martedì 5 novembre 2024

Sulla schiavitù in Italia, di Sergio Fontegher Bologna

Sogno anch'io, come l'autore di questo articolo (sulla rivista on line L'ospite ingrato), la diffusione di massa di opposizione a quanto viviamo. L'umiliazione del lavoro anzitutto. A me basterebbe anche un clima come quello che c'era negli anni settanta quando, cito a memoria, gli addetti di un motel sull'autostrada  si rifiutarono di servire a tavola un noto fascista di allora e di oggi.


Il 17 giugno 2024 Satnam Singh, un bracciante indiano di 31 anni che lavorava senza contratto nei campi di un’azienda agricola nei dintorni di Latina, è rimasto incastrato in un macchinario che gli ha staccato un braccio e fratturato le gambe. Nessuno ha chiamato i soccorsi. Il datore di lavoro di Satnam Singh lo ha caricato su un furgone e lasciato davanti al cancello di casa sua, insieme al braccio tranciato appoggiato in una cassetta della frutta. Satnam Singh è morto mercoledì 19 giugno a causa delle ferite e del ritardo fatale con cui sono stati chiamati i soccorsi che avrebbero potuto salvarlo.


Vorrei riuscire a capire cosa manca nel discorso sulla schiavitù, cosa impedisce di cogliere la dimensione che va ben oltre una storia di “ordinario disordine”. Vorrei riuscire a capire cosa ci ha fatto pensare che si tratta di un caso estremo di sfruttamento, dove c’è sottovalutazione, complicità a tutti i livelli, ipocrisia, parole al vento, piagnistei ma anche volontariato, persone generose, coraggiose, che documentano e denunciano, una storia, come tante, fatta di 40% di complicità, 59% d’indifferenza e 1% di “bontà”. Una storia estrema quanto si vuole ma che rientra in quella categoria fin troppo conosciuta di “ordinario disordine”. Abbiamo parlato mille volte di conseguenze del neoliberalismo ma non basta, non bastano i discorsi che stiamo facendo dagli anni 80, quei discorsi che non ci stanchiamo di riformulare quando parliamo di precariato, di neet, di bassi salari, di contratti pirata, di false cooperative. C’è un’altra dimensione che non abbiamo ancora nominato.

E l’assenza di questa dimensione risulta particolarmente evidente quando si parla di accoglienza, salvataggi in mare, scafisti, Lampedusa, rotta balcanica. Com’è possibile che il discorso sull’accoglienza si fermi a metà, concentrando i riflettori solo sul viaggio dei disperati, sull’esodo e poi i riflettori si spengono? Com’è possibile che il Governatore della Banca d’Italia ci venga a ricordare che, data la crisi demografica, abbiamo bisogno di forza lavoro migrante, e non aggiunga una parola di più sulle condizioni in cui quella forza lavoro migrante, che già c’è, viene trattata? Com’è possibile che Mattarella non abbia mai fatto esplicito cenno alla schiavitù nei suoi discorsi, non rendendosi conto di rappresentare un paese che ha fatto un salto indietro nella storia di almeno un secolo e mezzo? La servitù della gleba in Russia è stata abolita nel 1861. La Guerra di Secessione negli USA è scoppiata nello stesso anno. Ma la Zivilisation europea, la rivoluzione borghese, erano cominciate ben prima. Lo sfruttamento capitalistico, le enclosures, si sono mosse in parallelo, d’accordo. Ma gli abitanti degli slums di Londra, quelli del “Popolo degli abissi” di Jack London, avevano però la carta d’identità. Non era schiavismo. Voglio dire che la condizione di schiavitù conserva una sua specificità, non basta dire che è il gradino estremo del supersfruttamento capitalistico. È un’altra categoria, un’altra species. Forse questa nostra incapacità di coglierne la dimensione specifica oggi è proprio dovuta al fatto che essa si è talmente integrata nel modello economico-produttivo, ne è diventata un elemento talmente essenziale e imprescindibile, da far abituare il nostro occhio a guardarla senza battere ciglio.

Eppure non può continuare così. Perché se continua così finiamo inevitabilmente per dire che per debellarla bastano inasprimento delle pene, maggiori controlli, formazione e bla, bla, bla, come dicono i partiti, il sindacato, Confindustria… cioè quelli che in un modo o nell’altro, chi più chi meno, in questi ultimi vent’anni hanno contribuito a far sì che la schiavitù s’integrasse sempre più con il modello produttivo o che poco o nulla hanno fatto per impedirlo. Invece quel che ci vuole è una sanzione sociale, la repressione non basta, non è all’altezza, ci vuole l’isolamento, l’emarginazione degli schiavisti. Ma che venga dal basso, dalla società, dalla vita quotidiana! Io sogno che un giorno un proprietario di un buon ristorante, vedendo entrare i titolari di un’impresa agricola che usa sistemi analoghi a quelli dei signori Rovato di Latina, prima che prendano posto si avvicini e dica: “Signori, qui i cani possono entrare, ma gli schiavisti no” e li accompagni gentilmente alla porta. E quando il tassista, chiamato a trasportare i suddetti imprenditori a un altro ristorante, farà la stessa cosa, rifiutando di farli salire a bordo… beh, a quel punto potremo dire che l’Italia ha cominciato a ridiventare un paese civile. Oggi non lo è, perché su ciascuna pizza che viene servita nel milione di pizzerie che invadono città e campagne, montagne e spiagge, c’è il segno di una cassetta di frutta che porta il braccio amputato di un essere umano.

Sergio Fontegher Bologna

domenica 20 ottobre 2024

Da Trieste verso ogni dove Saba apre i versi del 900.

