Dal numero 6 di Overleft *
In un articolo, apparso nel lontano 1954 sulla ‘Gazzetta di Parma’ [2] intitolato ‘Il libro per la sera’, Attilio Bertolucci confida al lettore l’abitudine antica e amatissima di portarsi un libro in ‘camera da letto’, la sera, ‘per una lettura intima, che consoli della giornata finita e aiuti contro la notte imminente’. Il libro per le sere della sua lunga infanzia e adolescenza, confessa poi, è stato quasi esclusivamente un romanzo, anzi ‘il’ romanzo, La ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, tanto che Bertolucci, in chiusura di articolo, si sente in dovere di giustificare la mancata citazione di ‘almeno un libro di versi’. E, proprio ragionando sulla poesia, il poeta conclude con una nota su di essa: privilegio supremo della poesia, insieme alla musica, è quello di donare una ‘sequenza di versi incorruttibili e indistruttibili’ che rappresentano una ‘gioia per sempre incarnata in noi sino alla morte’.
La lunga operosa fatica del poeta del ‘romanzo famigliare in versi’, che durerà trent’anni, dal 1957 al 1988, anno della pubblicazione del secondo e ultimo libro col titolo ‘La camera da letto’, sembra possedere in sé la strenua volontà di donare al lettore italiano di fine novecento quella sequenza di ‘versi incorruttibili e indistruttibili’ che, calati nella forma del poema epico-lirico, vadano ad aggiungersi,
romanzo tra i romanzi, al ‘libro della sera’.
romanzo tra i romanzi, al ‘libro della sera’.
‘Che consoli della giornata finita e aiuti contro la notte imminente’.
Che conforti, rammemorandola, della frazione di vita irrimediabilmente trascorsa e conceda di prolungare il tempo della luce fino a sporgersi nel territorio della notte.
Il dono di una poesia che consoli dell’impossibilità di arrestare il Tempo.
Il poeta, nel dire il proprio personale romanzo in versi (con al centro se stesso e i propri affetti familiari), non potrà che avere il tono dolente, armato di pietas, di chi, consapevole della caducità della condizione umana, osserva compiersi il proprio destino in un processo inarrestabile. Il tono della voce dovrà evitare strilli o acuti affinché il sentimento inconsolabile della fine di una giornata, e dell’avvento della morte apparente del sonno, non finisca col cedere alla disperazione; dovrà quella voce echeggiare piuttosto che rimbombare, scaldare piuttosto che bruciare. Sarà una voce cordiale, colloquiale, intima. Che riuscirà però a dire l’inesauribile amore per la vita, la luce, la poesia. In questo modo quella voce consolatoria riuscirà a ingannare la notte prolungando la luce ravvivandola proprio nel momento in cui la carne sta per cedere all’abbraccio del sonno. Saprà accompagnarci sin oltre le soglie del buio.
Nell’atmosfera in cui il poeta invita il lettore il mondo reale è rivestito d’una coltre diafana e preziosa che nello smorzare i toni più accesi libera mille composizioni di colori pastello. Siamo nel mondo della rêverie, un mondo a metà tra sogno e realtà, un territorio che si stende negli interstizi tra luce e ombra, tra giorno e notte, tra vita e morte. Dove il paesaggio affascina inquietando, seduce e turba, spaventa e attrae.
E’ un luogo dell’animo e del corpo, che è tutt’uno col mondo poetico di Bertolucci, nel quale è possibile il godimento di momenti di sospensione dello scorrere inesauribile e inarrestabile del tempo, come extrasistoli della coscienza [3] in cui la mente può per un attimo perdersi al sicuro nella luce: avviene così in ‘Il bambino che va a scuola, a sei anni’ (terza sequenza del capitolo XI) [4]: ‘sul mattone poroso della soglia’ di casa il bambino viene assalito da una voglia di non muoversi più, di smarrirsi, dimenticando la fame e la stanchezza, godendo “... la luce / che assorbita dalla grana del muro / vicinissimo agli occhi, si fa / incendio, guancia amata, geranio, / su cui s’affissa, e perde, la mente.”.
E’ una ricerca solitaria (che tiene Bertolucci volutamente separato dalle correnti e dalle scuole poetiche novecentesche) nella quale il poeta cerca e trova un risarcimento alle ansie e alle ferite procurate dal mondo reale. E’ un territorio franco, avventuroso per le gaggie che crescono perdutamente: non sui campi ben coltivati dei proprietari terrieri e nemmeno sui campi dei servi o dei contadini poveri ma negli spazi selvatici:‘...specie a sé / che vigoreggia senza cura di nessuno / in terreni mal esposti e trascurati.’ [5]
E' il luogo dove è ancora possibile mostrarsi grati alla sorte per aver conosciuto il sole, l’acqua, il vento, il fuoco della campagna; per aver conosciuto affetti familiari quotidiani: le tenere ansie causate dagli abbandoni nella fanciullezza, il calore della cena a famiglia riunita, l’avventura della scoperta della sessualità e poi dell’amore, i piaceri e le angosce della paternità. Un mondo separato da dire sottovoce perché il tempo reale, quello del neocapitalismo e del consumismo incombenti a partire dagli anni ’50, tutto ciò brucia e relega all’angolo.
