A rileggere di Graeber L'alba di tutto mi torna alla mente una fantasia giovanilissima ma non propriamente infantile nella quale immaginavo un ideale di vita da adulto in una casa isolata in un bosco con una compagna (forse dei figli) dalla quale mi allontanavo per andare a caccia. Verosimilmente poi, ma la fantasia in realtà non andava molto oltre, aiutato da lei avrei lavorato per la manutenzione della casa e dei dintorni. Altrettanto verosimilmente lei avrebbe adattato a orto pezzi di terra vicini curando sementi e selezionando erbe, dimodoché a un mio ritorno a mani vuote avrebbe lei messo comunque qualcosa in tavola, tanto più se nell'orto scorrevano galline e più in là qualche pecora o una mucca, un quadro inevitabilmente abitato anche da un cane.
Certo si trattava di una fantasia che sarebbe stata comunque alimentata poderosamente da tante letture di libri per ragazzi e poi dalle fattorie del far west statunitense e così via. Ma sul come mi era nata inutile tentare ipotesi. Quello che richiama la mia attenzione è che non immaginavo una vita da lupo solitario e che la famiglia era decisamente nel mio orizzonte. Con già intravista una divisione del lavoro, quella che dall'alba dei tempi si sarebbe codificata in una divisione di genere dei ruoli.
Ma dove stava la vita di relazione in quella fantasia? parenti? aggregazioni intorno alla famiglia per solidarietà e interessi? Comunità di intenti?
Da dove mi proveniva l'idea di una famiglia ristrettissima al margine di una società complessa qual era comunque già l'Italia della mia infanzia? Metto per forza di cose sul conto una prima reazione alla mia disastrata famiglia, fallimentare sotto ogni aspetto. Però quella recinzione così angusta della 'casa' che avevo in mente denunciava come paura per una vita di relazione allargata.
A leggere Graeber viene in mente che quella mia visione non era altro che la visione dell'inizio della società civile. Inizia da lì la nostra civiltà, dai cacciatori, raccoglitori, allevatori di bestie e semenze. Per me si trattava evidentemente a differenza forse di altri di cominciare dall'alba di tutto la mia storia abbandonando quella fallimentare nella quale allora vivevo.
Nella mia fantasia che posto aveva la proprietà privata? E, diventato adulto, che posto aveva? Non avendo in quell'età altro che quattro spiccioli in tasca, quelli del mio lavoro precario di allora, quello della proprietà privata non era un problema, semmai era qualcosa che avevo alle spalle e intorno a me, comunque non era un mio fine. Anzi, per una tendenza all'anarchia, ero sensibile alle proposte culturali e politiche che la mettessero in discussione come fonte di mali più che di benessere. La scoperta di Marx e dei movimenti rivoluzionari di mezzo mondo mi indicarono una strada che sarebbe stata senza ritorno soprattutto perché il mio bisogno di relazioni incontrò prima la contestazione generale studentesca e quasi contemporaneamente il fiume in grossa delle lotte operaie. Un insieme tendenzialmente rivoluzionario che aveva proprio come obiettivo quello di inceppare magari definitivamente il processo di accumulazione della ricchezza privata che nasceva con lo sfruttamento del lavoro dentro le fabbriche e nelle case. Un'equazione semplice e entusiasmante. La cui dimostrazione era in corso per le strade.
Milano agli inizi degli anni sessanta era attraversata in lungo e largo da masse di operai e di studenti in lotta. Ma per cosa? Gli studenti contro l'autoritarismo dei baroni universitari soprattutto, che nascondeva sotto traccia la loro collusione con i poteri finanziari e il loro ordine in sostanza ancora fascista. La classe operaia contro l'organizzazione generale dello sfruttamento del lavoro.
Interrogavo ovviamente costoro perlopiù. E l'accento svelava sempre molto di più di quanto capissi. "Non è solo la fatica di tenere le mani alzate alla catena di montaggio che scorre sulla tua testa. Ti ci abitui, anche se a sera hai la schiena spezzata in due che non basta una notte. Quello a cui non mi abituerò mai è che mi rubano lavoro, e io quasi non me ne accorgo. Alla fine della scorsa settimana i pezzi lavorati erano tot. Da questo lunedì i pezzi erano tot più tre. Come è possibile? In maniera che sul momento non te ne accorgi la velocità della catena era aumentata, tu lavori nelle stesse ore alla catena più pezzi e quasi non te ne accorgi. E semmai ti dicono che è stato un caso. Che poi però diventa normalità. Perché la macchina ha ormai incorporato i nuovi ritmi e tu ti ci devi abituare. In più i compagni vicini che avevano cominciato a accorgersi della faccenda non li vedi più perché sono stati spostati."
In realtà ciò bastava per lasciarsi alle spalle ogni discorso più o meno filosofico o ideologico sulla proprietà privata. L'accumulo di potenza e ricchezza da parte di alcuni - gente in gamba, di grande intelligenza e iniziativa, ma avente senza dubbi all'interno anche molte persone stupide e incompetenti oltre che prepotenti e violenti - appariva visibilmente legato alla proprietà delle macchine, al possesso delle nuove tecnologie, capaci di imporre all'infinito un meccanismo di riproduzione del profitto avendo alla base l'intensificazione della giornata lavorativa pagata sempre meno. Per dare inizio a un processo lavorativo, sui cui prodotti si innestava via via un intervento sempre più complesso e sofisticato e quindi pagato di più, bastava infatti un lavoro povero di manualità e competenza che meritava solo un salario minimo. Gli esiti di un sistema così organizzato sono visibilissimi oggi dopo che, alla classe operaia di base, intelligenza dei meccanismi lavorativi e capacità di iniziativa sono state tolte. Almeno sino ad oggi.
Gli operai e le operaie con le quali mi sono mescolato avevano allora le idee chiare. Non si trattava di discutere ulteriormente se la proprietà privata fosse o meno un furto, a essere rubato era sicuramente il lavoro, si trattava di inceppare con le lotte quel meccanismo. Che portava, grazie alle macchine (quelle sì indiscutibilmente proprietà privata) e al loro uso necessariamente all'impoverimento, allo svilimento del lavoro della gran massa alla base della produzione e della produttività. Quegli operai e quelle operaie si trovarono ad essere un soggetto rivoluzionario perché avevano capito e denunciato il meccanismo su cui si basava l'intero sistema. Quel sistema in seguito non si sarebbe lasciato sorprendere più così facilmente, almeno nel nostro paese dove intelligenza e furbizia da predoni e ladri sono da sempre più efficienti che altrove.
Quel ciclo di lotte, sconfitto alla fine da più fattori, ha lasciato memoria di un'alternativa al sistema che oggi sembra inarrestabile? E poi, seguendo il lavoro di Graeber, quelle lotte hanno riaperto la questione se sia possibile una soluzione diversa da quella che, all'insegna della proprietà privata dei mezzi di produzione, ci appare sempre più una strada destinata a distruggere le forme di civiltà più intelligenti e creative del pianeta?