di spalle, a volte persino con l'irrisione dato che relega all'immaturità la scrittura di versi. L'irrilevanza della poesia essendo così acquisita ufficialmente, gli animi si tranquillizzano facilmente. Anche se a qualcuno resta il sospetto in fondo all'animo che invece è nella poesia che si giocano la sapienza, la sintesi dell'essere nei suoi movimenti semplici e complessi e persino la bellezza. A volte la poesia s'insinua come il dubbio. Si intrufola come un ladro e ci interroga. Accade quando siamo soli e magari ci sentiamo per un attimo impegnati a non mentire con noi stessi.
Ma tra i vincenti in nome del mercato e quanto c'è al mondo di piatto c'è relazione. I loro sono volti piatti, busti piatti, e hanno dentro piatti intestini e fegati, dimodoché per loro il mondo è solo il luogo dove devono mettere in serie, in sequenza numerica, quantità di oggetti piatti e di momenti piatti, magari aiutandoli a tenersi per mano e accompagnandoli con una musichetta fino all'orlo della vita. Dalla quale restano esclusi per l'impellenza del quantum/tantum prioritario, con seguito di parole piatte, cacaminuzzoli da capre, barbette piatte al mento.
La poesia è scandalo perché vuole parlare anche ai piatti, che  parlando oramai solo tra di loro hanno perso di vista l'universo.

sabato 24 marzo 2012

Interessante quel tuo scritto.
Trovo ormai insostenibile il peso di questa presunta gratificazione che ti arriva quando non ti aspetti gran che ma comunque altro.
Ma insomma la poesia riguarda l'arte o no? E se sì ha a che vedere con l'estetica o no? E allora una poesia o è bella o non lo è, o ti piace o no. E se la trovi interessante intendi che c'è dentro qualche spunto che varrebbe la pena che io sviluppassi o intendi che ahimé non c'è niente da fare?
Pochi hanno il coraggio di dirti: bello! Pochi si assumono la responsabilità di dirti direttamente: bella schifezza!
Anche perché in effetti a chi scrive il giudizio arriva di solito da un altro che scrive, e da una parte è un po' difficile che chi scrive non riesca a dire, in quanto scrive, almeno una cosuccia interessante, dall'altra il giudicante, che scrive appunto anche lui, si troverà presto nella parte del giudicato.
A furia di somministrarci questi 'interessante' abbiamo finito col trovare molto significativo che il tale te lo abbia regalato. Avrà voluto dire che stoffa e talento ci sono ma che vanno coltivati ancora. Avrà voluto dire che la prima impressione è stata buona e che una seconda lettura solleverà e confermerà il giudizio positivo ora prudente. Oppure che la tua poesia non vale proprio niente e dire così è stata una formula per non abbatterti.
La realtà nella maggior parte dei casi è che la tua poesia è irrilevante, che ha davvero qualcosa di interessante ma che si ferma prima che uno possa dire: bella!
La storia è cominciata con Baudelaire, con quel suo perdere l'aureola nel fango della metropoli. Da quel momento è diventato sempre più difficile parlare di bello.
La poeticità anzi è stata messa al bando. La cosiddetta 'aura poetica'.
Giusto così.
Per far pari, o magari qualcosina in più, visto che l'umanità per ora sopravvive, con le brutture del Novecento, bisogna saper andare ben oltre la poeticità.
Perché l'umanità sopravviva bisogna, rispetto alla bruttura che produce, che riesca a creare un grammo di bellezza in più, un secondo di bellezza in più, un millimetro di bellezza in più.
Per questo siamo sempre a un passo dall'abisso, per questo riusciamo sempre a scavalcarlo. Almeno sin qui.

