A chi per amore, per curiosità, per conoscenza
incrocia righe e versi auguro buon 2012.
Continuiamo a tenerci abbarbicati ai nostri fili d'erba.
Con affetto per tutte e tutti, Paolo.
Diario in rete di Paolo Rabissi iniziato nel settembre del 2011. Fino al giugno del 2012 ho scritto qui, con riflessioni anche in righe, il poemetto: Inverno a Colonia. Col tempo è diventato parte di un progetto più vasto concluso nel 2017 e che comprende altri tre poemetti. Il tutto verrà pubblicato conservando il titolo generale di Inverno a Colonia. Il diario si è nel frattempo arricchito di saggi critici, recensioni, discussioni nonché presentazioni di iniziative pubbliche.
sabato 31 dicembre 2011
giovedì 29 dicembre 2011
La crisi in corso è troppo grande perché si possa ignorarla, anche da questo blog, che amerebbe scrivere solo versi e righe intorno alla poesia.
Della manovra governativa si possono dire due cose.
La prima riguarda il fatto che gli attori di essa sono legati mani e piedi al sistema e quindi le misure che adottano sono sempre quelle, al di là di qualche illusoria invenzione creativa che incide poco o niente.
La seconda riguarda il fatto che queste misure sono per loro natura organizzate per far pagare la crisi ai più deboli.
Non ci si deve poi dimenticare che tutta Europa è governata dalle destre che mettono sul conto anche piazze tumultuanti che darebbero ragione di una sterzata ancora più a destra. Vero è che l'Italia non ha una tradizione militarista ma non è che i Bava Beccaris e i governi Tambroni siano di mille anni fa.
Le uniche proposte serie e capaci di fare uscire dalla crisi sono inattuabili dalle attuali forze politiche. Non è vero che non ce ne siano. Ormai, rispetto a sei mesi fa, quando di questa crisi totale in arrivo parlavano solo esperti e acuti commentatori, la maggioranza della popolazione credo abbia capito che se ne esce solo con misure che intacchino beni e rendite dei più ricchi. Misure che, per quanto fossero contenute, farebbero gridare subito contro il bolscevismo.
Può essere che la parte più democratica della popolazione scenda davvero in piazza e che dobbiamo assistere a scontri sanguinosi. Ai tempi di Bava Beccaris c'era il partito socialista che guidava la protesta. Nel 1960 di Tambroni c'era il partito comunista. Quei partiti insieme ad altre forze politiche, con la loro capacità di mediazione e di rappresentanza, furono in grado di evitare che a quelle stragi ne seguissero altre e il movimento di massa e di protesta potè condizionare in senso più democratico il paese. Oggi che esista una forza politica, solo di movimento o di partito, in grado di svolgere la stessa funzione è drammaticamente in dubbio.
Della manovra governativa si possono dire due cose.
La prima riguarda il fatto che gli attori di essa sono legati mani e piedi al sistema e quindi le misure che adottano sono sempre quelle, al di là di qualche illusoria invenzione creativa che incide poco o niente.
La seconda riguarda il fatto che queste misure sono per loro natura organizzate per far pagare la crisi ai più deboli.
Non ci si deve poi dimenticare che tutta Europa è governata dalle destre che mettono sul conto anche piazze tumultuanti che darebbero ragione di una sterzata ancora più a destra. Vero è che l'Italia non ha una tradizione militarista ma non è che i Bava Beccaris e i governi Tambroni siano di mille anni fa.
Le uniche proposte serie e capaci di fare uscire dalla crisi sono inattuabili dalle attuali forze politiche. Non è vero che non ce ne siano. Ormai, rispetto a sei mesi fa, quando di questa crisi totale in arrivo parlavano solo esperti e acuti commentatori, la maggioranza della popolazione credo abbia capito che se ne esce solo con misure che intacchino beni e rendite dei più ricchi. Misure che, per quanto fossero contenute, farebbero gridare subito contro il bolscevismo.
Può essere che la parte più democratica della popolazione scenda davvero in piazza e che dobbiamo assistere a scontri sanguinosi. Ai tempi di Bava Beccaris c'era il partito socialista che guidava la protesta. Nel 1960 di Tambroni c'era il partito comunista. Quei partiti insieme ad altre forze politiche, con la loro capacità di mediazione e di rappresentanza, furono in grado di evitare che a quelle stragi ne seguissero altre e il movimento di massa e di protesta potè condizionare in senso più democratico il paese. Oggi che esista una forza politica, solo di movimento o di partito, in grado di svolgere la stessa funzione è drammaticamente in dubbio.
martedì 27 dicembre 2011
Se nostalgia lo preme Orlando ti porta in città,
nella latteria italiana che apre sul retro
stanze riservate. Lo salutano con deferenza
ma si vede che il posto migliore è destinato
ad altri, al boss in tweed, col solitario al mignolo.
Racconta di sé. Ma è la mano a disegnare
nell'aria tempi inenarrabili a parole.
Di regine di strada. Di battute di caccia.
Indica i pezzi grossi mano a mano che entrano,
resta in silenzio, abbassa la voce - quando
torni in Italia ti dico io da chi andare,
gli fai due piaceri e ti sistemi -.
Quella qui sopra è la versione, modificata oggi, dei versi che compaiono nel post di lunedì 28 novembre e che qui riporto
Se nostalgia lo preme Orlando
ti porta in città, nella latteria italiana
che apre sul retro stanze riservate.
Lo salutano con deferenza
ma si vede che il posto migliore
è destinato ad altri, al boss in tweed,
col solitario al mignolo.
Racconta di sé. Ma è la mano a disegnare
nell'aria tempi inenarrabili a parole.
Di regine di strada. Di battute di caccia.
Sono andato a rileggerli oggi dopo aver scritto, su un post che ho messo per ora a maturare tra le bozze, qualche altro verso su Orlando. Appena ho aperto il post solo a guardare come erano strutturati mi sono parsi esangui, anemici e persino disturbati! Li ho trascritti su un unico rigo virtuale e poi ho ricominciato a comporre. La versione che qui appare all'inizio ha un altro ritmo ed è decisamente meglio. Tra l'altro ho potuto aggiungere quattro versi finali che avevo in mente da tempo ma che non sapevo dove collocare. Andavano qui.
