lunedì 12 dicembre 2016

Lettera a un amico degli anni sessanta

Da I contorni delle cose (Stampa2009, Azzate, 2010)
(dalla sezione L'imperfezione dello sguardo)

Mi hai detto: fatti vivo!
Non ch’io fossi morto non ho risposto.
Mi hai detto: novità?
Non ch’io fossi vivo ho tremato.
Ti sei ritratto poi sparito con un gesto
lontano elegante degli occhi
neanche t’avessi urlato io la mia presenza
( o è così?)
per questi vent’anni
che non ci siamo visti mai né sfiorati.

Ti ho scritto una lettera stupita
all’indirizzo vecchio
di quando giù al Vigentino
tra forre e sterpeti mostravi con cura
piccole proprietà, la Legnano cromata
la racchetta di budella cordata.
Mi scoprivo allora primitivo comunista
perché  a incipiente consumismo
più nuda pareva doversi da noi
la testimonianza.

No. Nessuna novità.
Curo oggi ai ragazzi proprietà piccole
col mio stipendio di docente.
Ma sono più nudo di prima.
Comunismo non si grida più
biciclette comprate tre
rubate tutte.
Non che la curi
la tua risposta, credo non verrà.

Fatti morto, volevi forse dire.

lunedì 28 novembre 2016

Hai baciato più di un rospo


Da I contorni delle cose (Stampa2009, Azzate, 2010)
(dalla sezione Diario sentimentale)

Hai baciato più di un rospo
prima di baciare me, l'unico
a tornare libero dall’incantesimo. 

Adesso non ricordo bene,
orizzonti e origini erano diversi,
ma il senso era quello,
un rincorrersi di prede e cacciatori in ruoli scambievoli.
Qui la guerra è più feroce, ti dicevo, 

ma anche qui ci sono femmine
che prima o poi
riconoscono i propri maschi. 

domenica 27 novembre 2016

Il femminismo in una grande manifestazione a Roma

Lea Melandri
Il femminismo in una grande manifestazione a Roma

Valeva la pena aspettare dieci anni per ritrovarci di nuovo in tante e
poter dire che siamo un movimento, anche solo per un giorno, e non
solo una rete virtuale, anche se le reti ci sono state di aiuto come
spinta a uscire dalla carsicità.
Confluire in massa in una storica piazza di tutte le proteste, quale è
piazza San Giovanni a Roma, è sicuramente il modo più felice per
rispondere a una ricorrenza, come il 25 novembre, che felice non è.
Una manifestazione come quella di oggi, come quelle che si sono
succedute da quarant’anni a questa parte, devono darci il coraggio di
dire che il femminismo, in tutta la varietà delle sue pratiche, dei
suoi gruppi, collettivi, associazioni, ecc –o forse proprio per questa
varietà- è l’unico movimento sopravvissuto agli anni ’70, l’unico che
nonostante la messa sotto silenzio, l’ostilità che incontra nel nostro
Paese in particolare, non ha mai smesso di riempire le piazze con
donne di generazioni diverse, che non ha mai smesso, pur con tante
contraddizioni, di ripresentarsi con la radicalità dei suoi inizi.

Non mi soffermerò sulle tante ragioni che ci hanno portato qui. Sulla
violenza sappiamo molto, molto abbiamo detto e scritto analizzato, sia
sulle sue forme manifeste -stupri, omicidi, maltrattamenti- sia su
quelle meno visibili e perciò più subdole, più ambigue, che passano
nella “normalità”, nel senso comune, nei gesti e nelle parole della
quotidianità, e dell’amore così come lo abbiamo inteso o male inteso
finora. Non si uccide per amore, ma l’amore c’entra, c’entrano quei
vincoli di indispensabilità reciproca presenti anche là dove non ce
n’è bisogno, c’entra l’infantilizzazione dei rapporti all’interno
delle famiglie. Di quanto sia complesso liberarsi di rapporti di
potere che si sono confusi con le esperienze più intime, sappiamo
molto e molto dovremo ancora scoprire, analizzare.

Ma c’è un altro modo per parlare della violenza, che viene visto meno.
E’ il fatto che da mezzo secolo a questa parte, le donne hanno dato
vita a una cultura e a pratiche politiche per contrastare la violenza
maschile in tutte le sue forme,a partire da quei segni profondi che ha
lasciato dentro di noi, costrette a incorporare quella stessa visione
del mondo che ci ha segregate fuori dalla vita pubblica, identificate
con la natura, il corpo, la conservazione della specie. Abbiamo
scritto e detto più volte che il sessismo è l’atto di nascita della
politica, intendendo con questo sottolineare che il rapporto di potere
tra i sessi è l’impianto originario di tutte le oppressioni e
disuguaglianze che la storia ha conosciuto.

Forse è il momento di dire con chiarezza quello che non siamo più
disposte a tollerare:
-che questo patrimonio di sapere, consapevolezze, studi, battaglie
vinte venga messo sotto silenzio, lasciato negli archivi e che
qualcuno ancora si permetta dire che il femminismo è morto o
silenzioso;
-che quando interviene una “parola pubblica” a istituzionalizzare
pratiche nate dal femminismo, come i consultori, i centri
antiviolenza, ciò significhi emarginare le persone che vi hanno dato
vita, cancellare l’autonomia delle pratiche che li ha caratterizzati.
Mi riferisco al Piano straordinario contro la violenza sessuale e di
genere dove i centri antiviolenza finiscono per essere confusi con il
Terzo settore, i servizi sociali.
-che si parli tanto di educazione di genere e si lascino le donne che
insegnano, quasi tutte precarie, a dover affrontare campagne
denigratorie da parte di presidi e famiglie, rischiare il posto di
lavoro, affrontare temi che richiedono una formazione, senza avere la
certezza di finanziamenti al riguardo.