mercoledì 21 marzo 2012

La posta in gioco era l'adesione a una delle regole più efferate: prima ti sistemi, poi pensi all'amore. Prima il lavoro poi la famiglia. C'era a dire il vero anche di più, fuori dalla grande città verso Nord ci si sposava solo dopo avere comprato già la casa! Il sistema funzionava così, prendere o lasciare. E le prime a fare propria questa regola erano le donne. Le quali avevano cominciato a inserirsi nelle attività con grande accoglienza: erano poche ma motivate e comunque avere una buona segretaria era quanto di più normale e desiderabile ci fosse in quell'inizio di anni sessanta. Poche restavano, finivano col fare le amanti del capo e rimanevano zitelle, le altre più numerose e più fortunate trovavano marito e al primo figlio tornavano alle 'loro' faccende domestiche.
Nel campo tedesco quel popolo di emarginati a dire il vero sembrava aver rinunciato a tutto. Nessuno parlava di amore e il lavoro che avevano bastava per sigarette, birra e qualche passeggiata fuori porta al tempo del carnevale. Nessuno si poneva certo il problema se era preferibile il lavoro manuale, grosso modo lavoro servile, o qualche altra dimensione più elevata socialmente. Lavoro servile se ne trovava, persino quello in fabbrica, ma in quel campo mi resi conto che l'operaio apparteneva a una sorta di aristocrazia del lavoro, era gente scafata, muscolare, fiera e combattiva e non amava certo il lavoro servile come quello che facevo io. L'eco delle loro lotte dentro la fabbrica giungeva fino al campo. Le donne impiegate nei lavori di pulizia nelle cucine e nelle mense se non erano  sfatte o brutte puntavano a quegli operai.
Dal campo lo sguardo era attratto spesso dai lunghi treni merci che trasportavano le auto fuori dalla Ford e si perdevano nella pianura diretti in tutta Europa.
La fabbrica attirava anche me, il lavoro che facevo era sotto di almeno un paio di scalini nella guaduatoria sociale, ma gli operai che conoscevo impazzivano per la fatica e l'impossibilità di vivere realmente l'amore, la famiglia, i figli e tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. La fabbrica dettava i ritmi di vita anche fuori, anche nelle case, nelle tavole, nei letti. I giovani spendevano le ultime energie della giornata in qualche bordello improvvisato in un incontro veloce e inutile oppure ubriacandosi di birra nelle cantine.

martedì 20 marzo 2012

Inverno a Colonia.
Questo ora risuona come titolo definitivo.
E non perché la mia stagione attraversò solo l'inverno: arrivai in inverno, era gennaio, ma me ne andai a autunno inoltrato, in realtà cioè vidi l'alternarsi quasi completo delle stagioni dell'anno.
Ma fu inverno per più motivi. Soprattutto perché, se la tensione complessiva rimandava alla necessità dell'amore, amore lì dentro, in quel campo, non ce ne fu. Ma la posta in gioco era anche un'altra. La dimensione del lavoro sarà il tema della quarta e ultima parte del poemetto. Tra lavoro manuale e lavoro impiegatizio, le due dimensioni del lavoro che avevo sperimentato sin lì, stavo liberandomi con fatica verso la dimensione del lavoro intellettuale. Avevo contro mio padre che all'arte aveva dedicato tutta la sua vita, ma avevo contro anche mia madre che temeva a priori che la vita da intellettuale mi avrebbe allontanato da lei.
D'altra parte qualcosa di intellettuale a quel punto dovevo fare per campare visto che in fabbrica non ci andavo e come impiegato avevo già dato. Certo non potevo pensare di campare facendo il poeta. Anche se continuavo a scrivere versi, come fossero appendice caudale inevitabile. Versi per lo più poco curati, poco convinti.
Inverno a Colonia.

sabato 17 marzo 2012

Le cicogne di Micene

8 marzo 2012 - 17 marzo.

Le cicogne di Micene 
(lettera in ricordo dell'amica di viaggio).

Non era l'alba dei sogni né il tramonto delle idee
quel nostro varcare la porta dei leoni 
incastonati nelle pietre di Micene,
aprivano per noi un varco nel tempo,
e a tetti e pareti mancanti
ci accolse odore di fieno e di morte
come se gocce di sangue, ferite aperte,
scintillassero ancora tra basamenti intatti.
Il sentiero ci conduceva a voci sopite,
io a lei tu a lui la mano, per quei tremila anni
come un battito di ciglia, la tracotanza di Agamennone, 
il rancore di Clitennestra.

Dicevamo di scenari soliti,
maschi guerrieri, inventori di ruoli e tradizioni 
per la propria egemonia, private vendicatrici
mai libere a mimarne gesta  e pensieri,
come fosse un destino, più forte degli dei
che hanno abitato alberi, statue e ginestre
di questo paese.
No, nessun destino. 
E' volere arcaico, ordine patriarcale, 
che intreccia passioni e divino,
che ci vorrebbe eredi per sempre di maschere d'oro,
tombe ciclopiche, armature ammaccate.

