(disegno da Hokusai)
Con l’attribuzione del Nobel a Bob Dylan la giuria
dell’Accademia di Svezia allarga il perimetro letterario alle forme musicali
popolari e colte riscoprendo e innovando una
millenaria tradizione di commistione fra le arti, abbandonata da secoli
nei contesti perlopiù accademici, ma
presente e viva in altri contesti culturali (i grandi cantori brasiliani per esempio).
La scelta, che reitera quella compiuta a suo tempo con Dario Fo, si pone nel
solco di un allargamento delle tradizioni della modernità senza indulgere a
derive postmoderniste, di intrattenimento e minimaliste (Stephen King, Dan
Brown, A. Baricco).
Noi accogliamo con favore l’evento perché ci sembra che
questo allargamento non possa che essere fecondo per le sorti della poesia, di
quella italiana in particolare nella quale ci sembra, la cautela è d’obbligo,
di poter cogliere segni concreti di tentativi di disegnare nuovi percorsi.
Tali tentativi, troppo spesso timidi, sono condizionati da
un lato da politiche editoriali di pura sopravvivenza, dall’altro dalla
resistenza da parte degli autori a lasciarsi definitivamente alle spalle il peso
di forme espressive e di contenuti esausti, salvo poi lasciarsi andare a un
nauseante piagnisteo sulle sorti derelitte della ‘vera poesia’.
Al di là delle opinioni e al di là della critica che abbiamo
da tempo riservato ai premi e al Nobel in particolare, riteniamo che questa sia
una buona occasione per porre alla poesia domande diverse.
Paolo Rabissi e Franco Romanò
(il nostro ragionamento resta per noi valido qualunque sia la scelta di Dylan sull'accettazione o meno del premio. Del resto è consapevolezza comune che si tratta di un riconoscimento tardivo e che il premio avrebbe avuto ben altro senso negli stessi anni settanta).
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