Il precario e la poesia, Giacomo Leopardi alle dipendenze dell’azienda
libraria A. F. Stella e figli.
Milano.
Un nobile spiantato.
Nobile spiantato com’era, dato che né mamma Adelaide né papà Monaldo era
disposti a investire denaro su di lui e sulle sue competenze letterarie,
Leopardi aveva solo un’opzione davanti a sé: trovarsi un lavoro (scandalizzando
la famiglia nobile) col quale sfuggire alla morte per asfissia in Recanati e
mantenersi (provvedersi, diceva lui). La meta, già ai suoi tempi, era obbligata:
Milano. A Milano c’era l’azienda libraria di Antonio Fortunato Stella, dove
sia Giacomo che Monaldo si
rifornivano di libri. Quando
Leopardi, proveniente da una sosta felice d’incontri a Bologna, scende in
contrada S. Margherita a Milano, la contrada dei librai milanesi, dove anche
Antonio Fortunato Stella ha casa e bottega, siamo nel luglio del 1825.
Nel contesto di uno sviluppo ancora artigianale, l'azienda dello Stella è
una delle più accorte e floride.
Personalmente Antonio Fortunato Stella si presenta come mercante di libri
ma ha l'anima dell'organizzatore culturale; non gli manca una certa educazione
letteraria per cui non ha timori reverenziali coi letterati; ha fama di duro e
di spilorcio: molti si lamentano per lavori non pagati; e come tutti i
librai-editori è sempre lui a decidere cosa si deve pubblicare, guidato dal suo
fiuto ma anche dalla sua sensibilità. Sfrutta oculatamente il sistema delle
associazioni, per il quale si procede alla stampa di un'opera annunciata solo
se vengono, preventivamente, assicurate sottoscrizioni sufficienti a coprire le
spese e a garantire un certo lucro. Impiega una certa quantità di denaro in
pubblicità. Si accapiglia con gli altri librai-editori per difendere la
priorità d'una iniziativa editoriale perché, mancando una convenzione sul
diritto di stampa e d'autore, finisce spesso che sul mercato compaiono edizioni
pirata e simultanee della stessa opera, soprattutto se si tratta di un genere
che tira. Pubblica raccolte di classici latini e greci e naturalmente italiani;
è presente sul mercato con una «biblioteca amena ed istruttiva per le donne
gentili» impostata con criteri di lusso, nella quale riesce ad impegnare
letterati di alta reputazione come Francesco Ambrosoli, Antonio Cesari, Niccolò
Tommaseo e poi anche Leopardi; impresa fortunata quella e forse uno dei primi
esempi di collana caratterizzata dal pubblico destinatario. Pubblica un
giornale, «II Nuovo Ricoglitore». Disdegna i libriccini di devozione religiosa
ma confeziona almanacchi per l'anno nuovo anche culturalmente modesti. È infine
presente sul mercato dei testi scolastici nonostante il soffocante monopolio di
Francesco I che impone l'adozione degli stessi manuali per ginnasi e licei
delle province ereditarie: ma antologie e grammatiche, compendi di storia e
libri di letteratura riuscivano ad essere collocati come strumenti sussidiari.
A Milano, in casa di Antonio Fortunato, Giacomo rimase due mesi. Una
permanenza breve che tuttavia non gli impedì certo di osservare nella città
quanto a suo tempo, dalla lontana Recanati, lo aveva già impressionato: la gran
quantità di libri, di stamperie e di imprese editoriali. Ma ciò non era
bastante per trattenerlo. Testa e cuore sono a Bologna. Ci si è fermato una
decina di giorni nel viaggio di trasferimento a Milano: le calde accoglienze
riservategli lo hanno tanto acceso che si è convinto che la città fa per lui e
che con un po' di fortuna potrà provvedercisi. La casa di Antonio Fortunato
oltre tutto gli è sembrata da subito « la peggior locanda» tra quelle toccategli
in viaggio: predomina in essa un «tuono mercantile» che è quello medesimo del
pianoterra dove si apre la bottega del libraio. Ne fa le spese persino il buon
appetito ritrovato in Bologna, che viene messo a dura prova visto che «qui non
si cena, e il pranzo è spesso un esercizio di temperanza»1. Ma
Antonio Fortunato sa il fatto suo. Quando aveva richiesto Leopardi d'un parere
sull'edizione progettata delle opere di Cicerone era rimasto impressionato
dalla dimostrazione di competenza. Giacomo a dire il vero, resosi conto che
quella era la sua occasione, non si era risparmiato nello sfoggio di dottrina,
nel citare codici e nel criticare le cattive traduzioni in circolazione. Certo
che se fosse stato a Milano, aveva suggerito, avrebbe potuto essere di ben
altro aiuto all'edizione. E il mercante-editore non aveva avuto esitazioni: gli
aveva subito proposto, per soprintendere all'edizione, viaggio pagato e, a
tempo indeterminato, vitto, alloggio e tutti i libri che voleva2.