Siamo qui per dire che non dimentichiamo le donne che la violenza
l’hanno subita nella sua forma più selvaggia, ma che non vogliamo più
leggere su un giornale o sentire in un commento televisivo che sono
“vittime” della passione o della gelosia di un uomo. Sono donne che
hanno pagato il prezzo di una affermazione di libertà: quella,
inconsueta per un dominio maschile secolare, della donna che dice “Io
decido” della mia vita, della mia sessualità, di avere o non avere
figli.

Vorrei che ci portassimo a casa questi due bellissimi slogan –“Io
decido”, “Non una in meno”- per dire che continueremo a batterci
contro imposizioni esterne, controlli, divieti, intimidazioni, ma
anche per la liberazione da modelli, pregiudizi, leggi non scritte che
ci portiamo dentro e che ci impediscono di trovare la forza collettiva
di cui abbiamo bisogno. Se non possiamo condividere la varietà delle
nostre pratiche, teniamoci almeno disponibili a momenti come questo e
forse riusciremo a trovare quei “nessi” che legano la specificità dei
nostri interessi, delle nostre esperienze, delle nostre storie.

mercoledì 26 ottobre 2016

Cenacolo S: Eustorgio

CENACOLO S. EUSTORGIO, PIAZZA MISSORI
IL 3 NOVEMBRE (contrariamente al solito ALLE ORE 18,30)
LEGGONO G. PRESTINONI, P. RABISSI, C. RECALCATI
Incontri e letture di poesia e narrativa
CENACOLO S. EUSTORGIO
Incontri e letture di poesia e narrativa
Nel tentativo di instaurare un circolo virtuoso "poesia e solidarietà" ed anche... per sfatare la diceria che " poeti e scrittori fanno solo poesia, narrativa e nulla di più concreto", agli autori che leggono i loro testi nel corso dei programmi organizzati dal Cenacolo Sant'Eustorgio, viene chiesto, su base assolutamente libera e volontaria, di dare un contributo in denaro o in opere, secondo le possibilità di ciascuno, a qualsiasi associazione, gruppo, o altro di loro scelta che in qualunque ambito faccia del volontariato sociale e della solidarietà umana la propria ragione di esistere e di operare. Nessun controllo viene effettuato dal Cenacolo Sant'Eustorgio nè prima nè dopo gli incontri per accertare se l'autore ha o meno versato il contributo
AVVISI
Comunicato stampa
La Libreria Esoterica ed il Cenacolo Sant'Eustorgio promuovono iniziative di solidarietà con la vendita di libri e di elaborati preparati e/o donati dagli autori e dai frequentatori del Sant'Eustorgio, il cui ricavato sarà destinato a finanziare attività di varie Onlus.
Proseguono anche nel 2016 le molteplici iniziative di sostegno, avviate con successo negli anni scorsi, di cui trovate documentazione nelle pagine dei programmi precedenti
Siamo tutti invitati ad essere generosi. Grazie!!!

lunedì 24 ottobre 2016

Da Paolo Rabissi, I contorni delle cose, Edizioni Stampa 2009, Azzate (VA), 2010

(dalla sezione Diario sentimentale, 2006-2008)


Allora ti sei fatta salamandra
hai attraversato un fuoco freddo
dici che sei scesa nella tua solitudine
tumulto di voci scelte
sfida e riparo.
L’insorgenza scandiva gesti
ora uguali ora avversi
al destino dell’eco e dello specchio.
La città disponeva i suoi notturni,
posta in gioco la metamorfosi finale,
tra l'io e il noi l'alleanza difficile.

mercoledì 19 ottobre 2016

Il premio Nobel a Bob Dylan

                                                                 (disegno da Hokusai)

Con l’attribuzione del Nobel a Bob Dylan la giuria dell’Accademia di Svezia allarga il perimetro letterario alle forme musicali popolari e colte riscoprendo e innovando una  millenaria tradizione di commistione fra le arti, abbandonata da secoli nei contesti perlopiù accademici,  ma presente e viva in altri contesti culturali (i grandi cantori brasiliani per esempio). La scelta, che reitera quella compiuta a suo tempo con Dario Fo, si pone nel solco di un allargamento delle tradizioni della modernità senza indulgere a derive postmoderniste, di intrattenimento e minimaliste (Stephen King, Dan Brown, A. Baricco).

Noi accogliamo con favore l’evento perché ci sembra che questo allargamento non possa che essere fecondo per le sorti della poesia, di quella italiana in particolare nella quale ci sembra, la cautela è d’obbligo, di poter cogliere segni concreti di tentativi di disegnare nuovi percorsi.
Tali tentativi, troppo spesso timidi, sono condizionati da un lato da politiche editoriali di pura sopravvivenza, dall’altro dalla resistenza da parte degli autori a lasciarsi definitivamente alle spalle il peso di forme espressive e di contenuti esausti, salvo poi lasciarsi andare a un nauseante piagnisteo sulle sorti derelitte della ‘vera poesia’.