Orlando preme sulla memoria. Stanotte mi è comparso con la cintura solita dei calzoni sotto il ventre prominente e in essa infilato l'uncino per afferrare e trascinare i sacchi di patate. Un personaggio piuttosto triste, come magliaro non aveva commesso delitti gravi tranne imbrogliare un po' di gente, se l'era cavata con qualche mese di prigione ogni tanto. Ora si era imboscato in quel campo, forse con qualche conto in sospeso con la giustizia ma anche perché il fisico non lo sosteneva come prima. Aveva il suo giro in città ma si teneva fuori dalla malavita. Almeno così mi diceva. A quel tempo doveva avere circa cinquantacinque anni, era un bell'uomo, si teneva bene ma oggi dovrebbe avere più di centodieci anni. Viveva solo. Sarà finito in una fossa comune oppure sul tavolo di anatomia dell'Università.
Orlando preme sulla memoria. Stanotte mi è comparso con la cintura solita dei calzoni sotto il ventre prominente e in essa infilato l'uncino per afferrare e trascinare i sacchi di patate. Un personaggio piuttosto triste, come magliaro non aveva commesso delitti gravi tranne imbrogliare un po' di gente, se l'era cavata con qualche mese di prigione ogni tanto. Ora si era imboscato in quel campo, forse con qualche conto in sospeso con la giustizia ma anche perché il fisico non lo sosteneva come prima. Aveva il suo giro in città ma si teneva fuori dalla malavita. Almeno così mi diceva. A quel tempo doveva avere circa cinquantacinque anni, era un bell'uomo, si teneva bene ma oggi dovrebbe avere più di centodieci anni. Viveva solo. Sarà finito in una fossa comune oppure sul tavolo di anatomia dell'Università.
L'amico S. mi chiede se quel lavorio notturno, di cui parlo ogni tanto, è reale o è una finzione. Non è una finzione. Dormendo o comunque nel dormiveglia raggiungo uno stato di concentrazione che nel quotidiano raggiungo a fatica e raramente. Anche perché non sono molto bravo a tenere lontano le distrazioni. Credo anzi, come succede a molti, di condizionare i miei stessi sogni e gli stessi spostamenti onirici non mi allontanano mai di molto dalla necessità di mettere a fuoco una questione. Di notte in effetti ho sistemato diverse cose. Mentre sto scrivendo queste ultime parole la memoria, quasi una impicciona che vuole sempre dire la sua a tutti i costi, si infila tra loro e me. Fu durante una notte che presi la decisione di partire per Colonia. Non ricordo più di tanto, certo non dovette essere una notte tranquilla. Al risveglio mi sono sollevato a sedere sul letto e mi sono detto che l'unica soluzione era andare a Colonia. La fuga era stata insomma concepita e l'avrei realizzata di lì a un paio di settimane, al massimo tre, il tempo di fare il passaporto. Che poi fosse Colonia la meta scelta, la cosa era del tutto irragionevole quanto irrilevante. Colonia era la città dove un amico di liceo era andato a passare l'estate, il suo racconto vivo mi aveva impressionato e certi indirizzi che lui mi avrebbe dato, quello ad esempio della casa dello studente, sarebbero tornati utilissimi.
La fuga invece non aveva appunto bisogno di indirizzi. Aveva solo bisogno di essere realizzata.
lunedì 26 dicembre 2011
Mi è capitato spesso nel passato, per strada, di riconoscere improvvisamente nell'aria di città l'odore di Colonia del 1963. Assolutamente identico, non ho dubbi. Allo stesso modo ricordo l'afrore dell'acqua marina di superficie, immobile sotto riva fra qualche scoglio con le erbe verdi sul fondo, nel mio paesino in Puglia, più di sessantanni fa. Quell'afrore ha somiglianze con l'acqua profonda del tratto di mare di Trieste dove ho imparato a stare a galla, più o meno nello stesso periodo. Quello di Colonia invece è quello della città industriale. Ma ormai è molto che non lo sento più qui a Milano. Credo dipenda dal fatto che quasi tutte le fabbriche sono state sostituite da condomini. Non c'è più lo smog nero e denso, ci sono invece le polveri sottili degli scarichi delle automobili e dei riscaldamenti delle case. Suppongo che l'aria non abbia più lo stesso odore nemmeno a Colonia. Sono tornato recentemente in Puglia e a Trieste e il mare aveva lo stesso profumo. I mari sono certamente più inquinati e l'afrore è più chimico, ma credo che il risultato sia pressoché uguale perché si tratta sempre di decomposizione e morte di alghe, pesci e rifiuti.
La prima notte nel dormitorio studentesco di Colonia la passai sveglio, pensavo a cosa mi ero lasciato alle spalle. Respiravo con piacere l'aria fredda che entrava dalla finestra aperta alla mia altezza nel letto a castello. Verso le due o le tre del mattino il freddo diventò più importante dei miei pensieri, accostavo la finestra e il tipo di sotto si alzava e la spalancava. Siamo andati avanti così. La mattina volli dare un'occhiata a quel personaggio, era un tedesco mingherlino, sottile e pallido. Forse doveva evitare di dormire al freddo.
Non dovettero trascorrere più di uno o due giorni quando in un tardo pomeriggio, mentre io e il nero americano cercavamo di comunicare con i nostri dizionarietti, un giovane di statura piuttosto alta, capelli biondi mossi e occhi chiari mi si è rivolto sorpreso di trovare in quel posto un italiano. Il suo accento era inconfondibilmente triestino. Come per chiunque è inconfondibile il dialetto del proprio paese. Anche se come per me la permanenza nel luogo di nascita è stata saltuaria. Oggi non so parlarla, ma nemmeno a vent'anni, già allora ne conoscevo ormai solo la cadenza, l'accento, il ritmo. Per questo chiesi subito a Claudio se era triestino come me. Doppia sorpresa.