Ora che se lo trovava in casa, un collaboratore di tale statura Antonio
Fortunato non se lo sarebbe lasciato scappare. Già dalla prima sera di
permanenza Giacomo deve convenire, scrivendo al fratello Carlo, che lo Stella
si è mostrato gentile, premuroso e paterno e ha fatto di tutto per metterlo a
suo agio.
Ma Milano poi gli risulta scostante; di bello ce n'è tanto ma è come
guastato dal «magnifico e dal diplomatico»; splendida nei divertimenti questo
sì, ma ciò che più conta infine è la «società» e a parte Vincenzo Monti, che ha
incontrato peraltro brevemente, vi sono pochissime persone di merito che valga
la pena di rivedere una seconda volta «e tra queste niuno che mi paia disposto
a concedermi la sua amicizia»3. Molte delle persone di valore infine
sono «in villa» nelle loro residenze estive, così a Giacomo non resta che
restarsene in casa o concertare con lo Stella tempi e modi dell'edizione di
Cicerone. A conti fatti a Milano egli si trovò «malissimo e di pessima voglia»:
non fosse stato per i doveri dovuti alla buona creanza sarebbe ripartito subito
per Bologna.
Bologna.
Un laico provveduto.
Pattuito un mensile per il lavoro
in corso e per altri da concertare, alla fine di settembre del '25 Giacomo
organizza, in un modesto appartamento, la sua vita bolognese di stipendiato al
servizio d'un mercante e stampatore di libri. Non c'era da scialare e per
integrare le magre entrate si adatta da subito a dare lezioni di latino e
greco. Né questa attività né quella con lo Stella mancano di suscitare i
commenti sfavorevoli di Monaldo, ma Giacomo se ne difende con pazienza; rifiuta
di dover considerare, come costui pretenderebbe, umiliante e sconveniente la
sua condizione e ne approfitta per ribadire: «io non cerco altro che libertà e
facoltà di studiare senza ammazzarmi»4. Il lavoro dunque come mezzo
di essere provveduto e libero e come mezzo per dedicarsi ai suoi studi.
Ma quanto tempo gli restava per
gli studi? Prima di tutto c’è il Cicerone: Giacomo corregge le bozze che Stella
gli spedisce, consulta e confronta codici ed edizioni precedenti, attiva egli
stesso studiosi bolognesi e romani con un largo giro di corrispondenza, cura
annunci pubblicitari dell'opera su fogli bolognesi come «II caffè di Petronio»
del suo amico editore Pietro
Brighenti (che era in realtà un confidente della polizia austriaca). Poi ci
sono le lezioni private: Giacomo esce di casa prima di mezzogiorno e rientra
dopo le tre: oltre ad annoiarlo «orribimente» dunque, gli «sventrano la
giornata». Ci sono infine le sue traduzioni
dal greco di Epitteto, Isocrate, Teofrasto ecc. che possono essere collocate a
metà tra i suoi interessi personali e la necessità di proporre qualcosa allo
Stella per proseguire la collaborazione.
La quantità di ore necessarie a guadagnarsi la giornata è dunque
considerevole, probabilmente superiore a quanto Giacomo aveva messo in conto:
lunghe e monotone ore di applicazione ad un lavoro che lungi dall’aver a che
fare con la poesia poteva ben poco soddisfare le ambizioni del letterato. A
complicare le cose si aggiungono un serio disturbo intestinale e il rigido
inverno bolognese, un inverno dal freddo «bestialissimo» che lo fa
immalinconire e disperare: «... scrivo vicino al fuoco che arde per dispetto in
un caminaccio porco, fatto per scaldarmi appena le calcagna»5.