Al di là delle opinioni e al di là della critica che abbiamo da tempo riservato ai premi e al Nobel in particolare, riteniamo che questa sia una buona occasione per porre alla poesia domande diverse.
Paolo Rabissi e Franco Romanò

(il nostro ragionamento resta per noi valido qualunque sia la scelta di Dylan sull'accettazione o meno del premio. Del resto è consapevolezza comune che si tratta di un riconoscimento tardivo e che il premio avrebbe avuto ben altro senso negli stessi anni settanta). 

domenica 4 settembre 2016

Seconda, terza e quarta strofa del capitolo terzo "Di signoria e servitù, la mutazione che prende avvio dal desiderio"

- Lo hobo per tranquillità borghese è qualificato come un mendicante, è invece il classico lavoratore migrante da sempre nel panorama americano espulso dalla fabbrica per via del suo amore per la libertà. Nomade ribelle per eccellenza ha riempito le cronache soprattutto nei periodi di depressione. Negli anni trenta e poi nei cinquanta era un’icona del rifiuto del lavoro e quindi considerato pericoloso per la comunità tanto che gli si sparava a vista (e spesso una uguale risposta non mancava). Gli hoboes hanno reso leggendario il treno. Nelle infinite versioni di musica country il Wabash Cannoball (qualcosa di simile è La locomotiva di Guccini) attraversa rombando le praterie e va così veloce che arriva un’ora prima di quando è partito (un gioco verosimile per via dei fusi orari diversi tra i vari stati americani distesi tra Est e Ovest)! Impossibilitato a frenare è deragliato nello spazio dove viaggia tuttora lanciando sulla notte del pianeta il suo fischio che tutte le stazioni d’America sentono.
- Duluth è la cittadina dove è nato Bob Dylan.


              Hi Hobo! Parte presto come sempre
da  Grand Central Station il treno per i deserti
a Ovest ovunque (visiteresti il gran raduno annuale
degli hoboes a Britt?). Precario di grandi e piccole
depressioni non c’è più posto per te alla catena
di grandi città dove contendi comando
sul lavoro, ti spettano periferie e cinture
della ruggine da Detroit al Minnesota.
Ma dico deserti e non troverai una sola
Maggie’s farm dove fare per pochi dollari
lo schiavo per un giorno con la guardia nazionale
sulla porta, di sicuro non ti avverrà di incontrare
sulla strada per Duluth il bardo che cantava
sul punto di cambiare il nostro tempo. Né
sicuramente potrai cavalcare tronchi di rosse
sequoie sui merci scoperti col rischio che un Jeff
Carr qualsiasi ti tiri giù a scoppiettate. Nè rischierai
di affumicarti per scaldarti sulla pensilina
del Wabash Cannonball il treno che fiammeggiava
nelle praterie.


Oh, listen to the jingle, the rumble and the roar
As she glides along the woodland, over hills and by the shore
Hear the mighty rush of the engine, hear the lonesome hobo’s call
travelling through the jungles on the Wabash Cannon Ball


Hi Hobo! Nomade di binari, ci credi se
ti dico che nel lontano Est nelle pianure
dello Jilin c’è la stessa cintura di ruggine,
fabbriche morte deserti affanni di uomini  e donne
per avenue povere dove bisogna
essere disgraziati e forti, fratelli e nemici
di cani, attorno a bracieri di strada?
Calma, il promoter dice che occorre guardare
da sotto, dalla parte dell’erba che cresce,
laggiù come qui sfoltiscono ma poi spenderanno
tutti di più. Vedi? Il desiderio
è sempre quello - attento ora - la remissione
empatica dei tuoi bollori desideranti
dentro uno spaziotempo di orologi fermi,
di stomaci vuoti, l’increspatura dell’orizzonte
finché lo sguardo scavalca la luce e ti ritrovi
a succhiare foglie di coca o a squadrare quanto
resta dell’orto. Insomma vuoi che tutto torni come
prima? E che mutazione è quella che rinvia in archivio
le nano tecnologie o le sfumature dei cristalli
nei tramonti del Connecticut o della vecchia Manciuria?

domenica 24 luglio 2016

La resistenza del sole


A nuotare con il sole nascente 
negli occhi i raggi oppongono 
resistenza, fai più fatica 
e sei più lento, diversamente
quando hai il sole alle spalle 
i suoi raggi ti sospingono
le bracciate sono più sciolte e veloci. 
Ma non si può nuotare sempre 
verso Occidente il risultato è sempre 
quello di imbattersi nelle Americhe.

sabato 2 luglio 2016

Ottava strofa del capitolo terzo: "Di signoria e servitù, la mutazione che prende avvio dal desiderio"