Ci teniamo noi a passioni pazienti di lumi
e non di incendi. La tua mano a lui la mia a lei
voltiamo le spalle a Micene, abbiamo un patto nuovo
all'altro capo del sentiero, dividere tra tutti 
il tempo di cura dell'aria, dell'acqua, della terra, 
del fuoco e di tutte le nostre risorse. 
Finché il pianeta ci tenga.
Per ora ci contentiamo di un the in questo bar
fuori mano. Le cicogne su quel palo 
ci mandano segnali. L'una si stacca in volo e ritorna,
l'altra, rimasta nel nido, l'accoglie col battito sonoro del becco,
un applauso.
Ci chiediamo chi sia il maschio e chi la femmina.
Le abbiamo lasciate al loro destino.

mercoledì 7 marzo 2012

Divagazioni.




A proposito di 'versi'

Che il pettirosso chioccoli è dato,

l'ape che bombisce si sa,






il tordo che zirla è pure noto,


                             e, per restare terra terra,




nessuno si stupisce che il coniglio zighiMostra immagine a dimensione intera




e che il tacchino goglotti,
Mostra immagine a dimensione intera


ma via, che il pavone paupuli 

fa un po' effetto, no?

mercoledì 29 febbraio 2012

L'amico P. mi risponde in merito a quanto detto ieri su Omero e Ulisse. In Omero c’è davvero tutto, dice, senza alcuno statuto… se non forse quello suggerito dallo stesso poema citato, in cui in perfetta “autonomia” un Poema parla anche del mondo, di più mondi, di costumi, di navigazione, di religione, di “turismo” etc… E tutto ciò, conclude, non è nient'altro che il senso forte di quell'allietare e far riflettere proprio della poesia.