Fortuna che i letterati bolognesi usano verso lui riguardi che lo scaldano un
poco: lo onorano di visite spontanee, lo consultano... Ma ciò non basta; a
Carlo confida di essere quasi in animo, salvo poi non farne niente, di
accettare la cattedra di eloquenza latina e greca a Roma, senza sapere che in
realtà il governo pontificio stava ormai per assumere un atteggiamento
intransigente verso di lui. Battibecca seccato a distanza con lo Stella:
vorrebbe lavorare di più alle sue traduzioni visto che il lavoro su Cicerone
sta compiendosi, ma quegli lo richiama ad impegnarsi nel commento a Petrarca
del quale vorrebbe pubblicare l'opera integrale. Fanno velocemente pace per
interesse di entrambi: Stella anzi suggerisce di abbandonare le lezioni private
assumendo su di sé il pagamento di quanto Giacomo ci guadagna. Il gesto colma
Giacomo di senso di gratitudine filiale, ma Stella tira fuori l'orgoglio di
mercante: la sua, gli risponde, non era solo prova di amicizia, ci ha nella
cosa anche un pizzico d'interesse: «Giacché credo che quel tempo [sottratto
alle lezioni, n.d.a.] Ella lo impiegherà utilmente per me»6. Ma
Giacomo insiste: «Il suo sarà sempre un atto che mi obbligherà a somma
gratitudine, togliendomi dal penosissimo impaccio di quelle ore»7 e
c'è da credere alla sua sincerità avendo già in altre occasioni manifestato
poca simpatia verso l'insegnamento.
Le cose ora vanno meglio e Giacomo inizia meno angustiato il commento,
che contrariamente al lavoro precedente sarà da lui firmato, all'edizione del
Petrarca in otto volumetti edito nella collana della «Biblioteca amena per le
dame». Può persino permettersi di rifiutare un beneficio ecclesiastico di
proprietà della famiglia che, risultato vacante, poteva essergli trasmesso a
patto però di «incedere in abito e tonsura» e di dir messa. Lui ci prova, a
dire il vero, ad addomesticare la faccenda, chiedendo al padre se si poteva
ottenere licenza a sostituire l'obbligo di dir messa con una quantità
equivalente di preghiere e l'obbligo di portare «ferraioletto, collarino,
chierica e cappello pretino» con un vestito meno vistosamente compromettente.
Ma sono tutte proposte che infine deve lasciar cadere di fronte all'accorato
sdegno di Monaldo. Può anche dire a Carlo che lì a Bologna egli vive
«onoratamente e con piena indipendenza personale, e regolandomi nelle spese,
passo anche per ricco [...]. Se avessi voglia e salute da faticar di più in
cose letterarie potrei anche avere dell'avanzo, perché non mi mancherebbero
imprese e inviti librarii qui e in Torino e altrove»8.
Anche per quanto concerne il lavoro infatti si sente più sicuro e
disinvolto: propone modifiche redazionali più rispettose della qualità del suo
lavoro e risolve un po' più a suo vantaggio certe condizioni volute dallo
Stella. Di questa sua maggiore sicurezza "contrattuale" sono appunto
testimonianza le vicende relative alla pubblicazione delle Operette Morali. Ad
agosto nel suo passaggio a Milano Leopardi deve avere mostrato a Stella il
manoscritto, per il quale ha atteso inutilmente un cenno per la pubblicazione;
senonché nel gennaio del '26 un saggio delle Operette esce, per interessamento
del Giordani e del Vieusseux, sull'Antologia fiorentina: Leopardi si affretta a
bloccare l'intera operazione, ha motivi suoi per farlo e non sono soltanto
quelli relativi all'insofferenza di vedere smembrata un'opera che per lui vale
solo nel suo proporsi integrale al lettore, e decide invece di giocare le sue
carte con Stella. Non ha per caso costui veduto sull'Antologia il saggio delle
Operette Morali? Il manoscritto gli interessa ancora? Sarebbe bene che gli
desse subito una risposta perché è pressato da richieste non solo da Firenze ma anche da Torino e Napoli,
nelle quali città «il mio nome non ha la disgrazia di essere così profondamente
disprezzato come nella dotta e grassa Lombardia»9. Stella non si fa
cogliere impreparato, gli risponde con un sincero giudizio di ammirazione per
la sua opera: è un giudizio che fa onore al mercante editore e dimostra la sua
intelligenza e sensibilità in fatto di cose letterarie; certo che gliele
pubblicherà lui, che Giacomo comunque gli dica chi sono i possibili
concorrenti: teme ovviamente una ristampa pirata fuori di Lombardia; ma Giacomo
rassicurato lo tranquillizza a sua volta, che a quelli ci avrebbe pensato lui.
