sabato 2 marzo 2013

Con la pressa di vivere sul collo

Certo che sono in grado di dirti come succede che a un certo punto scrivo dei versi. Non c'è niente di misterioso, se è questo che pensi. Non dico che è un lavoro come gli altri ma gli assomiglia molto. Solo che la prima cosa che devi attivare è l'attenzione a una emozione, questo non è facile non perché presenti difficoltà meccaniche ma perché se sei impegnato nella tua vita quotidiana di lavoro, impegni familiari e di relazione non ti viene spontaneo dare attenzione a quelle emozioni. Non sono mediamente riconosciute produttive,  in quelle condizioni l'unica emozione sempre allerta e che non puoi ignorare, per me e credo per la maggior parte degli uomini, è l'attrazione sessuale. Più sei impegnato nel lavoro più è difficile ignorare l'oggetto del tuo desiderio se ti passa accanto profumato e scollato (nel senso proprio che non fa niente se si tratta di una persona che non stimi se è però sexy!). Ma a tutte le altre emozioni si lascia uno spazio minimo, perlopiù segreto, intimo e quasi vergognoso. Il poeta è abituato a stare allerta su di quelle, certo lui ci si è  educato ma perlopiù si tratta di una disposizione dell'animo alla quale lui ha scelto di lasciare tempo e luogo per manifestarsi, insomma non ci ha rinunciato mai, anche se poi maschera questa condizione e sopporta la necessità di nasconderla sotto traccia.
Del resto riportare in qualche modo l'emozione in versi scritti è anche il modo di liberarsene e dominarla, solo che questa liberazione perché sia totale deve essere comunicata ad altri, se no non funziona.
Ma prima c'è l'emozione, poi su di essa si innesta di solito una riflessione.
Ieri quei versi che ti ho mandato sono nati dall'emozione di aver risentito per l'ennesima volta nel corpo il brivido della primavera. Li ho scritti e sono lì bisognosi di aiuto perché la prima stesura non è mai l'ultima, anzi. Ci tornerò con pazienza, finché saranno a mio parere degni di essere condivisi. Anche perché non c'è nulla di più pericoloso della primavera per un poeta. I poeti ne parlano da tremila anni, da quando conosciamo, almeno nel mediterraneo, la scrittura. Per cui essere banali è il primo rischio. Anche perché molto verosimilmente l'emozione è sempre simile a se stessa, almeno in questo caso.
Il risorgere della primavera, tanto per cominciare, è legato di solito all'infanzia, e per forza, si tratta di nascita e rinascita. A me istantaneamente, appena raccolto nell'aria quel brivido, sono venuti in mente i miei sei, sette anni, un'età lontanissima e in un luogo altrettanto lontano da qui. Dove c'era il mare. E questo è già l'altro rischio, parlare del mare. In un'epoca in cui sono tanti (tante) che sostengono che tutto è già stato detto. Vero, ma il limite è del pianeta, mica nostro, il mare c'è e continua a esserci, e ci siamo ancora noi che diciamo mare in un modo sempre diverso. Il problema appunto è nominarlo in modo diverso.
Primavera, mare.
Non puoi sbrodolare e devi dire i colori, delle strade degli alberi delle case. Gli odori, la temperatura, e i rumori del mare sotto gli scogli fino al cielo, alberi nebulosi di prima mattina, odori tenuissimi, di camomilla nei campi, delle fiorescenze sugli alberi da frutto, e poi il tepore che ti arriva a brani mescolato all'afrore del mare freschissimo di uova marce. E il riconoscimento del corpo nato e di nuovo nascente, il suo odore chimico, la consistenza delle mani, il liquore degli occhi, la sonorità della voce, l'umidità della pelle. Uovo deposto.  Le galline per la strada sterrata dove vivevo. Il salnitro sui muri, la risacca che esibisce alghe e muffe, la pioggia fitta e silenziosa.
Ma basta, basta.
Perché poi l'altra difficoltà è innescare la riflessione su questo materiale. Evitare anche qui la banalità. Perciò stai tranquilla, non pensare che io pensi sulla morte. Prima che nascessi c'era il nulla. Tornerà ad essere nulla tutto ciò.
Ultima nota: l'importante in poesia è dire velocemente, e devi stare sempre in piedi mai seduto, con la pressa di vivere sul collo.

1 commento:

  1. La prima considerazione è che non avevamo consapevolezza del nulla, ma ora lo sappiamo. Non potrò mai consolarmi dell'annullamento completo di me, a volte ho pensato che avrei preferito sopravvivere, perfino all'inferno (ma senza le torture fisiche), pur che qualche barlume di consapevolezzza di me restasse a me.
    Quando mi si scatenò il lutto post partum nel 1976, il tutto mi partì (almeno quella fu l'impressione superficiale) dalla considrazione che Beethoven non aveva avuto e ami avrebbe avuto la più pallida idea di che grande fosse stato lui e la sua musica. Di che grande dono avesse fatto a noi, e non fosse in grado di godere della cosa. Per noi lui è è stato una fortuna, per lui, al di là dell'autostima e del senso del proprio valore in vita, nulla. Non avendo alcuna ragione di paragonarmi a Beethoven, mi restava lo sgomento del vuoto e del nulla, un horror vacui che mi impediva di vivere la quotidianità

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