Il lettore, attutito il sentimento troppo acuto della sofferenza esistenziale, lascerà che il poeta lo introduca in un lungo viaggio della memoria. I capitoli ( in tutto 46 per 9400 versi), divisi in sequenze, lo accompagneranno dentro vicende tristi e liete: prima tra gli antenati di Bertolucci, poi nelle tappe successive della sua formazione e della scoperta della vocazione al ‘vizio consolatorio della poesia’ [6], poi tra le ansie, le ferite ma anche le felicità familiari come figlio marito e padre. Sentirà il tono dolente di chi assiste impotente al lento ‘dissanguarsi dei giorni’ [7], alla loro perdita, sperpero e consunzione ma contemporaneamente lo accompagnerà la volontà affettuosa e amichevole del poeta di rallentare, di fermare il tempo.
Col tono disincantato dell’uomo maturo che ci accompagni in visita a una sua antica ma lussuosa dimora della quale si intuiscono ancora, per le suppellettili rimaste e le decorazioni, la bellezza e la ricchezza ormai definitivamente trascorse e perdute, il poeta si soffermerà volentieri sulle vicende che l’hanno animata, si abbandonerà volentieri ai ricordi, tanto che finirà col prevalere in lui ( e in noi che leggiamo), al di là del disincanto e del rammarico dolente, quell’intenso piacere, appena velato dal pudore e talvolta dall’ironia che intervengono a evitare il rischio del narcisismo ( o addirittura del ‘divino egoismo’ amorevolmente imputatogli da Sereni [8]), che gli procurano lo scavare e il sostare nella memoria del proprio vissuto.
Bertolucci, sulle orme di Proust, si concede a un lavorio paziente, a volte ossessivo, in una sorta di pedinamento vigile della memoria, pronto a prenderla di soprassalto, capace com’è, ‘intermittente e infida’ (cap. XV, Viaggio alla terra dei sigari [9]), di mascherature e rimozioni. Nello strappare alla memoria “un altro giorno bello o brutto, sempre degno di lode e di rimpianto” [10], si prolunga il tempo, lo si costringe a rallentare. Perché vengono recuperati attimi di vita che si erano perduti. Veniamo allora trasportati in una dimensione ora favolosa, ora epica, ora elegiaca in cui ogni attimo, ogni giorno, ogni stagione, tra città e campagna, tra gioie e affanni, tra malattia e salute, tra ozio e lavoro, vengono raccolti e fatti pulsare nel verso.
Quel verso non potrà fare a meno di trascinare con sé ossimoricamente l’angoscia del consumarsi della vita. Per grande che sia il materiale che Bertolucci riesce a strappare alla memoria, in un gioco che potrebbe durare all’infinito, il verso (che per stare dietro all’ingordo desiderio di recupero memoriale si prolunga all’infinito per coordinate e subordinate, con una tecnica di accumulo ansioso che va, a mio parere, oltre la misura ordinata della sintassi latina che alcuni critici hanno intravisto, ma che mette sicuramente fine a qualsiasi metrica di scuola) il verso, dicevo, non smetterà mai di germinare anche da quella consapevolezza. E accanto agli dei benigni suscitati in noi dalla “riga cangiante delle anatre in marcia” [11], ci saranno sempre i fantasmi liberati da voli di passeri imprigionati negli specchi, volando via dai quali lasciano “laghi azzurri di morte” [12].
Né le ironiche considerazioni sulla propria condizione di ‘medio proprietario agrario’ possono evitare che lo sguardo del poeta, quando si posa sulla campagna ordinata e fiorente della pianura intorno a Parma, tradisca qualche nostalgia per l’ormai vecchio mondo patriarcale che sta morendo, lasciando il posto alle più efferate e rapinose logiche del profitto e, aggiungiamo noi, a una critica più approfondita che di quel patriarcato mostrerà aspetti tanto poco nobili quanto insospettati [13]. Né il sensibilissimo verso può sfuggire all’eco di un presente nel quale sono tramontate da tempo l’epica e l’elegia. Quando nella scrittura il tono della voce è tentato da slanci di questo genere, la coscienza del poeta interviene a ristabilire l’equilibrio. E il linguaggio, in anticlimax, torna a essere colloquiale, domestico, feriale.