Nel maggio però ecco che sorgono problemi con la censura austriaca che ha già a
suo tempo interdetto le canzoni patriottiche di Leopardi e Stella avanza la
proposta di pubblicare le Operette sul «Nuovo Ricoglitore» un po' alla volta.
Giacomo è seccatissimo: «Assolutamente e istantemente la prego ad aver la bontà
di rimandarmi il manoscritto al più presto possibile. O potrò pubblicarle
altrove, o preferisco il tenerle sempre inedite al dispiacere di vedere
un'opera, che mi costa fatiche infinite, pubblicata a brani in un giornale,
come le opere di un momento e fatte per durare altrettanto»10.
Stella cede e dieci giorni dopo gli comunica che le riserve della censura erano
cadute e che le Operette sarebbero uscite in breve. Ma ancora nel novembre non
se n'è fatto nulla; solo nel giugno del '27 le Operette Morali escono e in
edizione autonoma a Milano; per quest'opera Stella s'era lasciato andare alla
promessa di un premio speciale: dimentico o meno della cosa, fatto sta che
Giacomo riceverà in tutto come compenso una dozzina di copie in omaggio.
Per tutto il primo periodo che Leopardi trascorre a Bologna e cioè tra
l'ottobre del '25 e la fine di ottobre del '26 non si lamenterà mai della sua
condizione; è una persona frugale e finalmente gode di tutto quanto gli mancava
in Recanati: libri in abbondanza inviatigli dallo Stella o procuratigli dagli
amici bolognesi, libertà personale, sufficiente «società» con uomini illustri e
letterati. A maggio comunica a Carlo di essere entrato in relazione con la
Malvezzi, una relazione «che forma ora una gran parte della mia vita»11
e ad Antonio Papadopoli scriverà il 3.7.'26: «io vivo qui una vita
bastantemente comoda e libero come
l'aria, che è tutto quello che io desidero dalla fortuna».
Ma occorre andare oltre queste righe, trattandosi di Leopardi.
Se sul piano della emancipazione da quella "figliolanza", che
egli temeva non dovesse finire mai, poteva ritenersi soddisfatto, altrettanto
non può dirsi per quanto riguarda la liberazione della sua fantasia creativa.
Il periodo della sua collaborazione con lo Stella in effetti coincide col
periodo forse più infecondo della sua produzione poetica. Se non è forse del
tutto legittimo stabilire una precisa relazione di causa ed effetto tra le due
cose, non mancano tuttavia argomenti che potrebbero giustificarlo. Viene da
pensare a quella riflessione affidata al suo diario nel febbraio del '26:
«Spessissimo noi, come un malato, un convalescente che si cura, un povero che
si procaccia il vitto con gran fatica, usando una infinita pazienza per solo
conservarci la vita, non facciamo altro che patire infinitamente per
conservarci, per non perdere la facoltà di patire ed esercitar la pazienza per
preservarci il potere di esercitarla, per continuarla ad esercitare»12.
Una spirale intrappolante. Ma soprattutto l'attenzione non può non ricadere su quella Epistola al conte Carlo Pepoli13
che, letta da lui medesimo nel marzo del '26 al Casino dell'Accademia dei
Felsinei, interrompe per un attimo la stasi creativa iniziata dopo la stesura
delle Operette Morali e che durerà fino al '28. Tutta la canzone è organizzata
intorno al tema centrale del «campar la vita» a cui l'umanità del suo secolo
gli appare condannata al solo scopo di sopravvivere: un impegno «ozioso»,
perché speso per conservar la vita e basta e non per procurarsi felicità e
piaceri, unici scopi degni del vivere, ancorché irraggiungibili.