 

via del molino a vento

In ogni caso è lì, dove dice lui, che è rimasta la mia primissima infanzia. Lui però ha coltivato con amore gelosissimo per tutta la vita il suo cantuccio schivo ma non diviso dal mondo. Da lì apre per tutti la poesia del 900. Da psicanalitico prima della psicanalisi, come ebbe a dire Contini, la sua poesia tra endecasillabi di confine e settenari con qualche tintinnio di rime, è strumento d'indagine per tutti, da ogni luogo.

trieste, via dante
“TRIESTE” di Umberto SABA

Dalla raccolta “Trieste e una donna” (1910-12)

Ho attraversato tutta la città.

Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,

è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.


venerdì 18 ottobre 2024

Scheda critica di Sebastiano Aglieco per 'Bestie, animali, specie' sulla rivista 'Il segnale percorsi di ricerca letteraria'


 Sull'ultimo numero di 'Il segnale percorsi di ricerca letteraria' Sebastiano Aglieco mi dedica una scheda critica che qui riporto.

Paolo Rabissi, Bestie, Animali, Specie, youcanprint 2023


Corteggia un’andatura poematica questa seconda prova di Paolo Rabissi; forse nel tentativo di dare un senso al procedere nefasto delle vicende umane, e persino naturali.

Così le tre parole che vanno a costituire il titolo in una processione apparentemente cronologica,

suggeriscono, piuttosto, le atmosfere di un’origine comune: l’antica casa in cui i nostri progenitori

mossero i loro primi passi segnando per sempre il nostro destino.

Il primo capitolo, dunque, evoca la presenza di Lucy, il celebre australopithecus afarensis, indicato come “reperto A.L. 288-1, Transizione all’umano”.

Evidentemente, però, Rabissi non è interessato a una disquisizione scientifica sull’origine, ma sul senso del nostro agire in libertà totale o in totale mancanza di responsabilità. Per naturale

conseguenza dei temi trattati, l’autore sceglie come nume tutelare del suo pensiero il pessimismo cosmico di Giacomo Leopardi: “l’universo esistente è il peggiore degli universi possibili”, dichiarando la necessità dell’esercizio poetico in opposizione alla naturale distopia a cui vanno incontro tutti i sistemi, fisici e antropologici.

La poesia è dunque un gesto reattivo di responsabilità e di possibilità: “ecco che maneggiare

millenni diventa / addirittura possibile, lo scrittore di versi / si sente a casa quando la parola che

usa / è senza dubbi la più vicina al senso, / allora la verità non è davvero solo / la somma degli

anni”, p. 15.

Rabissi corteggia in questo modo l’idea di una poesia di stampo “naturalistico”, e cioè forma di

una conoscenza che non contraddice le cause naturali, piuttosto le affianca e le approfondisce. “Ci vuole coraggio a fare di una riga un verso / accendere parole senza incendiarle”, p. 39.

Il libro è attraversato da sguardi di umanità a passo calmo. Si ha l’impressione, infatti, che per

colmare il vuoto ontologico che ci attraversa, Rabissi si appelli allo sguardo frontale degli uomini:

“guardare i passanti diritto negli occhi”, p 39, indagando le conseguenze dei ruoli sociali, le diatribe dei destini.

Ma il libro è soprattutto una struttura in movimento, attraversata da esigenze di sintesi filosofiche

e da slanci verso lasse poematiche che evocano nature, presenze, storie ( si legga tutta la sezione “Diario di Occidente”), con un evidente utilizzo di modi derivanti ”dalla lezione del verso lungo statunitense”, come precisa Franco Romanò nell’esauriente introduzione.

Il punto di riferimento è costantemente il pensiero di Leopardi, citato ancora una volta nell’ultima

sezione: “Movimenti - Metaloghi”. La polemica questa volta riguarda il ruolo delle macchine nella

società moderna, in netto contrasto con l’esercizio di un pensiero aperto - metalogo - a schema

possibilista, riconducibile a una riflessione non precostituita e senza soluzioni univoche.

Il poeta giardiniere che si prende cura del suo giardino, in stretto rapporto con gli esseri biologici e con la funzione che essi rivestono nel contesto di un mondo sempre più complesso, eppure

antichissimo, imbastisce dialoghi, resoconti, punti di vista, scoprendo di non essere molto diverso da una cavalletta, da un lombrico, da una farfalla. Riflette sulla funzione naturale della lotta e della violenza restituendoci, infine, la realtà di una biologia complessa dove l’umano è parte del tutto, preda e predatore, vicinanza empatica e distacco, scelta del baratro e resilienza.


                                                                                                                         Sebastiano Aglieco

lunedì 14 ottobre 2024

Per gli 'Incontri tra autori' organizzato da Gabriella Galzio nuova presentazione dell'antologia 'di epica nuova, laboratorio di poesia critica'




La presentazione avvenuta l'otto ottobre si può vedere  QUI

All'incontro erano presenti: Lucianna Argentino, Claudia Azzola, Massimo Bondioli, Paolo Borzi, Laura Cantelmo, Gabriella Galzio, Nino Iacovella, Nicola Labanca, Andrea Lanfranchi, Francesco Macciò, Rita Morandi, Lorenzo Mullon, Alessandra Paganardi, Adriana Perrotta, Julia Pikalova, Paolo Rabissi, Sebastiano Romano, Franco Romanò, Luisella Vèroli, Gabrio Vitali, Claudio Zanini.


venerdì 27 settembre 2024

Tra Storia e storie. Il battesimo del libro “di epica nuova, laboratorio di poesia critica”, edizioni Youcanprint, ’24.