(tralascio Gaetano figlio di un dio abbandonato
nei campi chiaro un occhio e uno scuro, capelli
bianchi molli, sfrondava mandorli e olivi – occorre
fare luce tra i rami anche a costo della nidiata
tra santo Spirito e Bitonto col suo sorriso greco
metteva piantine di pomodoro nella buca
e non so dire l’eleganza della mano a conca
a sotterrare le radici puoi se mai accovacciarti
dietro di lui e accorgerti che la fila è dritta così fino al mare)

venerdì 15 aprile 2016

Memoria e coralità nella poesia di Nino Iacovella

Da oggi una selezione nuova dalla raccolta Latitudini delle braccia di Nino Iacovella compare nel blog www.diepicanuova.blogspot.it
www.diepicanuova.blogspot.it

giovedì 25 febbraio 2016

Eco, Fortini e le slam poetry

Anche molti compagni e amici di strada come me hanno letto molto poco del romanziere Umberto Eco, quasi tutti invece non hanno dubbi nel ritenere assolutamente importanti, soprattutto per l'opera di svecchiamento attuata nel nostro provincialissimo paese, libri come Opera aperta, Diario minimo e Apocalittici e integrati.
L'aspetto forse più interessante, per le sorti della nostra intellighenzia, è la disinvoltura con cui Eco si è impossessato di un linguaggio che miscelando alto e basso, accento elitario e toni di massa, ha 'sfondato' in libreria raggiungendo, moltissimo altrove peraltro, tirature insolite per il nostro paese.
Franco Fortini, ma non solo lui, rilevò a suo tempo superficialità e opportunismi dell'operazione ma di lui trovo interessante un suo giudizio più generale apparso in Il dolore della verità, Maggiani incontra Fortini, (Manni 2000), nel quale afferma: "Nessuno scrittore americano si fa problemi per i diritti d'autore, scrivono e sperano di fare soldi (a parte pochi e isolati), sanno come ci si regola. Qui da noi alcuni hanno preso questa cittadinanza (come Umberto Eco), ma molti altri si fanno problemi e non sanno bene cosa vogliono, se il 17° migliaio o la tomba in Santa Croce: questo è un fatto tipico della frontiera, e mi sento di aggiungere che non siamo e non saremo mai la 50° stella".
Sono parole degli anni Ottanta ma a distanza di più di quarant'anni c'è da chiedersi quanto dell'ultima considerazione valga ancora per certa nostra foltissima produzione poetica che tra linguaggio colto o comunque poco accessibile e linguaggio da  certe slam poetry sembra ancora indecisa se aspirare a vendere o a procurarsi la tomba in Santa Croce (ammesso che Foscolo venga ancora letto!). Io spero che decidano di imparare a vendere.

martedì 23 febbraio 2016

Navigando tra le pagine di Walter Benjamin

Queste note nascono dall'intenzione di fare un omaggio a Walter Benjamin. Anche se a dirla tutta corro il rischio di apparire immodesto, Benjamin non ha certo bisogno di omaggi come quello che posso fare io qui. Del resto si tratta di un autore difficile e non solo per me. Ma fra le sue pagine sto
imparando a muovermi come nello Zibaldone di Leopardi, non in cerca di una sistematicità di pensiero e teorie ma spunti e aperture che riguardano il modo di leggere la Storia e paradossalmente, ma mica tanto per me, anche stimoli al discorso poetico. Soprattutto per quella prudenza estrema che Benjamin suggeriva nel lavoro di interpretazione dei fatti storici, per quella sua nozione di storia come montaggio,  per la consapevolezza dei limiti dell'espressione linguistica (sulla quale mi sono soffermato nel post del 21 gennaio dal titolo La poesia e il linguaggio di tutti i giorni con l'aiuto di Brodskij

Da poco è uscita per Einaudi una biografia imponente di 700 pagine: Walter Benjamin, A critical life, di Howard Eiland e Michael W. Jemmings, se ne trova una recensione su Doppiozero a questo indirizzo http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/walter-benjamin-critical-life

Meno recentemente ma non meno ricco è uscito il numero 3 di L'ospite ingrato, Quodlibet, interamente dedicato al filosofo tedesco, intitolato: Walter Benjamin, Testi e commenti, a cura di Gianfranco Bonola, che raccoglie una messe di interventi, coordinati dall'amico Luca Lenzini, di illustri studiosi (cito qui Michele Ranchetti, Cesare Cases, Franco Fortini, Renato Solmi e altri) nei quali è fruttuoso navigare senza pretendere di doppiare una tantum l'opera.
C'è un saggio in particolare scritto da uno studioso americano che ha il merito di sintetizzare molto, cosa meritevole di attenzione, ne riporto qui la pagina conclusiva.

Thomas Peterson
La storia come montaggio in Benjamin 

VI. Conclusione

Sono stati in molti ad etichettare Benjamin come autore contraddittorio o paradossale. Certamente il suo pensiero non sta tranquillo dentro i contorni di una singola disciplina o terminologia specialistica, come la fenomenologia o l'idealismo, il marxismo o lo storicismo. Benjamin non conia una sua dottrina. A dispetto del carattere prolifico della sua opera, si può dire che chiave del suo stile - rispecchiato nella calligrafia miniaturistica dei suoi manoscritti, stesi con estrema cura - è la reticenza e la modestia. Benjamin era consapevole di lavorare "sulle spalle di giganti" e evitava cautamente la sovrainterpretazione della storia. Era costantemente attento ai limiti della logica discorsiva: «È bene dare una conclusione smussata alle ricerche materialistiche» (PA 531). Similmente consigliava l'inclusione di "spazi bianchi' nella scrittura della storia a mo' di rappresentazione del non ancora saputo (nota in basso).