Pur tutto preso dai suoi impegni di lavoro, Leopardi comunque non
rinuncia a curare la sua immagine di poeta: tra il dicembre del '25 e il
gennaio del '26 fa pubblicare dallo Stella sul «Nuovo Ricoglitore» i suoi primi
sei Idilli e poi, sempre nel '26, cura l'edizione bolognese di Versi che comprende i primi sei Idilli
di cui sopra più altre due poesie e l’Epistola al Pepoli. Del resto della sua
instancabilità al lavoro non finiva mai di stupire: i familiari a suo tempo,
gli amici e Stella ora. Il venti di giugno del '26 comunica a quest'ultimo di
aver terminato il commento al Canzoniere; Stella se ne congratula ma
naturalmente non gli dà fiato: quanto tempo gli ci vorrà, chiede, per
commentare i Trionfi e le Rime varie? Leopardi non batte ciglio: dieci giorni
dopo spedisce il tutto bell'e pronto e aggiunge che ha intenzione di prendersi
un po' di riposo. L'editore è sorpreso dalla velocità d'esecuzione e s'allarma;
in realtà non ha da temere quanto alla possibilità di perdere il suo
collaboratore. Vero è però che Leopardi ha contratto un fastidio crescente
verso un tipo di attività che ora non ha alcun timore a definire inutile per sé
e per gli Italiani: «se farò un'altra opera di commento verrò ascritto definitivamente
alla classe dei pedanti», scrive alla fine di luglio «di quelli che deprimono e
rendono frivolo nullo ridicolo agli occhi degli stranieri la nostra
letteratura, e con ciò servono mirabilmente alle intenzioni dell'oscurantismo»14.
Prende lui l'iniziativa; ha in mente un dizionario filosofico e filologico da
organizzare sulla base del materiale raccolto nel suo diario ma è lavoro troppo
lungo e non può servire per l'immediato; ripiega su un'altra proposta: si
tratterebbe di tradurre dall'inglese, e lo farebbe lui, tratti dal «The
Panoramic Miscellany» inglese, alcuni articoli che vi comparivano regolarmente
sulla letteratura italiana: ciò avrebbe arricchito il «Nuovo Ricoglitore» e
stimolato dibattiti e confronti tra le due letterature. Stella non si convince, suggerisce di
pensare a qualche libro per le scuole. Leopardi si è appena imbattuto in
un'antologia francese in prosa. L'idea diventa quella di una antologia italiana
con una scelta di pezzi notevoli per bellezza, pensiero e purezza di lingua.
Stella è entusiasta; nonostante il monopolio asburgico sui libri scolastici sa
di poter contare su una certa disponibilità del mercato per libri
"consigliati".
Tra il giugno e l'ottobre la corrispondenza tra i due è fittissima: c'è
forse il timore di Stella di perdere un collaboratore così prezioso ma anche
Leopardi ha bisogno di lui e del lavoro che gli permette di condurre autonoma
la sua vita; solo che vorrebbe essere impegnato in maniera meno noiosa e
compromettente. A metà ottobre, forte delle basi gettate per la collaborazione
futura, annunzia a Stella la decisione di andare a passare l'inverno a
Recanati: troppo ha patito per il freddo a Bologna, da troppo non vede gli
amatissimi Carlo e Paolina coi quali ha mantenuto una corrispondenza regolare. Lo
tranquillizza per quanto riguarda il lavoro, che porta con sé. Rientrato ai
primi di novembre in casa, già a metà dicembre Giacomo scrive all'amico
Brighenti in Bologna che se il freddo di corpo è minore di quello patito lassù,
quello dell'animo è tale che lo ammazza «e ogni ora mi par mille di fuggir via»15.
Firenze.
Un poeta inutile.
Da quello che è dato capire da lettere più rade, Leopardi lavora in
Recanati all'antologia di prosatori italiani dal trecento in poi con animo
piuttosto disteso. Solo il rapporto con Stella è angustiato da una sottile
schermaglia intorno al mensile pattuito e che l'editore non gli passerà per il
periodo di permanenza nella casa paterna. Appellandosi ambiguamente a una
specie di "diritto paterno" Stella gli manda a dire che gli spedirà
tutto il denaro di cui potesse avere bisogno, basterà che glielo chieda e
questo «[...] quantunque Ella si trovi in seno della sua famiglia»16.
Che in altri termini significava sospensione dello stipendio, senza che ce ne
fosse motivo. A Giacomo non resta che subire e gli risponde che soldi non ne ha
chiesti (ma non gli toccava di farlo) proprio perché si trova in casa propria,
ma appena tornato a Bologna in primavera avrebbe di nuovo approfittato della
«amorevolezza paterna» di lui. Trascorsi inverno e parte della primavera,
Giacomo alla fine d'aprile del '27 rientra in Bologna, nuovamente stipendiato:
la scelta dei passi di scrittori italiani per l'antologia è quasi terminata e
Stella a metà giugno viene a ritirare il manoscritto di persona. Appena
salutati, Giacomo lascia Bologna alla volta di Firenze.
