venerdì 24 maggio 2024

'La vita di Lucrezio', nuova edizione del saggio di Luciano Canfora sull'autore del De rerum natura

                                                        

L'amore per Lucrezio e il suo De rerum natura, se ne avesse bisogno, non potrebbe che essere rinnovato dalla lettura di La vita di Lucrezio di Luciano Canfora, filologo classico, grecista, storico e saggista italiano, riedito di recente con Sellerio.
Già la nuova introduzione, rispetto all'edizione del 1994, è un'appassionata disamina dei principali problemi che la figura di uno dei massimi poeti della latinità ci ha lasciato. A cominciare dal fatto che le notizie biografiche su di lui sono così poche che solo con il lavoro appassionato dello studioso si riesce a delineare i contorni della sua esistenza.
Perché il problema sta proprio qui, fatta salva l'ingiuria dell'incuria e della cattiva sorte nella conservazione dell'opera, infatti ci si chiede: perché? Perché così poche notizie? E perché tra di esse alcune false? O quanto meno né verosimili né documentate con certezza? Tra di esse ormai, grazie a Canfora certo ma non solo a lui (l'autore allega una sterminata bibliografia) c'è quella della sua pazzia e poi del suo suicidio.
Quello che rimane, cosa singolare, è spesso solo una citazione di versi che testimonia l'amore per l'autore e che, se proviene da personaggi politici oltre che da altri poeti di epoche successive a quella di Lucrezio, la dice lunga sulla diffusione e la permanenza della fama dell'autore.
Occorre seguire l'indagine di Canfora sin dentro il libro.
Pagina dopo pagina le risposte arrivano, anche se bisogna arrivare alla fine per capire che in definitiva pur rifiutando qualsiasi semplificazione la soluzione del tutto non era poi così difficile. Forse anche più comprensibile di quanto potevamo pensare se ci lasciassimo andare a stabilire nessi tra il momento storico vissuto da Lucrezio e i nostri tempi.
Occorre prendere il tutto con energia e risolutezza. Dire insomma che Lucrezio pretende di portare in versi la filosofia e la scienza di Epicuro in un mondo nel quale filosofia e scienza non sono apprezzate dai più. Perlomeno non ancora, essendo Roma, nel primo secolo avanti cristo, appena entrata con le sue legioni nel novero di una grande potenza militare, capace di gestire con le sue istituzioni giuridiche e politiche il sommarsi di pratiche del comando e amministrazione delle ricchezze, ma non attratta da speculazioni astratte.
Occorre dire subito dopo che nel De rerum natura gli dei non hanno nessun valore per la vita: verosimilmente la loro esistenza è separata e del tutto indifferente verso gli umani. Che la morte non è da temere perché quando c'è la vita la morte non c'è e quando c'è la morte non c'è la vita. Che la religione con i suoi apparati semina paure che non hanno ragione di esistere. Che, infine, è meglio tenersi in disparte dai conflitti e dalle guerre perché è meglio vivere seguendo principi virtuosi e pacifici piuttosto che espandere comando imperiale sulle genti: "... satius multo iam sit parere quietum// quam regere imperio res velle et regna tenere" (De rerum natura, versi 1129-1130 del libro V)" e valgono qui le parole di Canfora: "Nato all'incirca nel 94 a.c. Lucrezio ha fatto a tempo a vedere la guerra civile mariano-sillana e le proscrizioni e prima ancora la guerra sociale: un decennio di ferocia ininterrrotta...".
Tutte idee ( tanto meno saranno gradite dai circoli letterari augustei un paio di decenni più tardi) che sono quasi interamente l'opposto di quanto si agita nella testa dei contemporanei del poeta. Con qualche precisazione necessaria.
L'epicureismo, con buona pace dei cultori del mos maiorum che non guardavano di buon occhio il dilagare della cultura greca, nel I secolo a.C. è da tempo già diffuso a Roma: qui tra l’89 e l’84 a.C. tiene lezione il filosofo Fedro che è amico e maestro di Cicerone: alla sua scuola si ritrovano insieme Cesare, suo suocero Lucio Pisone, l’amico nonché editore di Cicerone Tito Pomponio Attico, il cesaricida Gaio Cassio. Negli anni immediatamente successivi fiorisce anche nei dintorni di Napoli un vero e proprio circolo epicureo,
e per dintorni di Napoli sembra che si tratti di Ercolano o Pompei dove Canfora sostiene essere nato e cresciuto Lucrezio!
Cicerone condanna gli aspetti più popolari dell'epicureismo che in qualche modo, col suo materialismo di fondo, attrae il popolo con la sua natura edonistica quasi una legittimazione a una vita dissoluta e dedita ai piaceri immediati. Ma bisogna tenere conto che politicamente in generale i filosofi non avevano gran credito e una certa apertura mentale, una libera curiosità intellettuale era ancora possibile nella repubblica
di metà del secolo. Cicerone stesso lo apprezzava.