Anticipando la tarda modernità, Benjamin mette in pratica la nozione di storia come montaggio (la parola montage fu coniata solo nel 1929). La qualità eterarchica dei Passages - e non semplicemente la loro struttura slegata, dovuta all'incompletezza - è evidente nell'indeterminatezza epistemologica dell'incartamento N. Beneficiando dello studio delle fonti più varie - da Lotze a Bergson,
da Marx a Proust - Benjamin infonde nel pensiero materialistico dei criteri metafisici radicati nel suo studio teologico della lingua.  Cercando e trovando una via di mezzo tra il soggetto e l'oggetto, e integrando letture letterarie e scientifiche, Beniamin stabilisce una forma di costruttivismo paragonabile_ semmai in campi disciplinari diversi - a quel costruttivismo che sarebbe stato formulato da Piaget.

Il suo pensiero condivide con la tradizione analitica - con Dewey, Whitehead e Wittgenstein - una consapevolezza dei limiti dell'espressione linguistica, un'epistemologia basata sui processi di mutazione, e una teoria del simbolo radicata nello studio delle percezioni. La sua fenomenologia della percezione anticipa quella di Merleau-Ponty, di sedici anni più giovane di lui. Precedendo l'avvento dei Cultural Studies in Gran Bretagna, Benjamin anticipa l'attivismo di quel movimento e il rilievo che esso dà alle diversità culturali. Infine riconosce il bisogno di rovesciare la storiografia lineare basata sul principio dell'energia a favore di una storiografia a mosaico basata sul principio della differenza.

nota:Si trova un riconoscimento simile nei Cantos dove Ezra Pound cita Confucio («Kung») sulla responsabilità dello storico - per il benessere della società - di lasciare lacune nel resoconto della storia. Si veda Ezra Pound, Selected Cantos (New York, New Directions, 1970), p. 22: And Kung said " Wan ruled with moderation, / In his day the State was well kept, / And even I can 
remember / A day when the historians left blanks in their writings, / I mean for things they didn't know, / But that time seems to be passing». 

sabato 30 gennaio 2016

E una bella manifestazione?



L'articolo di Stefano Levi Della Torre, che mi è giunto attraverso facebook in un post di Lea Melandri e che tratta dei fatti di Colonia e che ripropongo qui per un poco ancora di riflessione, ha una sua tragica terribilità perché constata, a mio parere con ragione, che l'unica unità culturale che è in atto attualmente in Europa è quella che unisce non pochi europei e non pochi musulmani nel maschilismo e nel razzismo. La crisi economica nonché quella politica stimolano gli 'strati bassi della nostra stessa antropologia maschilista' che negli uni e negli altri libera prima di tutto la
manifestazione del dominio assoluto sulla donna e sul suo corpo per farsi subito dopo razzista per escludere gli ultimi arrivati. E la connessione che Della Torre fa tra ciò e lo spirito che anima il turbocapitalismo globale è legittima, le libertà tanto decantate del sistema occidentale assomigliano sempre più al canto del pifferaio magico. Ma non c'è nemmeno più una cultura di sinistra a fare da barriera, dissipata come si è nelle sue rincorse suicide. Nè si può contare su una cultura borghese tradizionalista ma non priva di intelligenza critica, in Italia ce n'è stata una breve stagione nel dopoguerra. Eppure non mi tornano i conti. Sui social network e non solo gira molta intelligenza critica. E l'impressione è che la distinzione tra destra e sinistra lì dentro sia decisamente inattuale. In tutti costoro, tra i quali mi colloco, la mia impressione è che lo sdegno sia pari al sentimento d'impotenza. Credo che perlopiù abbiamo un sano senso di autonomia e che la critica ai partiti e ai loro dispositivi mediatici è solo una parte del pensiero che ci accomuna, ma ci sforziamo di tenere a bada quel sostrato profondo che alligna nel patriarcato dal quale tutti proveniamo e ci sforziamo di mantere lucida la critica alle leggi distruttive del capitalismo. Ma non abbiamo neanche più i cortei. Eppure quelli erano decisamente importanti perché almeno connotavano d'allegria la disperazione. Una volta dicevamo: ok, passa parola, è per domani alle 11 in piazza del Duomo. Forse bisognerebbe riprovarci.


Così scrive Stefano Levi Della Torre:

"Declinano le libertà occidentali ponendosi in sintonia col loro limo maschilista, che è l'aspetto che sentono più famigliare. Se ne sentono incoraggiati, e incoraggiano i nostri stati culturali più bassi a riemergere. La questione è decisiva. La lotta per la libertà delle donne ha due fronti, verso il nostro maschilismo e verso quello degli altri."
Gli spunti interessanti che si possono trarre dall'articolo di Donatella Di Cesare (“Corriere delle sera”, 11/1/16) sono che i crimini di massa a Colonia e altrove dipendono da un clima generale "culturalmente" favorevole allo spontaneismo e dunque all'affioramento spontaneo del limo antropologico del maschilismo. (Da qui, sembra, l'imbarazzo e la passività della polizia).

Non dico affatto che “loro” sono come “noi”, come se fosse politicamente corretto non fare distinzioni ed anzi risolvere tutto in auto-accusa: tutta colpa dell’Occidente, come se l’“altro” non avesse alcuna responsabilità, fosse al disotto della responsabilità (il che è una forma mascherata di razzismo). Qui si sono fatti decisivi passi avanti nella mentalità e nelle leggi. Penso che il senso comune nei paesi islamici e l'islam stesso, specie nella sua affermazione integralistica, è fortemente oppressivo nei confroni delle donne.