 



giovedì 6 giugno 2024

A proposito di epidemie. 'Sulla stupidità', rilettura della conferenza di Robert Musil alla Lega austriaca del lavoro del 1937

“Ciascuno di noi dovrebbe certamente stanarla innanzitutto in se stesso; non aspettare di riconoscerla dalle sue grandi epidemie storiche...”, così Robert Musil, nella sua conferenza tenuta a Vienna l’11 e il 17 marzo 1937, su invito della Lega austriaca del Lavoro, col titolo: Sulla stupidità [1].
Inutile essere o meno d’accordo con il dovere di stanare la stupidità anzitutto in se stessi (così come voglio evitare di interrogarmi troppo sul motivo per cui il libro ha preso improvvisamente a occhieggiare da uno scaffale alto), a me sembra che la seconda parte della frase crei un problema ben più importante.
Musil premette con prudenza di essere consapevole che l’iniziativa di parlare della stupidità potrebbe anche essere interpretata come presunzione ma poi sembra più deciso a richiamare a una vera posta in gioco: non si può aspettare di veder dilagare la stupidità come una epidemia, occorre riconoscerne da subito questa potenzialità partendo da quella che alligna in noi stessi.
A quale scopo? Cosa sottintende Musil? Non viene forse da domandarsi da dove gli proviene l’urgenza di avvisare pacificamente i suoi concittadini che quanto stanno vedendo intorno a sé di stupido è già sufficientemente diffuso da essere ormai quasi un’epidemia?

Essendo il nostro potere e il nostro sapere di umani limitati, argomenta lo scrittore, siamo di fatto costretti a dare giudizi precipitosi, imprecisi, anche nelle scienze, anche se la pratica ci ha insegnato a contenere questo errore e magari anche a correggerlo con un esercizio di umiltà. Perché non è poi così semplice individuare e marchiare la stupidità.
Ecco allora una prima conclusione possibile: “...Questo è uno dei punti importanti: oggi le condizioni della vita sono tali – così complesse, difficili e confuse – che le stupidità occasionali dei singoli possono diventare facilmente stupidità costituzionale della collettività.”
E quando ciò avviene siamo allora ormai dentro una di quelle grandi e temibili ‘epidemie storiche’.

Cosa succede a Vienna, nelle sue strade, nei giorni della conferenza dello scrittore?

Vienna e l’intera Austria non sono ormai più in grado di opporsi alle pressioni della Germania nazista volte all’annessione. Isolata in Europa anche a causa dell’avvicinamento tra Italia fascista e Germania, abbandonata alla sua sorte, mancano pochi mesi all’Anschluss, che vedrà le truppe tedesche sfilare per Vienna. Come Musil possa aver vissuto quel periodo possiamo immaginarlo. Quando nel ’33 Hitler aveva preso il potere a Berlino lo scrittore aveva abbandonato la città con la moglie Martha, di origine ebraica, per Vienna. Nel marzo del ’38 all’arrivo dei tedeschi riuscirà da lì a fuggire attraverso l’Italia verso la Svizzera, dove morirà qualche anno dopo.

Il saggio Sulla stupidità travalica questi avvenimenti. Infatti, parla comunque anche a noi oggi. Ma con la scrittura di Musil ci si trova sempre bene. Lo ascolteresti come una voce familiare per un tempo indefinito, magari perdendo proprio il tempo reale della vita intorno. Così a leggere L’uomo senza qualità. In questo saggio però sembra arrivare in qualche modo un turbamento, una preoccupazione (che non è sicuramente quella che a Ulrich procura l'inquieta sorella Agathe!) che spinge alla prudenza del dire.
Anzitutto lo scrittore ci invita alla modestia come metodo di avvicinamento alla questione, perché, ci spiega, a guardare bene, siamo tutti un po’ stupidi: “come poeta - ci tiene a precisare - la stupidità è una mia vecchia conoscenza”, e ribadisce poco dopo “del resto colui che di solito chiamiamo ‘un bello spirito ’ è al tempo stesso ‘un bello stupido’".  Poi per convincerti articola in numerosi percorsi il suo messaggio fin dentro la psicologia, la psicanalisi, la sociologia, la linguistica, la poesia appunto... ma confessando di sé sin dall’inizio che di fronte alla stupidità: “...sono in posizione d’inferiorità, perché non so cosa sia. Non ho scoperto nessuna teoria della stupidità con cui accingermi a salvare il mondo”.

Certo non può fare a meno di punzecchiare e smascherare quanti non si tirano indietro dal dichiarare con presunzione la propria intelligenza! Soprattutto coloro che sono impegnati nella sfera pubblica, quelli che parlano come massa, che adoperano ‘noi’ per dire ‘io’.
“Anche l'uomo che agisce nella storia dice o fa dire di sé, non appena ne hai il potere, che egli è intelligente, ispirato, degno, sublime, misericordioso, eletto da Dio e chiamato a segnare nella storia un'orma incommensurabile [...]. Una sorta di ceto medio-basso dello spirito e dell’anima... si abbandona del tutto spudoratamente al proprio bisogno di presunzione, non appena può farsi avanti dietro l’usbergo del partito, della nazione, della setta o della tendenza artistica e può dire ‘noi’ invece di ‘io’.”.

Anche l’usbergo della ‘tendenza artistica’! Che poi, detto per inciso mio, la ‘tendenza artistica’ spesso coincide con quella dell’‘io’. Ma Musil in questo caso è anche più feroce, là dove la stupidità gli risulta in qualche modo legata alla genialità: “Il divieto di parlare molto, e in particolare di parlare molto di sé, sotto pena di passare da stupidi, viene aggirato dall’umanità con un espediente del tutto particolare: per mezzo del poeta. Il poeta ha il permesso di raccontare a nome dell’umanità che il pranzo è stato di suo gusto, oppure che fuori c’è il sole; può svelare i moti del suo animo, propalare segreti, fare confessioni; può rendere conto di tutto se stesso senza riguardi... In questo modo l’umanità parla ininterrottamente di se stessa! Con l’aiuto del poeta, essa ha già raccontato un milione di volte le stesse storie e le stesse esperienze... Non dovremmo insinuare il sospetto che anche l’umanità sia stupida, alla fin fine, per l’uso che fa della sua poesia e per il modo con cui la poesia stessa si adatta a tale uso?”[2]