Lucrezio è sicuramente accreditato come epicureo a tutto tondo. La sua fama di poeta filosofo e scienziato si afferma ben presto ma non sappiamo né come né quando. Se il De rerum natura è stato pubblicato mentre era in vita (forse da Cicerone o dall'amico editore Attico), se parti del poema giravano già tra amici e conoscenti.
Canfora riesce a mettere però insieme numerose tracce che mostrano che era sicuramente conosciuto e apprezzato. Nei circoli letterari come in quelli politici contemporanei. Ma non bisogna trarre conclusioni false. L'opera del poeta, in quel mondo di politici guerrieri, era giusto buona per il delectari, il passatempo, l'entertainement diremmo oggi: cioè in pratica la poesia non contava niente, forse solo un piumetto in più di quanto conta oggi (Catullo, di poco più giovane di Lucrezio, lo sapeva bene e se ne infischiava del bon ton). Questo significa che quando si tratta di questioni di potere in crisi e della loro gestione - la salus della repubblica! - ormai quasi imperiale non era più tempo di dedicarsi a distrazioni poetiche. Se Lucrezio muore intorno al 50 a.c. la più terribile delle guerre civili era sul punto di scoppiare. Cesare varca il Rubicone nel 49 a.c. e non è detto che Lucrezio non fosse ancora vivo.
Ma il problema è che a partire da un certo momento il nome di Lucrezio scompare. Non ne parla più nessuno. Bisognerà attendere vari decenni per trovare citazioni dei suoi versi. E quando Virgilio, attesta Canfora, si rifa con evidenza a versi di Lucrezio, non lo fa direttamente e non cita comunque mai il suo nome. Una sorta di damnatio memoriae in vita era calata sul poeta.
La spiegazione di Canfora sta quasi interamente nella considerazione che Lucrezio, al di là dei suoi versi, era ormai troppo scomodo per le sue idee troppo radicali e legate all'epicureismo (e all'esaltazione di Epicuro come un dio, un inventore, uno scienziato). Ma, forse ancora di più, lo era alla luce delle considerazioni come quella citata più sopra che invita ad abbandonare la politica imperialista e questa che aggiungo che mette un nesso tra guerra civile e arricchimenti individuali: ...sanguine civili rem conflant divitiasque conduplicant avidi, caedem caede accumulantes... (gonfiano nella guerra civile le proprie ricchezze raddoppiandole accumulando delitti su delitti).
E tuttavia i suoi contemporanei lo hanno conosciuto e stimato e sanno i contenuti del suo poema ma non citano mai il suo nome. Basti qui rammentare con le parole di Canfora il caso Virgilio, emblematico per molti aspetti non foss'altro perché anche lui era un epicureo 'pentito'. Sono pagine di bella filologia che seminano anche emozioni.
Il verso 1130 del libro V sopra citato dice Canfora: "...si spinge a dire che è meglio la quieta obbedienza ... quam regere imperio .... et regna tenere. Concentra in quel solo verso l'attacco alla pulsione imperialistica: cioè va ben oltre il vivi in disparte del maestro Epicuro o il mesto motto oraziano 'non visse male chi passò dalla nascita alla morte inosservato' (Epistole, I, 17, 10) cui di solito si rinvia quando si commenta questo verso lucreziano. Che invece dice ben altro.
Un attacco di natura politica che, dice Canfora, non sfuggì a Virgilio, che ormai la pensava molto diversamente. Così continua Canfora:
"Nell'infelice finale augusteo-imperiale del VI libro dell'Eneide, dove dall'Ade Anchise profetizza al figlio Enea la futura grandezza di Roma, Virgilio fa pronunciare al vecchio Anchise questo perentorio ordine-auspicio, rivolto non più al misero Enea ma "al popolo romano" quasi in tono comiziante: Tu regere imperio populos, Romane, memento! (V. 851). E ad abundantiam gli fa contestualmente pronunciare una sprezzante svalutazione della scienza, dell'oratoria e delle arti figurative, campi nei quali (riconosce) i Romani sono inferiori "ad altri", cioè al mondo ellenizzato."
Quel libro VI e peraltro tutto il poema non sfuggì nemmeno a Augusto. Alla morte di Virgilio che aveva raccomandato di distruggere il poema perché troppo doveva aggiustarlo Augusto si oppose.
Non penso che Virgilio avrebbe emendato le sue indicazioni sui futuri imperiali di Roma, il senso complessivo della sua operazione politico letteraria era ben altrimenti radicata nell'esaltazione di Roma e dei suoi destini.
Un'operazione così riuscita che ancora negli anni sessanta del secolo scorso alla Statale di Milano l'insegnante di letteratura latina, noto fascista che godeva della libertà di esercitare la sua professione nella repubblica democratica, imponeva la conoscenza approfondita dell'Eneide, pretendeva che leggessimo qualche esametro e sapessimo individuare la situazione. Solo più tardi ho avuto modo di capire e scegliere, in fondo non era l'Eneide il vero capolavoro di Virgilio, le Georgiche avevano molto altro da dire e prossimo al sogno di pace di Lucrezio, anche se movimentato dagli urti tra loro degli atomi.




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