Dico però che quei fatti sollecitano il riemergere in Europa e in Italia mentalità antiche, così come sollecitano il riaffermarsi delle identità nazional religiose e fascistoidi in Europa. Un umorista ha detto: sono favorevole agli immigrati che rubano, perché sono i più integrati nella cultura italiana. Una battuta, certo, che però mi fa pensare che, analogamente, l'insulto e l'aggressione alle donne possa essere anche una forma di integrazione a partire dagli strati bassi della nostra stessa antropologia maschilista.

Dicono che all'October Fest, in Germania, erano già successe cose analoghe in anni passati, anche se forse non così gravi. L' integrazione spontaneista e incolta è forse analoga all'islamizzazione incolta. Anni fa mi aveva colpito l'osservazione di un sociologo francese che diceva che l'integralismo islamista poggiava su un'istruzione a metà, si diffondeva cioè per la maggior diffusione dell'istruzione che faceva uscire, sì, dall'analfabetismo in modo che più gente potesse leggere il Corano, ma poi si leggeva il Corano senza cultura. E lo si assumeva alla lettera senza senso critico né elaborazione. Lo si assumeva in forma confessionale e fondamentalistica. Lo si assumeva come rispecchiamento e giustificazione delle proprie pulsioni. Così giovani maschi immigrati possono leggere le libertà europee nello stesso modo incolto con cui acquisiscono il Corano: libertà come libero affioramento e manifestazione delle proprie pulsioni impregnate della propria mentalità sedimentata come tradizione: si valgono delle libertà occidentali non per un complotto contro l'occidente, ma contro le donne e contro la libertà delle donne. Declinano le libertà occidentali ponendosi in sintonia col loro limo maschilista, che è l'aspetto che sentono più familiare. Se ne sentono incoraggiati, e incoraggiano i nostri strati culturali più bassi a riemergere. La questione è decisiva. La lotta per la libertà delle donne ha due fronti, verso il nostro maschilismo e verso quello degli altri.

Congiungerei quanto sopra con quello che ho già scritto circa la "la libertà assoluta di satira" di cui ho già scritto circa Charlie Hebdo. (Vedi sotto: “Satira e terrorismo”).
Una guerra mondiale contro le donne mi sembra in corso. Come scrivevo, Colonia fa vedere come ci sia un' "integrazione" che si connette e rilancia gli strati più bassi delle nostre mentalità. Ubriachezze non propriamente "islamiche" e branchi di giovani maschi che ripropongono ( "in cervogia veritas", cioè spontaneità pulsionali), repellenti sostrati, vivi tra loro e e tutt'altro che estinti tra noi, incoraggiando ogni spirito reazionario, politico e di genere.
Nel caso di Colonia, l'idea del complotto, non provato, mi sembra una forma di riparo, rispetto alla realtà ancora più grave: il fatto che certi strati dell'immigrazione si alleino spontaneamente con gli spiriti reazionari in Europa. Non solo ne fanno evidentemente il gioco politico, ma li confermino antropologicamente.

Come nota Vicky Franzinetti, certi ruoli tradizionali femminili, contro cui il femminismo si è battuto, sono rilanciati, in forza della necessità loro e nostre, dal fenomeno sociale delle badanti, che magari "liberano" le stesse donne occidentali, relativamente benestanti, da quelle funzioni, ma riconfermando ruoli in quanto “femminili”. Più gravemente, fatti come quelli in Germania, istigano alla difesa delle "nostre" donne, dove il "nostre", ribadisce una concezione proprietaria. A parole comunque, perché a Colonia è brutto non aver notizia di nessuna difesa delle donne da parte di alcuno. (Certo, io non so come mi sarei comportato in una simile situazione, magari con la scusa di essere piccolo e vecchio).
Mi sembra da approfondire il rapporto tra neo-liberismo e maschilismo, tra liberismo e sostrato antropologico e tradizionale. Il nesso a me sembra l'esaltazione della forza, della gerarchia del più forte, della sottomissione del più debole. Del carattere selvaggio dell'istinto capitalistico che è di tipo animalesco, da jungla. Del tipo anche che "dietro a un grande uomo c'è magari una grande donna", dietro appunto, a servirlo e ad approfittare dei suoi successi. Della donna che presiede con i suoi servizi al successo maschile, per valersi dei vantaggi che ricadono su di lei e sui suoi figli, come accade alle donne di mafia.

Ho sentito di donne e non solo di uomini, che hanno detto "se la sono cercata", come avviene abitualmente in casi di stupro. Un nodo particolarmente complicato sta appunto nell'alleanza frequente tra molte donne e il maschilismo, quando prevale il bisogno di essere accettate e protette da una comunità tradizionalmente gerarchica, quando prevale il bisogno di un'identità prefissata e c'è la paura e la difficoltà di costruirsene una nuova e non protetta. Un'identità necessariamente trasgressiva. La decadenza della sinistra sta anche in questo: partita dalla positività e necessità del trasgredire gli stereotipi di tradizioni retrive, si è poi fissata nel culto quasi idolatrico del "diverso"; infine del diverso codificato, cioè delle identità culturali e religiose tradizionali, ossia auto-conservatrici e reazionarie. Sicché il "diverso" ha sostituito e soffocato il “trasgressivo”, la comunità del diverso è stata favorita rispetto alla singolarità di chi trasgredisce le tradizioni, i loro ruoli e gerarchie, abbandonandola/lo alla sua debolezza individuale.