Qui a me verrebbe da chiosare. Sono convinto che Musil adopera poeta anche per dire poeta donna, ma oggi non posso fare a meno di chiedermi se davvero non aveva in mente solo una folla di poeti maschi! In ogni caso Musil anticipa qui termini di un dibattito tuttora vivo nella comunità (absit iniuria verbo!) italiana di poeti e poete. Ma proprio parlando di poesia e linguaggio Musil si espone e ci suggerisce qualche carattere della stupidità: l’ingenuità eccessiva, la sostituzione di idee complesse con una storia molto semplice, una narrazione con elementi superflui, circostanze accessorie oppure ornamentali...[3]

Ma queste sono solo premesse. Poi Musil affonda l’analisi. Bisogna saper distinguere tra stupidità ‘occasionale’ e stupidità ‘costante’, tra errore e dissennatezza.
La parola stupidità secondo Musil abbraccia due dimensioni in sostanza assai diverse: esiste a suo parere una stupidità onesta e schietta e una stupidità che, un po’ paradossalmente, è addirittura un segno di intelligenza. Quest’ultima è di gran lunga la più pericolosa!
“La stupidità onesta è un po’ dura di comprendonio. È, come si dice, lenta a capire. È povera di idee e di parole e maldestra nel loro uso. Predilige le cose abituali, perché, ripetendosi spesso, si imprimono saldamente nella sua memoria, e lei, quando ha afferrato qualcosa, non ha molta voglia di farsela portar via troppo in fretta o di lasciare che qualcuno la analizzi; e neppure di mettersi a sottilizzarci su lei stessa... In compenso si attiene di preferenza a ciò che può sperimentare attraverso i sensi, a ciò che può, per così dire, contare sulle dita... E se talvolta non fosse così credulona, così pasticciona e al tempo stesso così incorreggibile da ridurti quasi alla disperazione, sarebbe proprio una figura simpatica.”[4]
I problemi veri cominciano dunque col secondo tipo di stupidità, quella ‘sostenuta’ e piena di pretese.
“Quest'ultima non è vera mancanza di intelligenza. È piuttosto un fallimento dell'intelligenza che si è arrogata dei compiti che non erano i suoi...[...]... questa stupidità sostenuta è la vera malattia della cultura (affrontiamo subito un malinteso possibile: essa significa incultura, falsa cultura, cultura che si è costituita su false basi, sproporzione fra il contenuto e il vigore della cultura).
Descrivere questa stupidità sostenuta è impresa quasi senza fine. Essa tocca i più alti valori dello spirito... la stupidità intelligente contribuisce a vivacizzare la vita spirituale soprattutto nel senso che la rende incostante e sterile.”[5]
Cos’altro aggiungere? sembra chiedersi Musil. Ricorre persino a una autocitazione di uno scritto di un anno prima: “Ho già scritto qualche tempo fa che non c'è pensiero importante che la stupidità non sappia utilizzare. La stupidità è mobile in tutte le direzioni e può indossare tutte le vesti della verità, la verità invece ha una sola veste e una sola via ed è sempre in svantaggio, ...la stupidità alla quale mi riferisco non è una malattia mentale, eppure è la più letale delle malattie dello spirito: è una malattia pericolosa per la vita stessa”.

Che Musil stesse in questa occasione, con il suo interloquire problematico (che a torto attribuiresti alla sua ben nota ironia) tentando di convincere prudentemente i suoi ascoltatori a aprire gli occhi sulla stupidità tragica che stava intorno a loro (ripeto, mancano pochi mesi all'Anschluss, all'arrivo dell'austriaco cancelliere del Reich e Fürer della Germania) non è in realtà una inferenza del tutto personale. La critica più recente si è lasciata alle spalle la versione di un Musil ‘impolitico’ che era stata alimentata nei primi decenni dopo la sua morte. [Il link al quale rimando in nota indirizza alla maggior parte dei commenti e recensioni che appunto smentiscono quella lettura[6]. Mi basta qui ricordare che nell’estate del ‘35 Musil aveva tenuto un discorso pubblico a Parigi, al “Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura” organizzato in gran parte da comunisti francesi e tedeschi, nella quale, davanti ad una platea che in gran parte simpatizzava con l’Unione Sovietica, parlò di due “forme di governo fortemente autoritari, il bolscevismo e il fascismo”].

Che poi qualcuno dei lettori di oggi in quelle riflessioni possa vederci un invito a stanare in sé la stupidità per poterla meglio riconoscere nei comportamenti di massa dell’era di Internet, credo sia legittimo ancorché non propriamente facile. La stupidità di oggi a mio parere è molto più sottile, rarefatta e tuttavia impregnante permeante saturante, tanto quanto asciuga e svuota, rispetto ai tempi di Musil.

Ma alcune circostanze di qualche lontana somiglianza e analogia sembrerebbero quanto meno invitarci a accelerare i tempi per marcare la differenza tra le nostre stupidità ‘simpatiche’ e quelle letali. Prima che quest’ultime abbiano la meglio sulle specie sostenibili.

 

 


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[1] Robert Musil, Sulla stupidità e altri scritti, Oscar Mondadori, 1992

[2] Cit. pag.244-5

[3] Cit. pag. 257

[4] Cit. pag. 255

[5] Cit. pag. 257

[6] Scrivere nella scheda di ricerca sul browser: "Musil e il nazismo". Si apre una schermata che rimanda a documenti critici sempre interessanti.

venerdì 24 maggio 2024

'La vita di Lucrezio', nuova edizione del saggio di Luciano Canfora sull'autore del De rerum natura

                                                        