Una mattina di molti anni fa in un bar di Ripamonti ne riconobbi un altro, gli dissi che anch'io ero triestino. Strano di solito i triestini sono molto più affettuosi, mi rispose. Insomma mi tolse definitivamente quell'identità che già a me sembrava sovradeterminata. Da quel momento ho smesso anche di tentare ogni tanto di parlare in triestino per gioco. Che poi i triestini siano più affettuosi di altri era un'idea pellegrina, Claudio non lo era affatto. Piuttosto era curioso. Chi ero, quanti anni avevo, cosa ci facevo lì, se ero davvero studente, il tutto con un pizzico di diffidenza che non ho mai capito da dove gli provenisse. Dato che allora, proprio come oggi, ero molto insicuro di me pensai che gli provenisse dal fatto che mi spacciavo per triestino senza esserlo in effetti, infatti non parlavo in triestino. Prese a comportarsi da subito da fratello maggiore e in effetti qualche anno in più li aveva.
Il vero personaggio era lui. Aveva sulle spalle un doppio tradimento. Quello verso la sua famiglia che lui accusava di essere una famiglia patriarcale, autoritaria, soffocante e stupida, e quella verso lo studio perché aveva abbandonato l'Università.
E' per questo che la terza parte del poemetto si chiama "Il tradimento di Claudio".
La prima notte nel dormitorio studentesco di Colonia la passai sveglio, pensavo a cosa mi ero lasciato alle spalle. Respiravo con piacere l'aria fredda che entrava dalla finestra aperta alla mia altezza nel letto a castello. Verso le due o le tre del mattino il freddo diventò più importante dei miei pensieri, accostavo la finestra e il tipo di sotto si alzava e la spalancava. Siamo andati avanti così. La mattina volli dare un'occhiata a quel personaggio, era un tedesco mingherlino, sottile e pallido. Forse doveva evitare di dormire al freddo.
Non dovettero trascorrere più di uno o due giorni quando in un tardo pomeriggio, mentre io e il nero americano cercavamo di comunicare con i nostri dizionarietti, un giovane di statura piuttosto alta, capelli biondi mossi e occhi chiari mi si è rivolto sorpreso di trovare in quel posto un italiano. Il suo accento era inconfondibilmente triestino. Come per chiunque è inconfondibile il dialetto del proprio paese. Anche se come per me la permanenza nel luogo di nascita è stata saltuaria. Oggi non so parlarla, ma nemmeno a vent'anni, già allora ne conoscevo ormai solo la cadenza, l'accento, il ritmo. Per questo chiesi subito a Claudio se era triestino come me. Doppia sorpresa.
Una mattina di molti anni fa in un bar di Ripamonti ne riconobbi un altro, gli dissi che anch'io ero triestino. Strano di solito i triestini sono molto più affettuosi, mi rispose. Insomma mi tolse definitivamente quell'identità che già a me sembrava sovradeterminata. Da quel momento ho smesso anche di tentare ogni tanto di parlare in triestino per gioco. Che poi i triestini siano più affettuosi di altri era un'idea pellegrina, Claudio non lo era affatto. Piuttosto era curioso. Chi ero, quanti anni avevo, cosa ci facevo lì, se ero davvero studente, il tutto con un pizzico di diffidenza che non ho mai capito da dove gli provenisse. Dato che allora, proprio come oggi, ero molto insicuro di me pensai che gli provenisse dal fatto che mi spacciavo per triestino senza esserlo in effetti, infatti non parlavo in triestino. Prese a comportarsi da subito da fratello maggiore e in effetti qualche anno in più li aveva.
Il vero personaggio era lui. Aveva sulle spalle un doppio tradimento. Quello verso la sua famiglia che lui accusava di essere una famiglia patriarcale, autoritaria, soffocante e stupida, e quella verso lo studio perché aveva abbandonato l'Università.
E' per questo che la terza parte del poemetto si chiama "Il tradimento di Claudio".
mercoledì 21 dicembre 2011
Cristoforo Colombo voleva arrivare in Oriente andandoci da Occidente. Buscar el levante por el poniente. Oggi stiamo assistendo a una sorprendente trasformazione. Sembra sempre più evidente che a spingersi verso Oriente si ritrova l'Occidente che stiamo perdendo. Certo la sorpresa per quegli amici della mia generazione che quaranta e più anni fa, Beatles compresi, partì per l'Oriente per trovarci l'Oriente, deve essere tanta. Sempre più ne tornano delusi. India e Cina, che complessivamente fanno quasi tre miliardi, sono sempre più occidentalizzati. Con un paradosso in più per la Cina che, paese sostanzialmente capitalistico, è governato da un partito comunista. Ma le città cinesi con i loro grattacieli in acciaio e cristallo ormai stanno sostituendo quelle americane anche nel nostro immaginario, la magia di New York infatti qui si ripete almeno una dozzina di volte in città grandiose sovrapopolate.
Fine dell'Oriente. Adesso che anche laggiù è Occidente e ci andiamo 'por el levante' non 'por el poniente' mi sento più in pace con me stesso. Ai richiami mitici dell'India degli anni sessanta infatti non ho mai concesso nulla imbevuto com'ero di americanismo. Che passava attraverso i film western, attraverso Cesare Pavese, i romanzi che traduceva, la sua poesia, attraverso infine, diciamo così, il mio personale fordismo gramsciano, dovuto a uno zio e a un cugino che lavoravano nei cantieri navali di Trieste, quando ancora c'erano nell'immediato dopoguerra, e a un camallo del porto di Genova, una delle persone più generose che io abbia mai conosciuto.
Cristoforo Colombo fece quattro viaggi in 'Oriente'. Rimase convinto fino alla morte che quello era l'Oriente, anzi le Indie, e non un altro continente che stava in mezzo fra l'Ovest e l'Est. Avesse avuto in mano i calcoli di Eratostene, che quasi milleottocento anni prima aveva calcolato con grande precisione la circonferenza della terra, si sarebbe reso conto che i tempi delle sue traversate erano troppo brevi per poter ritrovarsi in India. Colombo non ha fatto altro che estendere a Occidente l'Occidente. Che notoriamente è sempre stato più veloce dell'Oriente. Tanto è vero che, dopo aver aperto la strada, mezza Europa si è trasferita laggiù e ha occupato in breve il continente nuovo fino alla fine del West, impedendo di fatto che l'Oriente ci provasse da quella parte, limitandone i lenti tentativi alle coste della California.
