mercoledì 5 giugno 2013

Nemmeno Leopardi, il poeta europeo più materialista del XIX secolo e verosimilmente di gran parte del XX, sfugge alla cultura antropologica cattolica della decadenza, quella per la quale in principio era il paradiso e poi è iniziata la caduta dal momento della scoperta della conoscenza e del piacere: che è poi per me abitatore del Novecento psicanalitico la discesa dall'utero alla luce di questo mondo. Anche lui ci infilza dentro un mondo decadente, quello decaduto dal rapporto più intimo con la natura, che sopravvive in una seconda natura, la nostra civiltà, con rammarichi e nostalgie, dimodoché la poesia si sostanzia anzitutto delle rimembranze del mondo primigenio, che poi era appunto quello paradisiaco dell'utero materno dove non esistevano bisogni e necessità. Ne conseguirebbe che i padri non fanno che alimentare con i figli questa decadenza. I figli, secondo questa logica, non farebbero altro che acuire la perdita. Non è così. I padri, comunque vadano le cose, deluderanno i propri figli. Ma non perché non sono in grado di garantirgli il ritorno alle fonti originarie della felicità ma solo perché i figli  apriranno percorsi diversi e sconosciuti alla loro ricerca: si avvieranno faticosamente su strade che i padri difficilmente riconosceranno come proprie ed essi soffriranno per il distacco da quelle dei padri. Il nuovo mondo. C'è sempre un nuovo mondo all'angolo degli occhi e della mente. Beati quegli anziani di turno che non se  lo lasciano scappare. Ci sono. Ascoltano i figli e da loro imparano, i figli li sopportano con qualche disagio ma anche loro devono accettare il proprio fardello, accettare che il nuovo in qualche modo procede dall'antico, che non significa né subirlo né amarlo senza condizioni.

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