Dei motivi che lo inducono a trasferirsi in Toscana non v'è traccia nelle
lettere, ma è facile immaginare che sia stato attratto dalla città per il gran
convenire in essa di intellettuali, politici, uomini di cultura che, radunati
intorno all'Antologia del Vieusseux, operavano per la crescita di un movimento
di opinione pubblica.
Il lavoro critico ha messo in luce quanta distanza separasse Leopardi da
quell'ambiente tutto permeato di spiritualismo cattolico, di ottimistica
fiducia nella felicità delle masse da procurare con quella che a Leopardi
appariva una riduzione quasi totale della vita culturale e politica a fatti
aridamente economici, statistici, utilitaristici. Quella distanza a dire il vero
esisteva già da prima che Leopardi si portasse in Firenze: il suo giudizio non
doveva essere di molto diverso già nel gennaio del '24 quando, entrato in
corrispondenza col direttore dell'Antologia che gli chiedeva recensioni ed
articoli sulle novità scientifiche e letterarie dello stato pontificio, se ne
era schermito con la famosa critica sullo stato delle lettere italiane. Il
discorso tra i due si era momentaneamente interrotto, ma ecco che nel marzo del
'26, quando Leopardi, superati i disagi e lo sconforto dell'inverno bolognese,
lavora con fatica e noia intorno al Petrarca, il Vieusseux torna a proporgli di
collaborare con lui, prospettandogli questa volta un rapporto rigoroso e
funzionale ai suoi progetti, che prevedeva peraltro per ogni foglio di stampa
un compenso da considerarsi fra i più alti allora possibili; la lettera si
concludeva così: «S'io potessi avere alcuni collaboratori pagati e regolari
[...] come potreste esserlo voi, farei più che con venti collaboratori
dilettanti e non pagati»17. Altrettanto nota è la risposta di
Leopardi con la quale protestava una sua perfetta ignoranza in questioni di
filosofia sociale di fronte alla richiesta di denunciare criticamente i
«pessimi costumi» italiani, i metodi di educazione, ecc.: «Gli uomini sono ai
miei occhi quello che sono in natura,
cioè una menomissima parte dell'universo, e che i miei rapporti con loro
e i loro rapporti scambievoli non m'interessano punto, e non interessandomi,
non gli osservo se non superficialmente. Però siate certo che nella filosofia
sociale io sono per ogni parte un vero ignorante»18. Tuttavia, detto
questo, non mi sembra illegittimo pensare che tra gli altri motivi che
inducevano Leopardi a visitare Firenze, ci fosse anche la curiosità di
verificare fino a che punto gli interessi preminenti intorno all'Antologia lo
tenevano lontano da una possibile collaborazione. Che la verifica fosse
negativa da subito lo veniamo a sapere dalla lettera fiorentina alla sorella
Paolina dei primi di luglio del '27: «Qui mi fanno propriamente la corte
perch'io accetti altri partiti; ma volendo e potendo faticar poco, nessun
partito mi può convenire come quello di Stella; il quale per conseguenza
bisogna ch'io tenga fermo più che posso»19. Che
"faticasse" poco per lo Stella sappiamo che non è vero; certo che il
rapporto di conoscenza ormai consolidato poteva permettergli di muoversi nel
lavoro con una certa elasticità organizzativa personale, ma è lecito anche
pensare che Leopardi dovette in quei mesi confermarsi nell'idea che l'area di significati
culturali e politici dentro la quale si sarebbe collocata una sua
collaborazione fiorentinista, lo avrebbe di fatto connotato all'interno del
progetto complessivo dei Toscani, la resistenza verso il quale era
probabilmente in lui uguale, se non maggiore, a quella per i lavori
"pedanti" e "oscurantisti" per lo Stella: in questo senso
le sue antologie gli saranno ancora sembrate la cosa più dignitosa cui un
letterato, con le sue idee e bisognoso di lavoro, potesse applicarsi. Ma c'era
dell'altro: di natura coscienziosa Leopardi non poteva tacersi per
professionalità che le sue condizioni di salute lo costringevano a periodi di
inattività che con lo Stella si sentiva sufficientemente libero di ammettere
confidando, più giustamente che meno, sull'amicizia paterna di lui: il quale
ultimo non ci scapitava certo del lavoro di Giacomo (magari sottraendogli sei
mesi di stipendio!). Tanto più che, dal suo arrivo in Firenze fino all'autunno
inoltrato, lo stato di salute degli occhi, che non hanno mai cessato di dargli
seri problemi, si aggrava: è agli occhi che soffre perlopiù ma il suo fisico è
provato da uno stato generale di debolezza che gli impedisce di leggere
scrivere pensare. Passa molto del suo tempo a sedere «colle braccia in croce»
ed esce solo talvolta di sera «come i pipistrelli». Rabbia e malumore gli
dettano parole sconfortanti agli amici; dispera di superare il suo stato di
malattia e vuole andare a morire a Recanati. Con gli occhi gonfi quasi chiusi
scrive lettere brevissime; al lavoro dunque dedica poco tempo e del resto è
consapevole che quella lunga applicazione a copiare pagine e pagine d'autori
italiani di suo pugno è stato causa non secondaria dell'aggravarsi dello stato
degli occhi. Ciononostante tra luglio e ottobre scrive sempre in Firenze la
prefazione alla Crestomazia italiana e inizia a organizzare in un indice
sistematico per argomenti il materiale del futuro Zibaldone, lavoro che
dovrebbe servire poi per la progettata Enciclopedia. Poi a novembre, nella
speranza di un inverno meno rigido, si sistema a Pisa dove, su invito dello
Stella, comincia a dedicarsi ad una seconda antologia, questa volta di poeti.