Ma l'altro paradosso cui viene da pensare riguarda il movimento attuale delle popolazioni da Est verso l'Ovest. L'Oriente che sta diventando sempre più Occidente conosce un fenomeno classico dei processi di industrializzazione, l'immiserimento di larghi strati popolari da una parte, contadini, lavoratori del piccolo commercio nomade, piccoli proprietari di terra, bottegai, ma anche strati di popolazione istruita e con qualche specializzazione tecnica o intellettuale: tutti costoro finiscono con l'investire gli ultimi guadagni nel viaggio della speranza verso i paesi più ricchi e industrializzati da tempo.
Questa immigrazione di massa nei nostri paesi può dare ispirazione a una poesia epica moderna?
Quella della poesia epica e di un suo ritorno d'attualità sembra sia un dibattito abbastanza acceso. Non credo molto alle sue possibilità. Penso però che la poesia attuale non possa sottrarsi a 'sentire', in svariati modi, quanto sta succedendo. In questo senso credo che la poesia-racconto di Cesare Pavese, dalla quale sono personalmente partito nella mia formazione di scrittore di versi, abbia molto da dire ancora quanto a stilemi. Ad esempio appunto il suo verso di tredici e/o di sedici sillabe, mutuato in buona parte dal verso whitmaniano.
Fine dell'Oriente. Adesso che anche laggiù è Occidente e ci andiamo 'por el levante' non 'por el poniente' mi sento più in pace con me stesso. Ai richiami mitici dell'India degli anni sessanta infatti non ho mai concesso nulla imbevuto com'ero di americanismo. Che passava attraverso i film western, attraverso Cesare Pavese, i romanzi che traduceva, la sua poesia, attraverso infine, diciamo così, il mio personale fordismo gramsciano, dovuto a uno zio e a un cugino che lavoravano nei cantieri navali di Trieste, quando ancora c'erano nell'immediato dopoguerra, e a un camallo del porto di Genova, una delle persone più generose che io abbia mai conosciuto.
Cristoforo Colombo fece quattro viaggi in 'Oriente'. Rimase convinto fino alla morte che quello era l'Oriente, anzi le Indie, e non un altro continente che stava in mezzo fra l'Ovest e l'Est. Avesse avuto in mano i calcoli di Eratostene, che quasi milleottocento anni prima aveva calcolato con grande precisione la circonferenza della terra, si sarebbe reso conto che i tempi delle sue traversate erano troppo brevi per poter ritrovarsi in India. Colombo non ha fatto altro che estendere a Occidente l'Occidente. Che notoriamente è sempre stato più veloce dell'Oriente. Tanto è vero che, dopo aver aperto la strada, mezza Europa si è trasferita laggiù e ha occupato in breve il continente nuovo fino alla fine del West, impedendo di fatto che l'Oriente ci provasse da quella parte, limitandone i lenti tentativi alle coste della California.
Ma l'altro paradosso cui viene da pensare riguarda il movimento attuale delle popolazioni da Est verso l'Ovest. L'Oriente che sta diventando sempre più Occidente conosce un fenomeno classico dei processi di industrializzazione, l'immiserimento di larghi strati popolari da una parte, contadini, lavoratori del piccolo commercio nomade, piccoli proprietari di terra, bottegai, ma anche strati di popolazione istruita e con qualche specializzazione tecnica o intellettuale: tutti costoro finiscono con l'investire gli ultimi guadagni nel viaggio della speranza verso i paesi più ricchi e industrializzati da tempo.
Questa immigrazione di massa nei nostri paesi può dare ispirazione a una poesia epica moderna?
Quella della poesia epica e di un suo ritorno d'attualità sembra sia un dibattito abbastanza acceso. Non credo molto alle sue possibilità. Penso però che la poesia attuale non possa sottrarsi a 'sentire', in svariati modi, quanto sta succedendo. In questo senso credo che la poesia-racconto di Cesare Pavese, dalla quale sono personalmente partito nella mia formazione di scrittore di versi, abbia molto da dire ancora quanto a stilemi. Ad esempio appunto il suo verso di tredici e/o di sedici sillabe, mutuato in buona parte dal verso whitmaniano.
martedì 20 dicembre 2011
charley harper |
Di mio aggiungo che è una polifonia ottimistica. Anche l'amico N. è ottimista. Ce n'è bisogno! Lui dice che del bicchiere di vino vede sempre solo la metà piena (l'altra metà è vuota perché se l'è bevuta). Io non sono così ottimista in fondo all'animo ma sono molto ben disposto, mi basta poco, ad esempio sentire quel che dice N. sul suo bicchiere di vino, per diventarlo. Segno che anche nella mia formazione, come accade ai più, si è inceppato qualcosa a un certo punto. Si è infatti soliti dire: fino a quel momento tutto sembrava andare a meraviglia, poi... Già, poi, a un certo punto, succede qualcosa che ti rivela che la realtà non è tutta meraviglie. Però di meraviglie al mondo ce ne sono tante! Per questo forse vale la pena abbandonarsi comunque all'ottimismo. Capisco N. quando dice che Leopardi era un mollaccione. Lo dice perché Leopardi continua a mettere l'accento, lamentandosene col suo pessimismo esibito, sul fatto che il piacere infinito al quale tendiamo in realtà non esiste. E questo a N. non può certo andare giù. N. è cristiano e ottimisticamente un al di là infinito, comunque sia, lo intravede. Ma non dovette essere facile per un ateo in un paese di cattolicissimi moderati liberali trovare la giusta tonalità del discorso per dire che quelle erano vili illusioni. E che c'era tra l'altro poco da essere ottimisticamente rivolti verso 'le magnifiche sorti e progressive' che annunciavano. Anche se, molto meno pessimisticamente, lo stesso Leopardi, nel commentare lo stato delle cose in Francia, arrivava a dire più in generale che, nella modernità, nonostante la competizione persecutoria dell'uomo sull'uomo, le società riuscivano a riparare alla maggior parte dei danni che commettevano. Rileggere il 'Discorso sullo stato presente degli italiani' riserva ancora sorprese. Ma insomma Leopardi non era, se così si può dire, ottimista fino al punto di ritenere che c'era un al di là con qualche premio eterno per ciò che mancava di qua.