Questo è l'equivoco tragico del multiculturalismo: identità comunitaria contro libertà e auto- determinazione della persona.
Quanto al multiculturalismo, è questione di intendersi: chiamo multiculturalismo l'accettazione delle "diversità" ciascuna per sé. L'alternativa non è ovviamente il monoculturalismo, ma un'interazione tra culture che implica, più che dialogo, confronto, polemica, lotta culturale interna ed esterna, ed anche leggi repressive di usi che sono per noi giustamente inaccettabili, che riguardano segnatamente le donne, nonché la laicità. Deteriore l'idea del nuovo dirigente del Labour, Jeremy Corbin, di sinistra, di istituire vagoni per sole donne per proteggerle. Ma questo ribadisce il negativo, quando è il momento dello scontro culturale.







Stefano Levi Della Torre"

giovedì 21 gennaio 2016

La poesia e il linguaggio di tutti i giorni con l'aiuto di Brodskij

Ho sempre sentito un po' di disagio di fronte a quelle affermazioni che tendono a dare al linguaggio una importanza primaria, quasi una supremazia una egemonia sulla psiche (intesa come insieme di intelletto e emozioni). Ho sempre pensato il contrario a dire il vero ma aiuta moltissimo sentirlo dire da Iosif Brodskij.
Dice così, che meglio non sarei mai stato in grado di dire:
'...nonostante la versatilità di questo strumento, nonostante la sua preziosa capacità di esplorare e approfondire le percezioni - per cui a volte esso rivela più di quanto fosse nelle intenzioni originarie e così arriva, nei casi più felici, a fondersi con le percezioni - ogni poeta più o meno esperto sa quante cose restino fuori o siano dolorosamente modificate passando attraverso questo strumento.' 
Ora, ogni poeta crea per sé un proprio linguaggio, quello cioè che più compiutamente traduce quanto sta nella psiche, si tratta di un lavoro eccezionale che non ha quasi mai fine e che attraversa territori pieni di insidie. Credo che quella più drammatica stia nelle voci del mondo che in genere dissuadono da questa ricerca e anzi la indirizzano verso mete più semplici, quelle che generalmente confermano l'esistente (tra tv e frigorifero, direbbe Pasolini). Il poeta per lo più quelle insidie impara a evitarle, talvolta nel farlo il suo linguaggio diventa oscuro o comunque difficile. E' inevitabile, ma fino a un certo punto. E' inevitabile tanto più se lo scrittore di versi tenta di tradurre in parole una complessità interiore fin lì inespressa e se la connessione di immagini e pensieri è  insolita e composta in una visione sorprendente. Credo che lo scrittore abbia il compito di tradurre la propria interiorità senza concedere nulla alle semplificazioni ma rinunciando, fino a un ulteriore momento più favorevole, a una complessità che non comunica. La ricerca del linguaggio più proprio non può insomma essere disgiunta da una comunicabilità del verso, cosa che del resto mi sembra orami acquisita tra gli scrittori più giovani. I quali verosimilmente hanno da temere l'insidia opposta, ossia quello di semplificare troppo e rinunciare alle connessioni più profonde.
Perché comunque, come bene dice B., tra quanto comunica la psiche e quanto lo scrittore riesce a tradurre in parole c'è uno scarto più o meno doloroso del quale lo scrittore stesso si deve far carico per via delle insufficienze del linguaggio, anche se resta lo strumento migliore,  e per via dei condizionamenti e comandi culturali riduttivi cui è sottoposto il linguaggio quotidiano.
Così il poeta e critico conclude la sua riflessione:
"Viene fatto di pensare che la poesia sia in qualche modo estranea o refrattaria al linguaggio - italiano, inglese, o swahili che sia - e che la psiche umana, per la sua capacità di sintesi, sia infinitamente superiore a tutte le lingue che possiamo usare. A dir poco, se la psiche avesse una lingua sua propria, la distanza tra questa e il linguaggio della poesia sarebbe approssimativamente la stessa che divide il linguaggio della poesia, appunto, dall'italiano di tutti i giorni." (Sta in Il canto del Pendolo, Adelphi, 1987)

giovedì 14 gennaio 2016

Espressionismo

Ernst Ludwig Kirchner, Cinque donne per strada, 1913
Ai margini di Grunewald, la foresta nel sud-ovest di Berlino, c’è, appartato e silenzioso, il Brücke-Museum, dedicato al gruppo di artisti espressionisti "Brücke" (fondato nel 1905 a Dresda) dei quali possiede circa 400 dipinti (insieme a migliaia di disegni a mano libera, acquarelli e opere grafiche originali). La collezione comprende soprattutto le opere dei fondatori (a memoria mia Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel, Fritz Bleyl, Max Pechstein, Karl Schmidt-Rottluff, Otto Mueller, Emil Nolde).  Sembra un risarcimento. I nazisti tolsero di mezzo la maggior parte delle opere degli artisti tedeschi che facevano riferimento al dadaismo, cubismo, espressionismo, fauvismo, impressionismo, surrealismo e forse ne dimentico qualcuno ma comunque tutta Entartete Kunst, arte degenerata. Non ricordo di preciso ma sembra che ammontassero a qualche migliaio le opere degli espressionisti tolte di mezzo. Insieme a quelle di tanti altri pittori furono poi presentate per il pubblico ludibrio nella mostra diffamatoria itinerante del ’37 appunto come arte degenerata. 