L'amore per Lucrezio e il suo De rerum natura, se ne avesse bisogno, non potrebbe che essere rinnovato dalla lettura di La vita di Lucrezio di Luciano Canfora, filologo classico, grecista, storico e saggista italiano, riedito di recente con Sellerio.
Già la nuova introduzione, rispetto all'edizione del 1994, è un'appassionata disamina dei principali problemi che la figura di uno dei massimi poeti della latinità ci ha lasciato. A cominciare dal fatto che le notizie biografiche su di lui sono così poche che solo con il lavoro appassionato dello studioso si riesce a delineare i contorni della sua esistenza.
Perché il problema sta proprio qui, fatta salva l'ingiuria dell'incuria e della cattiva sorte nella conservazione dell'opera, infatti ci si chiede: perché? Perché così poche notizie? E perché tra di esse alcune false? O quanto meno né verosimili né documentate con certezza? Tra di esse ormai, grazie a Canfora certo ma non solo a lui (l'autore allega una sterminata bibliografia) c'è quella della sua pazzia e poi del suo suicidio.
Quello che rimane, cosa singolare, è spesso solo una citazione di versi che testimonia l'amore per l'autore e che, se proviene da personaggi politici oltre che da altri poeti di epoche successive a quella di Lucrezio, la dice lunga sulla diffusione e la permanenza della fama dell'autore.
Occorre seguire l'indagine di Canfora sin dentro il libro.
Pagina dopo pagina le risposte arrivano, anche se bisogna arrivare alla fine per capire che in definitiva pur rifiutando qualsiasi semplificazione la soluzione del tutto non era poi così difficile. Forse anche più comprensibile di quanto potevamo pensare se ci lasciassimo andare a stabilire nessi tra il momento storico vissuto da Lucrezio e i nostri tempi.
Occorre prendere il tutto con energia e risolutezza. Dire insomma che Lucrezio pretende di portare in versi la filosofia e la scienza di Epicuro in un mondo nel quale filosofia e scienza non sono apprezzate dai più. Perlomeno non ancora, essendo Roma, nel primo secolo avanti cristo, appena entrata con le sue legioni nel novero di una grande potenza militare, capace di gestire con le sue istituzioni giuridiche e politiche il sommarsi di pratiche del comando e amministrazione delle ricchezze, ma non attratta da speculazioni astratte.
Occorre dire subito dopo che nel De rerum natura gli dei non hanno nessun valore per la vita: verosimilmente la loro esistenza è separata e del tutto indifferente verso gli umani. Che la morte non è da temere perché quando c'è la vita la morte non c'è e quando c'è la morte non c'è la vita. Che la religione con i suoi apparati semina paure che non hanno ragione di esistere. Che, infine, è meglio tenersi in disparte dai conflitti e dalle guerre perché è meglio vivere seguendo principi virtuosi e pacifici piuttosto che espandere comando imperiale sulle genti: "... satius multo iam sit parere quietum// quam regere imperio res velle et regna tenere" (De rerum natura, versi 1129-1130 del libro V)" e valgono qui le parole di Canfora: "Nato all'incirca nel 94 a.c. Lucrezio ha fatto a tempo a vedere la guerra civile mariano-sillana e le proscrizioni e prima ancora la guerra sociale: un decennio di ferocia ininterrrotta...".
Tutte idee ( tanto meno saranno gradite dai circoli letterari augustei un paio di decenni più tardi) che sono quasi interamente l'opposto di quanto si agita nella testa dei contemporanei del poeta. Con qualche precisazione necessaria.
L'epicureismo, con buona pace dei cultori del mos maiorum che non guardavano di buon occhio il dilagare della cultura greca, nel I secolo a.C. è da tempo già diffuso a Roma: qui tra l’89 e l’84 a.C. tiene lezione il filosofo Fedro che è amico e maestro di Cicerone: alla sua scuola si ritrovano insieme Cesare, suo suocero Lucio Pisone, l’amico nonché editore di Cicerone Tito Pomponio Attico, il cesaricida Gaio Cassio. Negli anni immediatamente successivi fiorisce anche nei dintorni di Napoli un vero e proprio circolo epicureo,
e per dintorni di Napoli sembra che si tratti di Ercolano o Pompei dove Canfora sostiene essere nato e cresciuto Lucrezio!
Cicerone condanna gli aspetti più popolari dell'epicureismo che in qualche modo, col suo materialismo di fondo, attrae il popolo con la sua natura edonistica quasi una legittimazione a una vita dissoluta e dedita ai piaceri immediati. Ma bisogna tenere conto che politicamente in generale i filosofi non avevano gran credito e una certa apertura mentale, una libera curiosità intellettuale era ancora possibile nella repubblica
di metà del secolo. Cicerone stesso lo apprezzava.
Lucrezio è sicuramente accreditato come epicureo a tutto tondo. La sua fama di poeta filosofo e scienziato si afferma ben presto ma non sappiamo né come né quando. Se il De rerum natura è stato pubblicato mentre era in vita (forse da Cicerone o dall'amico editore Attico), se parti del poema giravano già tra amici e conoscenti.
Canfora riesce a mettere però insieme numerose tracce che mostrano che era sicuramente conosciuto e apprezzato. Nei circoli letterari come in quelli politici contemporanei. Ma non bisogna trarre conclusioni false. L'opera del poeta, in quel mondo di politici guerrieri, era giusto buona per il delectari, il passatempo, l'entertainement diremmo oggi: cioè in pratica la poesia non contava niente, forse solo un piumetto in più di quanto conta oggi (Catullo, di poco più giovane di Lucrezio, lo sapeva bene e se ne infischiava del bon ton). Questo significa che quando si tratta di questioni di potere in crisi e della loro gestione - la salus della repubblica! - ormai quasi imperiale non era più tempo di dedicarsi a distrazioni poetiche. Se Lucrezio muore intorno al 50 a.c. la più terribile delle guerre civili era sul punto di scoppiare. Cesare varca il Rubicone nel 49 a.c. e non è detto che Lucrezio non fosse ancora vivo.
Ma il problema è che a partire da un certo momento il nome di Lucrezio scompare. Non ne parla più nessuno. Bisognerà attendere vari decenni per trovare citazioni dei suoi versi. E quando Virgilio, attesta Canfora, si rifa con evidenza a versi di Lucrezio, non lo fa direttamente e non cita comunque mai il suo nome. Una sorta di damnatio memoriae in vita era calata sul poeta.
La spiegazione di Canfora sta quasi interamente nella considerazione che Lucrezio, al di là dei suoi versi, era ormai troppo scomodo per le sue idee troppo radicali e legate all'epicureismo (e all'esaltazione di Epicuro come un dio, un inventore, uno scienziato). Ma, forse ancora di più, lo era alla luce delle considerazioni come quella citata più sopra che invita ad abbandonare la politica imperialista e questa che aggiungo che mette un nesso tra guerra civile e arricchimenti individuali: ...sanguine civili rem conflant divitiasque conduplicant avidi, caedem caede accumulantes... (gonfiano nella guerra civile le proprie ricchezze raddoppiandole accumulando delitti su delitti).
E tuttavia i suoi contemporanei lo hanno conosciuto e stimato e sanno i contenuti del suo poema ma non citano mai il suo nome. Basti qui rammentare con le parole di Canfora il caso Virgilio, emblematico per molti aspetti non foss'altro perché anche lui era un epicureo 'pentito'. Sono pagine di bella filologia che seminano anche emozioni.
Il verso 1130 del libro V sopra citato dice Canfora: "...si spinge a dire che è meglio la quieta obbedienza ... quam regere imperio .... et regna tenere. Concentra in quel solo verso l'attacco alla pulsione imperialistica: cioè va ben oltre il vivi in disparte del maestro Epicuro o il mesto motto oraziano 'non visse male chi passò dalla nascita alla morte inosservato' (Epistole, I, 17, 10) cui di solito si rinvia quando si commenta questo verso lucreziano. Che invece dice ben altro.
Un attacco di natura politica che, dice Canfora, non sfuggì a Virgilio, che ormai la pensava molto diversamente. Così continua Canfora:
"Nell'infelice finale augusteo-imperiale del VI libro dell'Eneide, dove dall'Ade Anchise profetizza al figlio Enea la futura grandezza di Roma, Virgilio fa pronunciare al vecchio Anchise questo perentorio ordine-auspicio, rivolto non più al misero Enea ma "al popolo romano" quasi in tono comiziante: Tu regere imperio populos, Romane, memento! (V. 851). E ad abundantiam gli fa contestualmente pronunciare una sprezzante svalutazione della scienza, dell'oratoria e delle arti figurative, campi nei quali (riconosce) i Romani sono inferiori "ad altri", cioè al mondo ellenizzato."
Quel libro VI e peraltro tutto il poema non sfuggì nemmeno a Augusto. Alla morte di Virgilio che aveva raccomandato di distruggere il poema perché troppo doveva aggiustarlo Augusto si oppose.
Non penso che Virgilio avrebbe emendato le sue indicazioni sui futuri imperiali di Roma, il senso complessivo della sua operazione politico letteraria era ben altrimenti radicata nell'esaltazione di Roma e dei suoi destini.
Un'operazione così riuscita che ancora negli anni sessanta del secolo scorso alla Statale di Milano l'insegnante di letteratura latina, noto fascista che godeva della libertà di esercitare la sua professione nella repubblica democratica, imponeva la conoscenza approfondita dell'Eneide, pretendeva che leggessimo qualche esametro e sapessimo individuare la situazione. Solo più tardi ho avuto modo di capire e scegliere, in fondo non era l'Eneide il vero capolavoro di Virgilio, le Georgiche avevano molto altro da dire e prossimo al sogno di pace di Lucrezio, anche se movimentato dagli urti tra loro degli atomi.