N. invece ci spera con ottimismo. Tanto più che persino gli dei dell'antica Grecia sembra gli abbiano mandato un segno favorevole. Egli racconta infatti che sull'acropoli, nel mezzo delle sue riflessioni, gli è comparsa una civetta!
Di più difficile interpretazione quanto è invece successo a me. Nel bel mezzo del piazzale antistante l'entrata delle meraviglie di Olimpia un vento improvviso ha scosso con violenza i rami degli alberi. Un ramo si è spezzato e mi ha colpito sul dorso della mano destra.
Forse volevano dirmi che non ero degno di entrare a Olimpia e di godere delle meraviglie prodotte da chi, al contrario di me, li venerava. O forse, essendosi trattato di un ramo e non dell'albero, volevano solo rimproverarmi. Di averli trascurati sin lì. Di non averli tenuti più in alcun conto prima col mio fragilissimo cattolicesimo poi col mio agnosticismo e poi col mio ateismo. Bene, ora, a distanza di qualche anno da quella visita, li ho persino onorati con questa memoria. Fine della storia.
domenica 11 dicembre 2011
I versi di mercoledi 30 novembre non funzionavano per niente. Non c'è niente di peggio che un primo verso brutto. La strofa l'avevo abbozzata questa estate ma era proprio una cosa bruttina. Tra l'altro era fuori tema perché avevo adoperato il passato remoto. In quel momento mi premeva di più l'occasione del ricordo, l'episodio di violenza di cui l'amico sardo era stato vittima, e le implicazioni che quel gesto oggi mi significano. Ma il primo verso che ho sistemato nella prima stesura del post del 30 nov. era bruttissimo. Continuavo ad aprire il blog per rileggerlo sperando in una mia conversione ma non c'è stato modo. Tutte le volte suonava pesante, ipermetro, senza suono, senza ritmo. Era così:
La squadra di operai irrompe sul piazzale delle passioni.
Eppure 'la squadra di operai' era necessaria, e necessario era 'il piazzale delle passioni'. Quanto a 'irrompe' era inevitabile. Ma dopo 'irrompe' sentivo necessaria una crasi, una cesura. Che era possibile. Ma poi 'sul piazzale delle passioni' non aveva la struttura di fine verso, sembrava più l'inizio di un altro. Portarlo a capo a farne l'inizio di un altro significava dare valore di verso compiuto a quanto rimaneva ma questo non mi tornava perché non era l'irrompere che mi interessava ma era l'irrompere nel piazzale delle passioni. 'Sul piazzale delle passioni' doveva essere ridotto a un numero di sillabe inferiore. Ad esempio così: sul piazza di passioni. Così: la squadra di operai irrompe sul piazza di passioni. Si tratta di un novenario più una cesura più un settenario.
La soluzione è sembrata venire l'altro giorno ed è quella che nel post in questione compare ora. Ma non ne sono affatto convinto. Il ritmo è strapazzato da tutte quelle zeta e esse. La soluzione ideale in questo momento mi sembra piuttosto questa: la squadra di operai irrompe sul piazzale. Un alessandrino! Quanto a 'delle passioni' ho l'impressione che dovrò rinunciarvi. Ma è troppo funzionale all'intero racconto e quindi andrà recuperato altrove. A meno di. A meno di questa soluzione:
Irrompe sul piazzale delle passioni,
la squadra di operai non tende un agguato,
colpiscono al corpo risparmiano il viso,
il giovane sardo che ama la greca
incassa in silenzio si affloscia nell'erba.
La squadra di greci addetta al montaggio
Tra l'ultima delle righe scritta, dove dice: 'A meno di. A meno di questa soluzione:' e l'ultimo verso della poesia poi riportata sono passate due ore! Però forse funziona. Soprattutto il primo verso, una volta scritto com'è poi ho ricostruito tutta la poesia sul suo ritmo.
La squadra di operai irrompe sul piazzale delle passioni.
Eppure 'la squadra di operai' era necessaria, e necessario era 'il piazzale delle passioni'. Quanto a 'irrompe' era inevitabile. Ma dopo 'irrompe' sentivo necessaria una crasi, una cesura. Che era possibile. Ma poi 'sul piazzale delle passioni' non aveva la struttura di fine verso, sembrava più l'inizio di un altro. Portarlo a capo a farne l'inizio di un altro significava dare valore di verso compiuto a quanto rimaneva ma questo non mi tornava perché non era l'irrompere che mi interessava ma era l'irrompere nel piazzale delle passioni. 'Sul piazzale delle passioni' doveva essere ridotto a un numero di sillabe inferiore. Ad esempio così: sul piazza di passioni. Così: la squadra di operai irrompe sul piazza di passioni. Si tratta di un novenario più una cesura più un settenario.
La soluzione è sembrata venire l'altro giorno ed è quella che nel post in questione compare ora. Ma non ne sono affatto convinto. Il ritmo è strapazzato da tutte quelle zeta e esse. La soluzione ideale in questo momento mi sembra piuttosto questa: la squadra di operai irrompe sul piazzale. Un alessandrino! Quanto a 'delle passioni' ho l'impressione che dovrò rinunciarvi. Ma è troppo funzionale all'intero racconto e quindi andrà recuperato altrove. A meno di. A meno di questa soluzione:
Irrompe sul piazzale delle passioni,
la squadra di operai non tende un agguato,
colpiscono al corpo risparmiano il viso,
il giovane sardo che ama la greca
incassa in silenzio si affloscia nell'erba.
La squadra di greci addetta al montaggio
in fabbrica strappa comando ai suoi capi
difende il salario nel ritmo pattuito
della catena – solo a chi è stanco sfugge
il ritmo accelerato senza maggiore compenso –,
sul piazzale la squadra difende l’antico diritto
dell’uso patriarcale, il possesso del corpo
e del cuore delle donne.