Max Pechstein, portatori di pietre italiani, 1924
Gli espressionisti, che di molti di quegli ismi sono direttamente e indirettamente fratelli maggiori, si presentano sulla scena europea intorno al 1905 e il loro movimento artistico culturale e politico resta vivo fino alla metà degli anni 20 quando il movimento si scioglie e ciascuno prende la sua strada anche se in pratica ben presto quasi per tutti si trattò della fuga verso Ovest.

Joanne Memmen, Revuegirls, 1928
Chi come me si trova nel bisogno di interrogare ancora le avanguardie storiche, quelle a cavallo tra belle époque e seconda guerra mondiale, ha qui un’occasione per fare il punto.  A vedere tutte insieme queste opere di un’unica corrente artistica le domande giuste vengono subito. Così a me, che non sono un critico d’arte e dipendo dalle mostre e da qualche libro, hanno acceso un po' più di luce ad esempio sulla differenza tra espressionisti e impressionisti. E ho dovuto dare una sistemata alla cronologia. Storicizzare troppo non va bene ma talvolta è necessario. L’Urlo di Munch, che è norvegese, è annoverato tra le opere espressioniste ma è del 1892. Il campo di grano con corvi di Vincent Van Gogh, che è olandese, è del 1890. Entrambi dunque, insieme a Gauguin, sono considerati solo precursori dell’espressionismo (più indietro ancora si può arrivare alle acqueforti di Goya sulle atrocità della guerra napoleonica in Spagna e addirittura a El Greco nel ‘600). E allora si capisce che l’espressionismo, che per molti aspetti è il contrario dell’impressionismo, in realtà nasce dalle sue costole, ne è un’evoluzione.

Ernst L. Kirchner, Cocottes sul Kurfurstendamm
Ma a differenza del mondo salottiero e da middle class molto pacificato dell’impressionismo francese con tutto il fascino e la joie de vivre che emana dalle sue tele, l’espressionismo punta a rappresentare la sofferenza della condizione umana ed esalta la spontaneità dell’ispirazione deformando oggetti e corpi, usando colori violenti e linee dure e spezzate, abbandonando le leggi della prospettiva, rifuggendo dal dare illusione di volume e di profondità. Un linguaggio immediato ed essenziale dalle forti tinte che esalta contrasti e conflitti dentro e fuori l’individuo (il lavoro con i suoi corollari di fatica e alienazione) in una visione drammatica e pessimistica del mondo che non ha il bello come suo fine più importante. Una differenza decisiva dall’impressionismo. Del resto Germania ed Europa sono attraversate da una nuova ondata autodistruttiva che segue ovviamente le crisi e le depressioni della produzione e dei mercati governati dal capitalismo e da stati ora non più colonialisti ma imperialisti tout court che si spartiscono il resto del pianeta con l'occupazione militare. L'espressionismo vive tra la febbre delle grandi città in crescita caotica come Berlino e gli orrori della guerra mondiale e delle sue terribili conseguenze.


Max Pechstein






Naturalmente propensi alla diffusione di massa dell’opera d’arte, gli espressionisti diedero  origine ad un fenomeno tipico del XX secolo, cioè  la pubblicazione di riviste indipendenti e autoprodotte e dunque anche all’abbattimento della frattura tra pratiche e teorie dell’arte (Kandiskij scrive su Sturm le sue teorie). Le premesse ideologiche del movimento furono espresse dal pittore Ernst L. Kirchner nel manifesto ‘Il ponte’ (Die Brücke), poi organo del movimento divenne la rivista Der Sturm che animava anche un teatro, una galleria e delle serate di poesia espressionista, le Sturm-Abende. Peraltro l’espressionismo non riguardò appunto solo le arti figurative ma anche letteratura, musica, teatro, architettura.








George Grosz, nato a Berlino nel 1893, passò attraverso l'espressionismo e poi il futurismo, il dadaismo e infine la Neue Sachlichkeit. Scrisse anche in poesia. Per gli espressionisti il caffè era, come per dadaisti e futuristi, il luogo prediletto nella città. Riporto qui una sua lirica scritta nel 1916-17 nella quale filtra, attraverso le impressioni caotiche di un ubriaco, la vita movimentata della grande città.





Cognac, Whisky,  Punch svedese,
G. Grosz
vedo maschere orribili!!
Sono allacciato da collane coralline di teste rosse
- oh il cielo come è vicino -
E angeli incessanti sono scesi dal soffitto.
Suonano i pifferi
Ora - tanta nostalgia del negro -
Hanno denti verdi E quà e là han perso il bronzo.
I lampioni del gas sono palloni, gettati da qualcuno nell'aria
E pendono come scemi
- sempre negli stessi luoghi -
Sono come un bambino in migliaia di Luna Park
e come pellicole, il film
gira rosso e giallo
e i tavoli cambiano colore e forma
e se ne vanno a spasso
in mezzo alle grosse gambe delle signore e alle vesti bianche.
Uno gira in continuazione.
Il mio tavolo è un pezzo ovale di marmo
- i circoli diventano uova -
e le note fanno come una gragnuola di pallini piccoli buchi nel                                                                                                       mio cervello.
Gli angeli di gesso sono svaniti,
Dice che sono al primo piano a giocare a biliardo
 - un marco per un'ora!! -
Cameriere!! - per favore dell'acqua di selz -
Sono una macchina, con il manometro rotto -!
E tutti i cilindri giocano in tondo -
Vedi: siamo tutti quanti nevrastenici.
                                       (G. Grosz, Kaffeehaus, a cura di D. Schmidt)