lunedì 15 aprile 2024

Scrive Luciana Tufani a proposito di "Bestie, animali, specie", youcanprint 2023




Scrive Luciana Tufani (scrittrice, editrice e femminista italiana, direttrice della prima rivista italiana di recensioni Leggere Donna, fondatrice e presidente del Centro Documentazione Donna di Ferrara) che è completamente d'accordo con la mia visione del mondo che ho saputo "esprimere poeticamente in maniera molto efficace". Aggiunge poi che "la specie umana il mondo lo sta distruggendo e a differenza di te non vedo una via di uscita." Conclude poi che mi ringrazia "a nome di tutti gli altri animali ai quali mi sento molto più vicina che a quelli della specie "Homo insipiens"."

Ho dovuto andare e rintracciare i modi con i quali ho inteso comunicare nel libro il mio credo in una via di uscita per la nostra specie dal baratro autodistruttivo nel quale sembriamo sprofondare.

La via d'uscita sembra che stia nella prefigurazione che il gatto filosofo fa di una migrazione verso altre stelle con i formidabili strumenti dell'ingegneria artificiale. Una sorta di profezia gattesca che assomiglia più all'ottimismo della volontà gramsciano rispetto al pessimismo della ragione leopardiana.

Le ho risposto che quello che contava era sia per me che per lei, che scrive, pubblica, dirige e  nel femminismo è voce autorevole, che riuscissimo a creare, con forme diverse di scrittura, momenti di comunicazione calorosa tra di noi. Col garbo del giardino.


giovedì 28 marzo 2024

Lettura critica di Gabriella Galzio di "BESTIE ANIMALI SPECIE" di Paolo Rabissi nell' "Incontro tra autori" del 19 marzo 2024