Tra l'ultima delle righe scritta, dove dice: 'A meno di. A meno di questa soluzione:' e l'ultimo verso della poesia poi riportata sono passate due ore! Però forse funziona. Soprattutto il primo verso, una volta scritto com'è poi ho ricostruito tutta la poesia sul suo ritmo.
non omnis moriar... Sperèmm, dice N.
Da pochi minuti è domenica 11 novembre.
Nel post del 26 novembre c'è un commento di una lettrice che lamenta la lunghezza della divagazione storica su Colonia. Dopo averla scritta mi sono chiesto anch'io perché ho sostato così a lungo a descrivere la guerra di Cesare. C'entrano i ricordi liceali. La solitudine di Schenk è nata come prosecuzione di quelle quartine che hanno per titolo Indicazioni e che non a caso userò nella stesura finale come prologo, come introduzione. Vi sono descritti attimi di vita liceale. La superstiziosa visita alla chiesetta prima delle lezioni, le soste liberatrici all'uscita, la pretesa della frase definitiva che doveva spiegare il mondo, gli appuntamenti dati, gli insegnanti. Tutto comincia lì. Poi, quasi come sua naturale prosecuzione, è scattata la memoria sui miei due anni successivi alla maturità e quindi il viaggio a Colonia. In qualche modo scrivere in righe sembra indurmi a sequenzialità logiche e temporali che con la poesia hanno poco a che spartire o che comunque di solito non rispetto. L'escursione storica sul limes romano sembra essere appunto una di queste concessioni. Che peraltro, a parte la seria probabilità di risultare noiosa, credo abbia una sua peculiare consistenza strutturale se riferita al mezzo di scrittura che adopero. Voglio dire che scrivere qui, dentro un blog, con l'idea che qualche sguardo estraneo lo attraversi da un momento all'altro, implica quasi naturalmente una rottura con una ricerca metodica e sequenziale, il blog sembra essere per sua natura disposto alle libere associazioni, alle connessioni le più lontane tra loro, anzi sembra provocarle come se si trattasse di scorrere un nastro il più velocemente possibile e cogliere all'istante il frammento di vita che mostri più senso o maggior forza di sopravvivenza, senza tenere conto del legame più o meno immediato con il frame precedente da cui si è partiti.
Già, perché poi, in gioco, cos'altro c'è in poesia? La misura della sua forza sta nella sua sopravvivenza, al di là della nostra stessa vita, cioè un dato del quale non sapremo mai nulla. Sul mio primo libretto universitario (rintracciato apposta nella ricostruzione dell'anno di Colonia) ho trovato scritto a matita in un angolino: Non omnis moriar, con relativa nota del numero dell'ode di Orazio. Un amico poeta noto e affermato, molto più avanti di me negli anni, è solito dire: speriamo! Si riferisce per l'appunto solo a questo: speriamo che i miei versi sopravvivano a me stesso! Lui però è anche cristiano e a una certa sopravvivenza in un al di là ci crede, probabilmente si chiede se da dove si troverà potrà dare un'occhiata all'esito futuro dei suoi versi (non ho capito bene in cosa consiste la sua aspettativa, credo che pensi a una sopravvivenza limitata a chi ha ben operato in vita, magari scrivendo appunto versi non caduchi...).
Scrivere torno a scrivere. Per lo più mi sembra di andare alla cieca. E non può che essere così. Per due motivi. Primo, perché scrivere è una necessità e considero ormai inutile perdere tempo a dare una spiegazione di essa. Secondo, perché la necessità primaria non è quella di una scrittura generica, è necessità di scrivere in versi e anche spiegare ciò è inutile perdita di tempo. Infine le righe, che accompagnano i versi che vengo scrivendo, sono una compagnia caldissima in attesa che venga il verso a dare inizio a un'altra strofa. Già mentre scrivo in righe compongo mentalmente versi che per lo più poi scarto. Se qualcuno di essi mi si ripresenta, anche durante la notte, ci lavoro su e prima o poi, se hanno qualcosa di convincente, diventa necessario dar loro corpo. A volte a dire il vero passano giorni, settimane.
Tutto comunque in effetti va avanti alla cieca. Scrivere devo, e in versi. Ogni tanto mi illudo che qualche senso tutto ciò ce l'abbia.
Nel post del 26 novembre c'è un commento di una lettrice che lamenta la lunghezza della divagazione storica su Colonia. Dopo averla scritta mi sono chiesto anch'io perché ho sostato così a lungo a descrivere la guerra di Cesare. C'entrano i ricordi liceali. La solitudine di Schenk è nata come prosecuzione di quelle quartine che hanno per titolo Indicazioni e che non a caso userò nella stesura finale come prologo, come introduzione. Vi sono descritti attimi di vita liceale. La superstiziosa visita alla chiesetta prima delle lezioni, le soste liberatrici all'uscita, la pretesa della frase definitiva che doveva spiegare il mondo, gli appuntamenti dati, gli insegnanti. Tutto comincia lì. Poi, quasi come sua naturale prosecuzione, è scattata la memoria sui miei due anni successivi alla maturità e quindi il viaggio a Colonia. In qualche modo scrivere in righe sembra indurmi a sequenzialità logiche e temporali che con la poesia hanno poco a che spartire o che comunque di solito non rispetto. L'escursione storica sul limes romano sembra essere appunto una di queste concessioni. Che peraltro, a parte la seria probabilità di risultare noiosa, credo abbia una sua peculiare consistenza strutturale se riferita al mezzo di scrittura che adopero. Voglio dire che scrivere qui, dentro un blog, con l'idea che qualche sguardo estraneo lo attraversi da un momento all'altro, implica quasi naturalmente una rottura con una ricerca metodica e sequenziale, il blog sembra essere per sua natura disposto alle libere associazioni, alle connessioni le più lontane tra loro, anzi sembra provocarle come se si trattasse di scorrere un nastro il più velocemente possibile e cogliere all'istante il frammento di vita che mostri più senso o maggior forza di sopravvivenza, senza tenere conto del legame più o meno immediato con il frame precedente da cui si è partiti.
