Il femminismo in una grande manifestazione a Roma
Valeva la pena aspettare dieci anni per ritrovarci di nuovo in tante e
poter dire che siamo un movimento, anche solo per un giorno, e non
solo una rete virtuale, anche se le reti ci sono state di aiuto come
spinta a uscire dalla carsicità.
Confluire in massa in una storica piazza di tutte le proteste, quale è
piazza San Giovanni a Roma, è sicuramente il modo più felice per
rispondere a una ricorrenza, come il 25 novembre, che felice non è.
Una manifestazione come quella di oggi, come quelle che si sono
succedute da quarant’anni a questa parte, devono darci il coraggio di
dire che il femminismo, in tutta la varietà delle sue pratiche, dei
suoi gruppi, collettivi, associazioni, ecc –o forse proprio per questa
varietà- è l’unico movimento sopravvissuto agli anni ’70, l’unico che
nonostante la messa sotto silenzio, l’ostilità che incontra nel nostro
Paese in particolare, non ha mai smesso di riempire le piazze con
donne di generazioni diverse, che non ha mai smesso, pur con tante
contraddizioni, di ripresentarsi con la radicalità dei suoi inizi.
Non mi soffermerò sulle tante ragioni che ci hanno portato qui. Sulla
violenza sappiamo molto, molto abbiamo detto e scritto analizzato, sia
sulle sue forme manifeste -stupri, omicidi, maltrattamenti- sia su
quelle meno visibili e perciò più subdole, più ambigue, che passano
nella “normalità”, nel senso comune, nei gesti e nelle parole della
quotidianità, e dell’amore così come lo abbiamo inteso o male inteso
finora. Non si uccide per amore, ma l’amore c’entra, c’entrano quei
vincoli di indispensabilità reciproca presenti anche là dove non ce
n’è bisogno, c’entra l’infantilizzazione dei rapporti all’interno
delle famiglie. Di quanto sia complesso liberarsi di rapporti di
potere che si sono confusi con le esperienze più intime, sappiamo
molto e molto dovremo ancora scoprire, analizzare.
Ma c’è un altro modo per parlare della violenza, che viene visto meno.
E’ il fatto che da mezzo secolo a questa parte, le donne hanno dato
vita a una cultura e a pratiche politiche per contrastare la violenza
maschile in tutte le sue forme,a partire da quei segni profondi che ha
lasciato dentro di noi, costrette a incorporare quella stessa visione
del mondo che ci ha segregate fuori dalla vita pubblica, identificate
con la natura, il corpo, la conservazione della specie. Abbiamo
scritto e detto più volte che il sessismo è l’atto di nascita della
politica, intendendo con questo sottolineare che il rapporto di potere
tra i sessi è l’impianto originario di tutte le oppressioni e
disuguaglianze che la storia ha conosciuto.
Forse è il momento di dire con chiarezza quello che non siamo più
disposte a tollerare:
-che questo patrimonio di sapere, consapevolezze, studi, battaglie
vinte venga messo sotto silenzio, lasciato negli archivi e che
qualcuno ancora si permetta dire che il femminismo è morto o
silenzioso;
-che quando interviene una “parola pubblica” a istituzionalizzare
pratiche nate dal femminismo, come i consultori, i centri
antiviolenza, ciò significhi emarginare le persone che vi hanno dato
vita, cancellare l’autonomia delle pratiche che li ha caratterizzati.
Mi riferisco al Piano straordinario contro la violenza sessuale e di
genere dove i centri antiviolenza finiscono per essere confusi con il
Terzo settore, i servizi sociali.
-che si parli tanto di educazione di genere e si lascino le donne che
insegnano, quasi tutte precarie, a dover affrontare campagne
denigratorie da parte di presidi e famiglie, rischiare il posto di
lavoro, affrontare temi che richiedono una formazione, senza avere la
certezza di finanziamenti al riguardo.
Siamo qui per dire che non dimentichiamo le donne che la violenza
l’hanno subita nella sua forma più selvaggia, ma che non vogliamo più
leggere su un giornale o sentire in un commento televisivo che sono
“vittime” della passione o della gelosia di un uomo. Sono donne che
hanno pagato il prezzo di una affermazione di libertà: quella,
inconsueta per un dominio maschile secolare, della donna che dice “Io
decido” della mia vita, della mia sessualità, di avere o non avere
figli.
Vorrei che ci portassimo a casa questi due bellissimi slogan –“Io
decido”, “Non una in meno”- per dire che continueremo a batterci
contro imposizioni esterne, controlli, divieti, intimidazioni, ma
anche per la liberazione da modelli, pregiudizi, leggi non scritte che
ci portiamo dentro e che ci impediscono di trovare la forza collettiva
di cui abbiamo bisogno. Se non possiamo condividere la varietà delle
nostre pratiche, teniamoci almeno disponibili a momenti come questo e
forse riusciremo a trovare quei “nessi” che legano la specificità dei
nostri interessi, delle nostre esperienze, delle nostre storie.
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