 

di Gabriella Galzio


Abbiamo accolto con piacere (noi del gruppo degli Incontri di autori, ndr) l’ultimo nato di Paolo Rabissi, BESTIE ANIMALI SPECIE, pubblicato con Youcanprint nell’autunno del 2023 (con un’immagine di copertina terrestre e cosmica, a cura dello stesso autore). Un libro, dunque, recentissimo. Ma noi possiamo dire che questo libro l’abbiamo visto nascere, perché ne abbiamo presentato e commentato in anticipazione alcune parti; non solo, è un libro che s’intreccia fortemente con la riflessione condotta da Paolo Rabissi e Franco Romanò nel loro blog sul volto nuovo del genere epico, una riflessione recepita con vivo interesse anche nei nostri “Incontri tra Autori”, poi confluita nell’antologia Nell’oro della quercia, e infine coronata dalla nascente antologia di epica nuova curata dai nostri Rabissi e Romanò. Personalmente sono contenta di questa virtuosa circolarità e lavoro collettivo che si sottrae alle logiche competitive e personalistiche di tante iniziative di poesia cui sfugge il carattere di elaborazione collettiva della teoria letteraria.
E del resto, quest’ultimo di Rabissi, è un libro che ha bisogno di aria, che si apre a un respiro più ampio, non solo perché opera il salto quantico della coscienza di genere e della coscienza di specie dilatando il perimetro della poesia civile; non solo, dunque, perché allarga lo spettro della storia fino a comprendervi la specie, e perché dalla storia si congeda, non solo quella occidentale, ma quella segnatamente patriarcale, ma perché anche sotto il profilo formale prende il largo dal Rabissi più breve e conciso, cui il suo stile asciutto e sobrio ci aveva abituato fino a I contorni delle cose (del 2010), che pure già contiene qualche testo prosastico che evoca Sereni, dove, pur nella naturalezza dei ritmi, già cade la necessità del verso. Eravamo nel 2010, sono passati dunque tredici anni, e da allora Rabissi ne ha fatta di strada e, appunto, ha cominciato a prendere il largo, ha preso a narrare, alla ricerca di verità, e poi a conversare in forma di metaloghi, dietro cui si cela con pacata ironia la sua tensione etica: che fare delle complicazioni umane su ciò che è “la morale, il bello, il giusto”?; quegli stessi metaloghi che ritroveremo nella annunciata antologia di epica nuova, laboratorio di poesia critica, segno che stile dello scrittore e paradigmi del pensatore, scrittura e metascrittura, procedono di pari passo - come si suol dire - con continui rimandi interni alla sua opera. Un’opera, dunque, fortemente dialogica e relazionale, come emerge dai testi, vedi il magnifico dialogo sulla bellezza con Albert Einstein – "Bello il tuo Universo..." ripetuto per anafora – cui fa da sfondo Giordano Bruno; e come dimostrano l’intenso dialogo teorico intrattenuto con Romanò o l’intensa relazione di confronto col genere altro da sé che da una vita lo lega alla sua compagna, alla quale sarei tentata di dire: brava, hai fatto un buon lavoro! Ma tornando allo stile, questo è un libro che prende il largo fino a sfidare lo stesso limite tra righe e versi, in cui la sperimentazione, e forse persino l’attrattiva ludica della sperimentazione, mettono a repentaglio l’identità stessa della poesia (di cui parla Francesco Macciò)(nel medesimo incontro, ndr), quando le righe sembrano prendere il sopravvento sui versi. E del rischio che corre, del resto, Rabissi è ben consapevole, come attestano i suoi stessi versi in una dichiarazione di poetica: “Ci vuole coraggio per fare di una riga un verso/ accendere parole senza incendiarle…”. Un libro, dunque, che sia per contenuti, sia per aspetti formali, inclina verso momenti di discontinuità e di messa in discussione della tradizione. Il che trova conferma nello stesso dire e dirsi dell’autore: “Sono figlio di quel Novecento che ha mandato tutto a gambe all'aria e che di 'soggetti imprevisti' oltre al femminismo (quello radicale, di liberazione) ce ne ha sfornati tanti altri. La rottura, per me irrinunciabile, tra generi, categorie, paradigmi ecc, avvenuta nel mondo dell'arte come nel sociale e nel politico ecc., a partire dai primi decenni del '900, ha chiesto e tuttora chiede di tentare ritmi nuovi, di provarci. Per cui, lontano dal recupero di ogni tradizione se non rivisitata alla luce criticissima del presente e del suo più alto livello di autocoscienza, brancolo a tentoni ma senza la voglia di definizioni nuove e categoriche (il centro di gravità permanente della canzone). Insomma, voglio dire che tra prosa e poesia c'è meno distinzione di quanta mai in generale ce ne sia stata. Con buona pace di chi vorrebbe restaurare la tradizione tout court. Io ho però un punto di riferimento ed è la mia tendenza alla narrazione. Narro anche in poesia. Non rinuncerei mai a scrivere in righe, come ho fatto, la rivolta dei ciompi nel '300. Né rinuncerei mai a scrivere in versi (quei versi così lunghi che cercano a fatica ritmi nuovi, anche se la musica jazz e la dodecafonica ecc. mi risuonano dentro insieme ai ritmi della musica lirica: mio padre era un tenore lirico!) episodi della mia infanzia o del me adulto innamorato.”  Sin qui le parole notturne del nostro autore.