Di opinione più controversa e complessa è l'amico G. L'aedo innocente, sostiene, è un'ipostasi rischiosa. Ma c'è di più. Ulisse a suo dire ha sbagliato.
"All'aedo andavano tagliate le palle e tutto il resto, e anche Telemaco si meritava una strizzata di coglioni.
L'innocenza umana è una bella invenzione, ma non esiste che la si possa applicare al di là della natura, per una specie culturale l'innocenza è andata a farsi benedire da un pezzo. L'innocenza prevede una colpa rispetto alla quale esistere, ma siccome questa colpa "originale" alla natura non è imputabile ecco che il parassita muore perché non c'è l'ospite. L'innocenza è un parassita obbligato, ma allo stato di natura non c'è un ospite disponibile, quindi essa è pura astrazione. La bellezza è innocente, ma la bellezza che produce l'artista, il poeta, è inconsapevole, è in qualche senso "naturale" e non riguarda in alcun modo l'uomo-artista, l'uomo-poeta.  In sosatnza sull'uomo possiamo anche avere un giudizio negativo e non sulla sua opera, e la sua opera va rispettata comunque. I libri non si possono toccare, non vanno mai bruciati, per gli uomini è un altro discorso.
Caso mai esiste l'irresponsabilità. Se guardiamo la faccenda dal punto di vista dell'irresponsabilità mi sembra chiaro che solo le specie naturali ( vegetali, animali) godano del privilegio di essere irresponsabili. L'uomo invece pretende di essere specie culturale e quindi ha un prezzo da pagare. Il prezzo è la responsabilità. E la responsabilità non è altro che la libertà stessa. Nessuno è libero senza assunzione di responsabilità. In sostanza nessuno è autorizzato a dirmi - sei libero-, la libertà me la prendo da solo e tutta quella che voglio, quando voglio, come voglio, in presenza di qualsiasi legge o regime o politica o ideologia o religione o superstizione. Questo mi è possibile perché assumo responsabilità. Essere poeta, artista comunque, non è naturale, non c'è alcun dio che richiede il nostro canto e gli uomini se ne fregano; è una scelta culturale, un'assunzione di responsabilità. Ti riassumo una storia che preferisco rispetto a quella di Ulisse che risparmia l'aedo collaborazionista. La storia non è mia ma di Jack London ed è un racconto che s'intitola "Il primo poeta".
Siamo nel paleolitico o giù di lì. C'è questa tribù di cacciatori e raccoglitori di bacche che se la passa come una qualsiasi tribù di cacciatori e raccoglitori di bacche. A un certo punto però succede una cosa strana e sconvolgente: un membro della tribù smette di cacciare e raccogliere bacche e comincia a cantare storie, ovviamente sulla caccia e la raccolta di bacche ma non solo, anche su altre cose molto meno concrete, più oscure e ignote, o sulla natura che vede. Ciò che conta per la tribù comunque è che costui ha scelto di diventare improduttivo, un peso per tutti. Viene dileggiato ed emarginato. Il capo però vorrebbe capire o forse solo recuperare un membro produttivo per la tribù e quindi lo interroga, gli chiede conto della sua scelta. Alle rimostranze del capo e della tribù egli risponde negando la propria inutilità, anzi rivendicando su di sé il compito di rendere tutti più consapevoli della propria esistenza, di abbellire con le sue parole la vita di tutti. Ma la bellezza per una tribù di cacciatori e raccoglitori di bacche è uccidere un cervo gigante e trovare una distesa infinita di lamponi, mica ascoltare il canto di un mangia a ufo un po' fuori di testa, per questo non sono ancora pronti. Così, visto che il tipo non ne vuol sapere di tornare ad essere produttivo (nel senso inteso dalla collettività), il capo decide che tanto vale liberarsene e lo lapidano. 
Quel che conta, conclude l'amico G., è che il tipo si lascia lapidare senza un lamento, senza chiedere pietà, senza accampare un'improvvisa follia che lo ha costretto a cantare cose insensate, senza dire - Perdono! Ero posseduto da uno spirito maligno, ma ora ritorno a cacciare e a raccogliere bacche buono buono.- senza dire - Perdono! I proci cattivoni mi hanno costretto-.
Nessuno ci ha costretto ad essere poeti, l'abbiamo scelto noi assumendocene la responsabilità. E il fatto che nessuno canti per se stesso è un'assunzione di responsabilità ulteriore. Non c'è nessuna innocenza nella poesia, nell'arte in generale. Perché arte è una parola estremamente concreta, esprime il concetto del fare, del produrre artifici, la bottega, il sudore, la fatica, le scelte e i ripensamenti, il possedere ciò che facciamo".
Tutto quello che l'amico G. dice  è molto interessante. Soprattutto quando dice che la tribù del paleolitico ad accettare il tanghero improduttivo che mangia a ufo non è ancora pronta. Non è detto che ciò vada inteso storicisticamente, nel senso che magari altre tribù del paleolitico nello stesso momento erano comunque già pronte, ma resta il fatto che a quanto pare nell'età del bronzo la faccenda era già acquisita: Ulisse si ferma e non uccide il collaborazionista. L'acquisizione culturale della bellezza come sublime accessorio della seconda natura è dunque avvenuta solo dopo un processo più o meno lungo? Mi sa che non è solo proprio così. Certo che per l'uomo, e la donna, del paleolitico la bellezza sta nell'uccidere un cervo gigante o nello scoprire una distesa di lamponi ma quando è sazio/sazia gli/le piace rammentare quella bellezza con i gessetti sulla parete della caverna e mi sa anche che scoprono l'altra funzione, quella apotropaica, delle pitture, quando hanno fame. Il lapidato dell'amico G. ha un po' l'aria dello sfigato che ha sbagliato tribù per cominciare la sua storia. Se è così, se, almeno dal diffondersi dell'homo sapiens sapiens, le cose procedono quasi di pari passo allora non è ovviamente questione di dei che ci chiedono il canto ma qualcosa che sta in noi per noi. E quindi non è vero che 'gli uomini se ne fregano' ma è vero che certuni sì.
Ulisse per me è poi portatore di un altro problema: la giustizia al suo tempo era una faccenda personale, familiare, tribale. La legge patriarcale voleva così, Ulisse fa strage di un centinaio di persone e la sua vendetta arriva come monito fino a noi. Le colpe dei proci lui le lava nel sangue. Le colpe dei proci oggi non so se sarebbero arrivate a sentenza.
Mi sa che Omero, o chi per lui, quando scriveva di Ulisse che si vendica in maniera così sanguinaria deve essersi detto che la produttività media della difesa della legge patriarcale era giusto che andasse rispettata  ma che forse non era il caso di prenderla così tanto sul serio. E ad ogni buon conto a Ulisse gli ha fatto risparmiare quel tipo improduttivo ( cioè se stesso).