Già, perché poi, in gioco, cos'altro c'è in poesia? La misura della sua forza sta nella sua sopravvivenza, al di là della nostra stessa vita, cioè un dato del quale non sapremo mai nulla. Sul mio primo libretto universitario (rintracciato apposta nella ricostruzione dell'anno di Colonia) ho trovato scritto a matita in un angolino: Non omnis moriar, con relativa nota del numero dell'ode di Orazio. Un amico poeta noto e affermato, molto più avanti di me negli anni, è solito dire: speriamo! Si riferisce per l'appunto solo a questo: speriamo che i miei versi sopravvivano a me stesso! Lui però è anche cristiano e a una certa sopravvivenza in un al di là ci crede, probabilmente si chiede se da dove si troverà potrà dare un'occhiata all'esito futuro dei suoi versi (non ho capito bene in cosa consiste la sua aspettativa, credo che pensi a una sopravvivenza limitata a chi ha ben operato in vita, magari scrivendo appunto versi non caduchi...).
Scrivere torno a scrivere. Per lo più mi sembra di andare alla cieca. E non può che essere così. Per due motivi. Primo, perché scrivere è una necessità e considero ormai inutile perdere tempo a dare una spiegazione di essa. Secondo, perché la necessità primaria non è quella di una scrittura generica, è necessità di scrivere in versi e anche spiegare ciò è inutile perdita di tempo. Infine le righe, che accompagnano i versi che vengo scrivendo, sono una compagnia caldissima in attesa che venga il verso a dare inizio a un'altra strofa. Già mentre scrivo in righe compongo mentalmente versi che per lo più poi scarto. Se qualcuno di essi mi si ripresenta, anche durante la notte, ci lavoro su e prima o poi, se hanno qualcosa di convincente, diventa necessario dar loro corpo. A volte a dire il vero passano giorni, settimane.
Tutto comunque in effetti va avanti alla cieca. Scrivere devo, e in versi. Ogni tanto mi illudo che qualche senso tutto ciò ce l'abbia.
sabato 10 dicembre 2011
L'americano m'insegnò a sfruttare un'opportunità che l'Università di Colonia offriva. Esisteva un arbeitsamt, un ufficio del lavoro, apposito per studenti. La camera del lavoro locale era in contatto con l'ufficio universitario e metteva a disposizione per studenti bisognosi (ma non necessariamente) lavoretti di una o mezza giornata, con paga sindacale e copertura sanitaria. Si trattava di fare la coda fuori dall'ufficio di primissimo mattino, depositare per terra il proprio libretto e attendere l'apertura. Gli addetti avrebbero raccolto tutti i libretti e chiamato i proprietari. La faccenda mi funzionò per diverse mattine, bisognava superare la diffidenza degli studenti che appena si rendevano conto che ero italiano e che competevo con loro nella distribuzione dei lavori brontolavano, facevano piccole bastardissime provocazioni. Facevo finta di niente, sfruttavo la non conoscenza della lingua per dare a intendere che non capivo le loro intenzioni. Ma se accadeva di incrociare con qualcuno lo sguardo tutto si smontava.
Era andata più penosamente il giorno dopo il mio approdo alla casa dello studente, quando ancora non conoscevo quella risorsa. Anche allora di primissimo mattino, attraversando la città piena di neve e di neve odorosa, di un odore che mi porto tuttora nelle narici, mi misi in cerca di un ufficio del lavoro generale. Ne conoscevo vagamente l'indirizzo, sapevo che ero nelle sue vicinanze quando mi imbattei in due veneti, in tutta evidenza due contadini, curvi e intabarrati. Non solo non ci fu nessuno scambio di affettuosità ma mi mandarono dalla parte opposta. Gira e rigira alla fine all'ufficio del lavoro ci arrivai comunque, i due erano lì che discutevano con altri italiani. Ci ignorammo. Anche perché mi resi subito conto che l'unica offerta di lavoro possibile riguardava la manovalanza generica nelle case in costruzione. Conoscevo per conto mio quel tipo di esperienza e non mi attraeva affatto. Sapevo che il lavoro era faticoso, pieno di rischi e dovevi essere disponibile a vivere per un periodo più o meno lungo, come per lo più accadeva ai lavoratori stranieri, nei baustelle, i cantieri edili. Non era rifiuto del lavoro manuale, era quel lavoro manuale lì che non ero disposto a fare. D'altra parte quella mattina mi resi conto che non ero in alcun modo della stessa pasta dei due calabresi ai quali in qualche modo quella situazione, quel luogo mi assimilava. Non solo perché non ero un contadino ma perché non ero davvero un emigrante come loro.
Era andata più penosamente il giorno dopo il mio approdo alla casa dello studente, quando ancora non conoscevo quella risorsa. Anche allora di primissimo mattino, attraversando la città piena di neve e di neve odorosa, di un odore che mi porto tuttora nelle narici, mi misi in cerca di un ufficio del lavoro generale. Ne conoscevo vagamente l'indirizzo, sapevo che ero nelle sue vicinanze quando mi imbattei in due veneti, in tutta evidenza due contadini, curvi e intabarrati. Non solo non ci fu nessuno scambio di affettuosità ma mi mandarono dalla parte opposta. Gira e rigira alla fine all'ufficio del lavoro ci arrivai comunque, i due erano lì che discutevano con altri italiani. Ci ignorammo. Anche perché mi resi subito conto che l'unica offerta di lavoro possibile riguardava la manovalanza generica nelle case in costruzione. Conoscevo per conto mio quel tipo di esperienza e non mi attraeva affatto. Sapevo che il lavoro era faticoso, pieno di rischi e dovevi essere disponibile a vivere per un periodo più o meno lungo, come per lo più accadeva ai lavoratori stranieri, nei baustelle, i cantieri edili. Non era rifiuto del lavoro manuale, era quel lavoro manuale lì che non ero disposto a fare. D'altra parte quella mattina mi resi conto che non ero in alcun modo della stessa pasta dei due calabresi ai quali in qualche modo quella situazione, quel luogo mi assimilava. Non solo perché non ero un contadino ma perché non ero davvero un emigrante come loro.
mercoledì 7 dicembre 2011
Sono partito per Colonia una sera d'inverno. Una volta sistemato sul treno mi sono addormentato. Al risveglio la giornata era cominciata da un pezzo e lo scompartimento era occupato da donne che chiacchieravano tra loro in tedesco. Non capivo ovviamente nulla. Lo stridore della loro lingua non mi colpiva più di tanto. Colonia sarebbe comparsa e sarei sceso, tutto qui. Aver dormito così serenamente probabilmente allora dovette avere un certo significato che ora, a distanza di cinquantanni, mi sfugge, ma non ci vuole molto a pensare che quel sonno aveva messo tra me e Milano una distanza che non era solo il numero di chilometri percorsi durante la notte.