E ora proviamo ad illuminare più da vicino questi aspetti emersi dal libro di Rabissi.
E per far questo cogliamo il suggerimento di Romanò dato nella prefazione – partiamo dal “montaggio”, ovvero dalla struttura del libro, laddove la misura aurea del respiro poematico di Rabissi è data dal poemetto. In tutto, il libro consta di sette parti, e in ognuna di queste parti, le poesie portano ciascuna un titolo, tale da assegnare piena autonomia al singolo testo; ciò nonostante, l’andamento poematico della versificazione chiama a inanellare le singole poesie in un unico poemetto; per cui avremmo sette parti tendenti al loro interno al poemetto. A loro volta queste parti, una dopo l’altra, suggeriscono una sorta di suite in movimento, sicuramente in transito e in divenire, se non in fuga - osservate i titoli che attraversano l’intero libro: “Lucy... Transizione all’umano”, “Premondi”, “Movimenti in fuga”, “Movimenti di strada”, “Movimenti-metaloghi”…qui niente ha stabile dimora, tutto è provvisorio, sta per divenire, o prossimo a fuggire.
Ora, in questo movimento che attraversa il libro, l’attacco è saldamente affidato ai versi, che sin dall’inizio avanzano sovrani, anche con incedere epico, fino a un punto di snodo in cui cominciano a prevalere le righe, a dire il vero con una prima incrinatura della versificazione già nella seconda parte del libro a fare da avvisaglia; per approdare poi definitivamente alla prosa dell’ultima parte con i “Movimenti-metaloghi” che si richiamano alle leopardiane Operette morali (detto per inciso, Leopardi è l’omega del libro, così come ne è anche l’alfa con riferimento allo Zibaldone). Dicevamo, punto di snodo tra poesia e prosa sembra essere l’esperienza americana – il suo viaggio in Arizona, Tucson - i cui esiti di scrittura vanno a comporre un primo nucleo - “Minidiario da Tucson” - che ritroviamo oggi nella Parte sesta, sotto il titolo “Diario di Occidente”; e forse non è un caso, perché a Tucson qualcosa sembra aver mutato la poetica di Rabissi; di conseguenza, la poesia si fa più colloquiale, più easy nel parlato, quasi più documentaristica, in presa diretta. In questi testi, composti da righe, mi è sorta insistente la domanda: poesia o prosa? È il caso esemplare di “Jumping cholla”. Ho provato a leggerla come poesia, e ho sentito una sorta di versificazione fratturata, una scrittura sincopata da enjambement che fratturano il verso, lasciandosi dietro un frammento, seguito da un verso lunghissimo, come si può evincere anche graficamente. Ma francamente ho avvertito una forzatura. Se, invece, ripristinavo la prosa di “Minidiario da Tucson” ricevuta da Rabissi nel febbraio del 2021, la scrittura tornava a fluire anche graficamente. Allora la domanda è: perché Rabissi ha impresso questa frattura nel testo? Per me Rabissi è giunto in un’area di sperimentazione … quanto risolta, lascerei che sia lui a risponderci.
E veniamo all’epica nuova di Rabissi. E prendiamo, esemplare, la Parte quarta, dal titolo “Movimenti di strada”, che ha una sua dimensione poematica unitaria omogenea. Qui l’Io poetico si pone al di là del “noi”, del “nostro” della specie umana, si pone dalla parte degli orsi, delle faine, rivelando di aver già da tempo compiuto la sua rivoluzione copernicana, di essersi decentrato rispetto all’umano. Così come si è decentrato rispetto al suo genere: “Che la rivoluzione fosse una questione tra uomini/ questo fu subito chiaro.” Per inciso, di queste inversioni che danno risalto all’oggetto della riflessione, ve ne sono più d’una, cosicché l’anastrofe si configura quale vero e proprio tratto stilistico. Coscienza di genere (maschile e non neutro) nella rivoluzione, e consapevolezza della non neutralità delle macchine, avanzano di pari passo, e la concorrenza con cyborg serventi contende alla giovane operaia l’ultimo gradino nella scala dei costi. È qui che incontriamo l’epica nuova di Rabissi, libera, irregolare, ma dove abbondano i ritmi dattilici. In un verso epico, compiuto dal punto di vista metrico, è qui sintetizzata l’angusta condizione del lavoro servile: “fabbriche morte deserti affanni di uomini e donne” (che ritmicamente ricorda l’esametro dattilico, composto da 5 dattili + 1 trocheo), a fronte della quale il lavoro animale offre ben altra visione di grazia: “Che perfezione fanno le ibis rosse…”.
In sintesi il lavoro in progress di Paolo Rabissi offre un esempio di quel confronto tra continuità e discontinuità con la tradizione che ci riguarda e ci invita al dibattito sul rapporto tra epica nuova ed epica classica, tra poesia e prosa, tra righe e versi, se possibile fino al superamento delle antinomie; ciò che vogliamo, in fondo, è stringere un patto rinnovato con la scrittura e portarlo a un grado più alto, insieme.

                                                                                                                                                                                

 Nota: l'incontro tra autori è visibile a questo link: QUI

 






Ma perché Graeber e Wengrow si sono messi a studiare vicende umane di quarantamila anni fa? (seconda puntata)

 Cioè in sostanza essendo il furto di lavoro alla base del sistema capitalistico ne viene che questo sistema è un sistema di ladri. Questo comporta un cortocircuito tra economia e etica. Il giudizio etico torna a imporsi nel terzo millennio d.c. Altro che ripararsi dietro l'ormai secolare 'non si danno giudizi moralistici' sull'economia. Da cui segue che l'economia avrebbe le sue leggi autonome indipendenti dalla morale. E di conseguenza anche la politica, ma lì la morale non esiste dal tempo di Machiavelli, non perché lui ne l'abbia tolta ma perché, ci dice, a andare a vedere come funziona la politica essa funziona bene solo se non tieni conto della morale.

Ma perché Graeber e Wengrow si sono messi a studiare vicende umane di quarantamila anni fa? Semplice a dirsi ma non è cha la risposta sia poi così complessa, lo hanno fatto perché pensavano di poter dimostrare che il sistema capitalistico non è l'unico sistema possibile di convivenza umana né che per forza un sistema di organizzazione sociale debba essere basato sul furto.

I due insomma vogliono quanto meno fare presente che l'attuale sistema mondiale dominato dall'economia capitalistica non è davvero l'unica soluzione veramente possibile per organizzare il pianeta. In realtà non si attardano a rilevare come questo sistema sembra minato dall'interno dalla cattiva manutenzione del pianeta, dalla proliferazione di guerre a bassa intensità ma a alta ferocia, dall'incapacità di agire per il bene comune.

Essi rovesciano l'assunto e spingendosi fin là dove possono arrivare i sofisticati strumenti di indagine antropologica, cioè alle soglie della civiltà, dimostrano che no quello che viviamo non è il destino finale del mondo perché l'umanità ha mostrato di poter organizzarsi in  maniera diversa dall'attuale e che ciò dipende da scelte precise.