sabato 28 aprile 2012

In Giacomo Leopardi poesia e teatro sono fonti di coesione sociale.


Poco prima dell'inizio della sua avventura alle dipendenze di Antonio Fortunato Stella, editore in Milano, Leopardi compone il  ‘Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani’: da esso è possibile in qualche misura dedurre anche le sue conclusioni sulle possibilità di una massificazione del lavoro intellettuale in generale al suo tempo in Italia (e questo al di là del suo giudizio specifico sulla letteratura italiana che, come si sa, era negativissima). In quella complessa indagine di tipo sociologico, scritta nell'aprile del '24 e frutto probabile delle sollecitazioni e delle suggestioni provenienti dall'Antologia di Gian Pietro Viesseux (il quale ultimo da Firenze insisteva invano per ottenere la collaborazione del poeta recanatese), Leopardi, partendo dalla constatazione della arretratezza complessiva della società italiana rispetto a quelle d'oltr'Alpe, ne rinveniva la causa fondamentale nella mancanza di quella che egli chiamava ‘società stretta’.
Frutto in parte della natura socievole e imitativa degli individui e in parte del bisogno e della volontà, questa società stretta è propriamente, nell’analisi di Leopardi, una sorta di patto sociale attuato «principalmente» tra coloro che «dispensati dalla loro condizione dal provvedere coll'opera meccanica delle proprie mani alla loro e all'altrui sussistenza», impiegano il loro genio a riempire il vuoto della vita, a dissimulare la vanità delle cose, a ingannare il pensiero della «inutilità della vita e delle fatiche»
e a mantenere «come che sia e per quanto è possibile l'illusione dell'esistenza». Condizione indispensabile al funzionamento di tale patto e conseguenza essa stessa è l'affermarsi come valore, dentro quella società stretta, della pubblica opinione. È questo, afferma Leopardi, l'unico, ma potentissimo, vincolo sociale rimasto alle nazioni dopo che la diffusione dei lumi settecenteschi ha provocato «la quasi universale estinzione o indebolimento delle credenze su cui si possono fondare i principii morali»; la sua forza è l'unica nelle società moderne a garantire la saldezza di un corpo sociale, sopperendo alla comprovata insufficienza delle leggi e della forza pubblica a «ritenere dal male» o a «stimolare al bene».
Nelle nazioni in cui questa società stretta si è affermata, là dove si è affermato «un commercio più intimo degli individui tra loro» e cioè l’amore per la conversazione e per «relazioni più strette e piùfrequenti», gli individui sono maggiormente portati a tenere conto l'uno dell'altro e a desiderare stima e buona opinione reciproche.
Ciò sicuramente, avverte Leopardi, non avviene in Italia, fatta forse eccezione per qualche città più grande; perlopiù infatti, al contrario di quanto avviene negli altri paesi dove ciascuno considera
«la massima delle sventure la perdita o l'alterazione dell'opinione pubblica verso loro» (tale peraltro è la "miseria" dei tempi), gli italiani hanno addirittura in spregio l'essere o l’apparire conformi,
affini, intonati d'opinioni e d'idee. «Ciascun italiano fa tuono e maniera da sé» conclude a proposito Leopardi. Viceversa il "bon ton"ovvero l'amore per un'opinione pubblica favorevole, per quanto «piccolissima e freddissima cosa» è, insiste Leopardi, l’unico principio conservatore delle società e ad alimentarlo, e il poeta mette ora a fuoco il nocciolo della questione, contribuiscono efficacemente un teatro nazionale e soprattutto una letteratura nazionale moderna, la quale ultima è anzi la fonte più grande di quella auspicabile affinità di opinioni, gusti, costumi, maniere.
L'amore per la società stretta è dunque nell'analisi leopardiana peculiare di una società culturalmente dinamica, moderna, capace di offrire occasioni e stimoli al vivere sociale. Solo in una società stretta anche chi è intimamente convinto della inutilità della vita e delle fatiche finisce, a dispetto di sé, col dover battagliare e scendere a patti con quell'io collettivo interiorizzato che spinge al socievole e a considerare la vita stessa degna di essere coltivata, studiata ed esercitata. È questa la situazione migliore perché l'immaginazione inneschi finalmente tutta la sua potenza illusoria contribuendo con le sue opere alla formazione di quella pubblica opinione che sedimenterà poi nella nazione usi e costumi.
Ma l'Italia fra le nazioni è «la più morta, la più fredda [...] indifferente, insensibile, la più difficile ad essere mossa da cose illusorie, e molto meno governata dall'immaginazione neanche per un momento [...] priva affatto di opere di immaginazione, di poesia qualunque [...] di opere sentimentali, di romanzi [...]». Gli italiani passano il loro tempo «a deridersi in faccia gli uni e gli altri» disprezzando giudizi e opinioni altrui e il grado più elevato di vita di società e conversazione per loro sono il passeg-gio, gli spettacoli, le messe e le prediche. Di quella società stretta, che facendo stima del giudizio altrui e delle sue «lusinghe senza bassezza» attivasse l'immaginazione a produrre illusioni, simboli, miti e leggende per dare un senso alla vita e vincoli ad una nazione altrimenti disintegrata, Leopardi non trovava quasi traccia in Italia. Gli italiani gli apparivano chiusi in una fredda, geometrica, «ragionevole» indifferenza sociale; piuttosto che il loro raziocinare cinico ed egoistico, annotava infine, non sarebbe stato da considerare scandaloso un diffondersi ulteriore di libere espressioni di fanatismo e miracolismo, visionarismo e settarismo nelle quali l'immaginazione giocava almeno ancora una parte.

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