Quando scesi alla stazione, che sembrava quella di Firenze, mi sbarazzai della valigia al deposito bagagli, mi infilai le mani in tasca e mi affacciai a guardare scorrere il Reno. I gabbiani gridavano all'uscita degli scarichi, c'era un discreto movimento di barconi a motore, la gente indaffarata. Poi mi avviai verso il Duomo, tenevo d'occhio le guglie per scegliere la strada. Durante la notte aveva nevicato abbondantemente, nonostante la mia disposizione d'animo a fare il turista non ci volle molto a convincermi che dovevo darmi da fare altrimenti. L'aria era fredda e la luce poca, mancava poco a mezzogiorno ma nuvole pesanti d'acqua e neve si raccoglievano e tutto faceva pensare che di lì a poco il buio e il freddo sarebbero aumentati. Mi diressi verso Nord e attraversai il centro della città e dopo un grande parco ricco di alberi e neve entrai nel quartiere universitario, così come indicava la cartina della città. La casa dello studente era accogliente. Pur senza spiccicare una parola di tedesco ottenni una sorta di salvacondotto grazie al quale potevo rimanere a dormire lì per una settimana. Tornai faticosamente alla stazione centrale ne ritirai la valigia e rifeci il percorso all'indietro, tutto a piedi, solo in seguito mi resi conto che la città era attraversata da una rete di tram e autobus molto efficienti e non costosi. Nella casa dello studente avevo un letto in una camerata grandissima e affollata. Un nero statunitense di proporzioni considerevoli mi prese un po' sotto balia. Mi offrì pane nero imburrato per cena. Aveva un'aria gioviale e sicura di sé. Siamo riusciti a comunicarci l'essenziale grazie all'uso di un paio di dizionarietti. Allora non me ne resi conto ma quanto gli confidai era la dimostrazione che il senso della mia presenza a Colonia non mi era ignoto come volevo dare a intendere a me stesso. Ancora oggi mi sorprende la lucidità con la quale gli dissi che era mia intenzione tornare in Italia per riprendere gli studi e segnatamente la letteratura italiana e la storia. L'americano continua a chiedere why e io tuttora non saprei come rispondergli di preciso. Non lo so oggi, non lo sapevo certo allora, però lo dissi, lo dissi con un pizzico di prosopopea come se stessi parlando di una profonda convinzione scientifica. Perché letteratura italiana e storia insieme? In qualche modo una spiegazione sarebbe venuta molto più tardi ma per il momento tutto ciò fu sufficiente per accreditarmi presso l'americano, bisonte nero super equipaggiato che girava le università europee per farsi una cultura prima di tornare al suo dottorato negli States. Chissà se è ancora vivo. Sarà in pensione come me.
Quando scesi alla stazione, che sembrava quella di Firenze, mi sbarazzai della valigia al deposito bagagli, mi infilai le mani in tasca e mi affacciai a guardare scorrere il Reno. I gabbiani gridavano all'uscita degli scarichi, c'era un discreto movimento di barconi a motore, la gente indaffarata. Poi mi avviai verso il Duomo, tenevo d'occhio le guglie per scegliere la strada. Durante la notte aveva nevicato abbondantemente, nonostante la mia disposizione d'animo a fare il turista non ci volle molto a convincermi che dovevo darmi da fare altrimenti. L'aria era fredda e la luce poca, mancava poco a mezzogiorno ma nuvole pesanti d'acqua e neve si raccoglievano e tutto faceva pensare che di lì a poco il buio e il freddo sarebbero aumentati. Mi diressi verso Nord e attraversai il centro della città e dopo un grande parco ricco di alberi e neve entrai nel quartiere universitario, così come indicava la cartina della città. La casa dello studente era accogliente. Pur senza spiccicare una parola di tedesco ottenni una sorta di salvacondotto grazie al quale potevo rimanere a dormire lì per una settimana. Tornai faticosamente alla stazione centrale ne ritirai la valigia e rifeci il percorso all'indietro, tutto a piedi, solo in seguito mi resi conto che la città era attraversata da una rete di tram e autobus molto efficienti e non costosi. Nella casa dello studente avevo un letto in una camerata grandissima e affollata. Un nero statunitense di proporzioni considerevoli mi prese un po' sotto balia. Mi offrì pane nero imburrato per cena. Aveva un'aria gioviale e sicura di sé. Siamo riusciti a comunicarci l'essenziale grazie all'uso di un paio di dizionarietti. Allora non me ne resi conto ma quanto gli confidai era la dimostrazione che il senso della mia presenza a Colonia non mi era ignoto come volevo dare a intendere a me stesso. Ancora oggi mi sorprende la lucidità con la quale gli dissi che era mia intenzione tornare in Italia per riprendere gli studi e segnatamente la letteratura italiana e la storia. L'americano continua a chiedere why e io tuttora non saprei come rispondergli di preciso. Non lo so oggi, non lo sapevo certo allora, però lo dissi, lo dissi con un pizzico di prosopopea come se stessi parlando di una profonda convinzione scientifica. Perché letteratura italiana e storia insieme? In qualche modo una spiegazione sarebbe venuta molto più tardi ma per il momento tutto ciò fu sufficiente per accreditarmi presso l'americano, bisonte nero super equipaggiato che girava le università europee per farsi una cultura prima di tornare al suo dottorato negli States. Chissà se è ancora vivo. Sarà in pensione come me.
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