martedì 28 febbraio 2012

Quando Odisseo, tornato a Itaca, compie la sua strage, si arresta solo davanti al poeta, al cantore, l'aedo che lo supplica di risparmiarlo. Gli dice risparmiami, abbi pietà, tu avrai rimorso un giorno se uccidi il cantore perché "io canto per gli dei e per gli uomini". E continua dicendogli che lui l'arte l'ha imparata da solo ma che un dio gli ha ispirato in cuore tutti i canti: "non tagliarmi la testa, io canterò davanti a te come davanti a un dio".
Odisseo si ferma, anche perché Telemaco gli conferma che l'aedo è stato sempre costretto a cantare.
Cosa ha cantato? Cosa ha cantato che potesse tenere lontano un giudizio di connivenza criminale con i proci? Qualsiasi cosa abbia cantato non entra a quanto pare in questione, Odisseo lo risparmia perché ha cantato sotto costrizione, poi che abbia cantato la guerra di Troia o quant'altro non ha importanza. Il poeta è libero di cantare quello che vuole e se canta in catene per un principe odioso e crudele non va considerato suo complice (ai complici veri ben altra sorte è riservata, le dodici ancelle che si sono concesse ai proci le fa impiccare tutte da Telemaco, al servo Melanzio gli fa tagliare nell'ordine naso, orecchie, genitali, mani e piedi).
Il poeta costretto a cantare è innocente. La poesia è innocente? 
Omero non ha dubbi. L'autonomia della poesia è un dato 'naturale', uno statuto? Il poeta canta per gli uomini e gli dei e tanto basti. Con il suo canto li intrattiene, li consola, li distrae, li emoziona, li fa riflettere.
Il poeta, la poeta non cantano per se stessi, cantano per gli dei, per le dee, per gli uomini, per le donne.

martedì 21 febbraio 2012

L'amico G. contesta le recensioni. 'Aggiungono' troppo! Stravedono, cose che l'autore non si è mai sognato di voler dire!
Le cattive recensioni credo siano proprio così. Ma allora sono esercitazioni letterarie i cui scopi stanno nella mente dell'autore. Ci si accorge che sono esercitazioni se non danno emozioni. Perché una buona recensione dà emozioni come una buona poesia, insomma ci si deve sentire il sangue e il corpo dell'autore. Ma in questo caso il critico lettore viaggia per conto suo, segue il flusso delle sue emozioni conseguente all'impatto con i versi letti. Aprirà su sentieri che non appartengono più all'autore. Perché il testo poetico, come dice Bachtin, una volta dato alle stampe diventa nel corso degli anni anche tutto quello che è stato detto su di esso. Dante stupirebbe enormemente di tutto ciò che in sette secoli i lettori sono riusciti a vedere dentro la Commedia!
Città alta, che sta nel post precedente, ha ricevuto all'uscita diverse recensioni.
Una di queste è di Roberto Caracci, lettore attento e sensibile. Nelle serate a casa sua, nel Salotto Caracci appunto, presenta l'autore, lo fa parlare e poi ci scrive sopra una scheda critica, 'aggiunge' cioè un po' di sé al testo poetico (o filosofico o altro, dipende dall'invitato).


5 nov. 2003

Amici salottieri, vi mando qualche riflessione sul libro di Rabissi presentato nel 'denso' incontro di ieri 4 novembre.
R.C

Appunti su “Città alta”, di P.Rabissi

1)      L’ORIZZONTE IN ESPANSIONE
Le ‘fughe’ aprono a orizzonti di spazio sempre più vasti, dilatati, dal vicino al lontano, proprio come lo sguardo di un bambino che comincia pian piano ad allontanarsi dalla sua casa di origine, a svezzarsi dal nido, a camminare pieno di esitazioni, ma anche di meraviglie e di stupori

2)EPIFANIE E AGNIZIONI
E infatti qui tutto è dominato da un’aura di scoperta, una dimensione epifanica, dove in uno spazio metafisicamente minimalista tutto appare come piccolo prodigio, rivelazione, agnizione
 

3)      LO SPAZIO AMPLIFICATO DELL’INFANZIA

E allora gli occhi di questo bambino che scivola rapidamente verso la maturità, che è già adulto e lo diventa sempre di più man mano che scende da questa Trieste alta verso il mare, vedono le cose più grandi di quello che sono, amplificate e enfatizzate, come in una dimensione di fiaba quotidiana, dove anche i ‘topi sono ‘grossi come gatti’
,la casa dei ‘malati di mente ha qualcosa di inquietante e il cane che ti annusa negli occhi è ‘monumentale’(forse addestrato ‘a fare la spia’).