Tutto ciò contribuisce a dare al poema quella dimensione di mezzo tra slanci lirici dell’immaginazione e prosa quotidiana della realtà [14] nella quale viene tessuta una sorta di autobiografia sognata [15]. Al lettore resta tuttavia qualcosa in più. E’ il brivido di sottile piacere per l’esistenza. Che giunge a noi dalle carezze del vento, dalla tenerezza del rosa e del celeste delle sere, dalle piogge tiepide come lacrime, dalle nebbie molli come lana calda che si straccia al sole, dal lucore umido del sole sui selciati. E, con altrettanto piacere, dagli affetti scambievoli, dalle pene solitarie, dalle vicende pubbliche; Bertolucci mette tutto in mostra, espone con coraggio tutto se stesso senza scadere nell’esibizione: il suo vissuto personale fino a toccare l’intimità, la sua vita pubblica fino a rasentare la Storia. Con delicata sobrietà, come dice il critico Raffaeli [16]. Ma infine invita, sia pure con pudore anti-novecentesco, al vizio di vivere, al vizio della luce prima del sonno. Il volo dei versi di Bertolucci, e non solo ne ‘La camera da letto’, è come quello degli uccelli che segnano l’ora che trascorre stampando sul terreno la loro “ombra fuggitiva” [17] La loro ombra così sottile, inconsistente e rapida si staglia comunque sul terreno grazie alla luce del sole. Nella complessità di un testo che come pochi ci ha “tanto nutriti e appagati” [18] è “il miele della luce” [19]quello che conta. E’ l’ostinata volontà di “ripetere la luce” già presente in “Viaggio d’inverno” [20]. Perché ne brillino anche i mucchi d’immondizia come ancora in “Viaggio d’inverno” , o il letame fino a renderlo di rame o d’oro ne “La camera da letto” [21]. Nell’amatissima campagna, nella quale è sempre concretamente presente la mai redenta (nemmeno dalla lotta di classe) fatica dei contadini, la luce, fuori da qualsiasi metafisica, è semplicemente motivo di gioia, di speranza, di vita. Lo sguardo, acuto e mobile, è impegnato con un piacere tutto fisico a coglierla nelle più minute manifestazioni della natura [22]: nell’avventurarsi luminescente dell’acqua tra le pietre dei torrenti, nello scintillio segreto delle zolle appena aperte, nel luccichio notturno delle ragnatele bagnate e delle bave delle lumache. In qualsiasi ora del giorno: nel “pallore delle albe” [23], nei “mezzogiorni frananti dall’azzurro” [24], nei “tramonti smerigliati” [25].
* Il saggio, in versione un po' diversa, è comparso la prima volta nel 2001 su La mosca di Milano.
NOTE
[1]Ora in: A. B., Opere, Mondadori, 1997, pag. 469 - 807.
[2] Sta in Aritmie, Opere, cit., pag. 990.
[3] ‘Poetica dell’extrasistole’, è titolo del saggio che apre l’intera raccolta
di prose ‘Aritmie’.
[4] A. B., La camera da letto, cit., pag. 540.
[5] A. B., La camera da letto, cit., pag. 619.
[6] A. B., La camera da letto, cit., pag. 653
[7] E’ uno dei temi ricorrenti nell’intera opera di B., vedi ad es. Viaggio d’inverno,
Opere, cit., pag. 251. E’ un’opera del 1971.
[8] Vedi ‘A Parma con A. B.’, in Stella variabile: V. Sereni,Tutte le poesie, Mon-
dadori, 1986.
[9] A. B., La camera da letto, cit., pag. 565.
[10] A. B., La camera da letto, cit., pag. 523.
[11] A. B., La camera da letto, cit., pag. 538.
[12] A. B., La camera da letto, cit., pag. 596.
[13] Mi riferisco alla letteratura critica di matrice femminista con la quale è stato
evidenziato il ruolo di sopraffazione del maschio sulla donna che l’ha relegata
al margine nel mondo sociale, politico e artistico della cultura patriarcale.
[14]Parlando dei lavori in corso intorno al poema B., scrivendo a Sereni il 30 dicem-
bre 1970, così si esprime:”...le sequenze...partono bassissime (dover dire che ‘una
mattina di giugno del ‘30 la sorella della ragazza amata prima di venire in spiaggia
passa dalla farmacia...’) per poi impennarsi e finire chi sa dove...”. Si trova in A.
Bertolucci V. Sereni, Una lunga amicizia, lettere 1938 - 1982, Garzanti, 1994.
[15] E’ Bertolucci stesso a parlare del suo poema in termini di ‘longue rêverie’. Lo
fa anche scrivendo a Sereni, vedi ad es. la lettera dell’aprile 1965 da Roma:’Sto
scrivendo il mio poema...un po’ in sogno’.
[16] ‘Versi votati al più sobrio dei sublimi’: così definisce la poesia di B. M.Raffaeli
su Il manifesto, 15 giugno 2000.
[17] A. B., La capanna indiana:, Opere, cit., pag. 140. E’ un’opera del 1951.
[18] Così P. Lagazzi in Rêverie e destino, l’opera di A. Bertolucci, Garzanti, 1993,
che numerose considerazioni dedica proprio alla ‘luce’ nell’opera di B..
[19] A. B., La camera da letto, Opere, cit., pag. 592
[20] A.B., Viaggio d’inverno, Opere, cit., pag. 242. La raccolta è del 1971.
[21] A. B.,La camera da letto, Opere, cit., pag. 718.
[22] Interlocutrice fedele per B. risulta essere appunto la natura anche in Cinque
storie stilistiche, di A. Girardi, Marietti.
[23] A. B.,La camera da letto, Opere, cit., pag. 469
[24] A. B.,La camera da letto, Opere, cit., pag. 554
[25] A. B., La camera da letto, Opere, cit., pag. 470.
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