4)      VERSO IL NITORE DEL MITO
Il passato si fonde con il presente, quel viaggio del bambino fuori dalla sua porta di casa viene ricalcato dai passi dell’adulto. La realtà è ancora lì, la ‘stessa trattoria’
sulla strada e quel ricordo della ‘donna che urla’ uscendo contro il marito ubriacone, un quadro effimero che ha già la nitidezza immobile del mito.
 

5)BAMBINO E ADULTO, DALLA CITTA’ ALTA AL MARE
 E lo sguardo che scende verso il mare (è uno sguardo che viaggia) dilata i suoi orizzonti, arriva al porto, sotto la città alta, dove si ‘accendono risse/col
mare alle spalle”, ma risale anche verso lo spazio alto delle giostre coi sedili volanti- col rischio che quel volo possa risultare fatale per un bimbo, come è accaduto. Dalla discesa al mare si risale verso la città alta e viceversa: non è il doppio cammino del bambino che diventa adulto e dell’adulto che ritorna bambino?
 

6)PRESENTE E PASSATO
Si oscilla fra presente e imperfetto narrativo, ciò che è era e ciò che era è.  La strada scende, la strada ‘scendeva’.
La città è sempre la stessa, ma il tempo ha scavato dentro la vita e i tempi verbali intervengono lì a ricordarlo
 

7)IL BIVIO E LA FRONTIERA
Poi nel cammino di un ragazzo, come nella vita, si arriva sempre finanzi a un bivio, anche qui c’è una strada che scende verso il mare e il rischio di un quartiere assolato che ‘non era sicuro”,
e a destra la casa dei matti: ma poi, ancora più oltre l’invalicabile ‘frontiera’ che per un bambino rappresenta le Colonne d’Ercole della sua fuggitiva avventura.
 

8)IL GIARDINO CHE NON C’E’ Più
E quel giardino che ‘non c’è più’ è il giardino della casa dei matti, dove ‘si
sente lo stesso grido soffocato’ o quello dell’infanzia finita, dell’eden perduto e soffocato dal tempo, come il singhiozzo che resta in gola? E le ‘corde vocali che non reggono ancora lo sforzo’, sono quelle del matto che non ha più la forza  di urlare come prima o della “poesia” che malgrado il tempo ha questa forza ancora un po’ strangolata di rievocare le immagini di un mondo finito?
 

9)MOSAICO IMPRESSIONISTICO
Il linguaggio è rotto, spezzato, fatto di frasi concise, brevi, segmenti di discorso frantumato. Tra un segmento e l’altro il silenzio della discontinuità.
Impressioni e pennellate che formano piccoli mosaici carichi di suggestione.
 

10)LAMINE DELLE IMMAGINI
Questo impressionismo fatto di lamine plurime e frastagliate, sbalzate dentro il quadro di una spazio-temporalità di modalità quasi cubistica, si conferma nei ‘Paesaggi’ della seconda sezione, con i cani del ‘Parco Ravizza’
che ‘si stampano nei fiati’ e le ali che ‘lampeggiano…sulle antenne paraboliche’, o l’inverno del cavalcavia di ‘Piazza Corvetto che ‘abbrevia la luce’


11)LA SALVEZZA DELLO SGUARDO FIABESCO
E infine, la cucitura fra la prima sezione, “Fughe”
e la seconda, “Paesaggi”: fra il mondo dilatato e in espansione dell’infanzia (la strada che dalla casa va verso il mare e risale alla città alta), e quello contratto e grigio del mondo urbano adulto, con cavalcavia e claxon che spezzano l’incanto. La cucitura potrebbe riassumersi in una parola che ricorre nell’ultima parte del volume, ‘fiaba’, o ‘favola’. L’adulto che non è più bambino ma che forse ha ancora lo sguardo del bambino, quando la realtà glielo consente, non rinuncia al suo ‘sguardo caparbio di fiabe’. La realtà è mutata, ma nel cambio dei ‘fondali’ della scenografia urbana- come quello determinato dal cavalcavia di piazzale Corvetto –rimane dentro lo stesso desiderio di favola, o di ricreazione fabulistica, a salvarci: e dunque la libertà di ‘fuga’ verso il mare o la ‘Città alta’.


Roberto Caracci