II male agli occhi, avverte, non gli permetterà di procedere speditamente, ma
il mite clima pisano sembra giovargli: prende tempo, promette il termine del
lavoro per l'autunno successivo e Stella lo rassicura invitandolo a curarsi. La
sua vita di società in Pisa appare da alcune lettere piuttosto intensa, sì che
a volte è difficile metterla in relazione con lo stato di salute malandata. Sul
quale scrive lettere preoccupanti al Vieusseux, ma potrebbe essere un modo per
mascherare la sua riluttanza a soddisfare le richieste di lui; e dello stesso
tenore sono le lettere al padre col quale prospetta un prossimo ritorno in
Recanati.
La sensazione che se ne trae è che nella sua vicenda personale stiano per
maturare questioni di natura complessa che finiscono col rendere problematica
la sua stessa collaborazione con lo Stella. Alle sofferenze dovute al fisico
s'intreccia verosimilmente in questo periodo la delusione proveniente
dall’esito poco incoraggiante delle sue ultime prove di scrittore e letterato.
Quando egli arriva a Firenze (fine giugno '27) le sue Operette Morali
pregne di ateismo e materialismo, sono fresche di stampa ed è lecito supporre
che se ne attendesse qualche riconoscimento anche se proprio negli stessi
giorni (!) uscivano I Promessi Sposi che ben altre affinità
ideologiche contenevano col clima culturale fiorentino. Nel dicembre dello
stesso anno, mentre è a Pisa, esce poi la Crestomazia italiana. In entrambi i
casi le accoglienze furono tiepide. L'antologia anzi ricevette qualche critica.
Del suo umore in questo momento e della sua stessa voglia di lavorare ancora,
così scrive da Pisa all'amico Antonio Papadopoli: «Studiare e lavorare sono
cose che ho dimenticate e dalle quali divengo alieno ogni giorno di più. Con
questa razza di giudizio e di critica che si trova oggi in Italia, coglione chi
si affatica a pensare e a scrivere»20. E così a P. Giordani due mesi
dopo: «La mia vita è noia e pena: pochissimo posso studiare, e quel pochissimo
è noia medesimamente: se negli studi potessi ancora seguire il mio genio veduta
la qualità di giudizi di questo secolo, non mi darebbe più il cuore di
logorarmi in far cose che mi contentassero»21.
Vuoi per la salute o per l'insoddisfazione proveniente dal troppo lavoro,
vuoi per l'insuccesso letterario o per le scarse affinità coi Toscani, vuoi per
tutte queste cause insieme, Leopardi, dal suo rientro in Firenze, avvenuto ai
primi di giugno del 28, stringe i tempi per chiudere da una parte l'esperienza
con lo Stella, dall’altra la sua permanenza in Toscana. Era, mi sembra, uno
scacco esistenziale: il no al Vieusseux è l'impossibilità di «provvedersi»
rendendosi organico al progetto borghese dei liberali toscani, il no allo
Stella è il rifiuto di una indipendenza economica pagata a un prezzo
sproporzionato per i riflessi sulla salute e sulla sua immagine di letterato
già offuscata da critiche severe.
Sul disagio suo a lavorare ancora con lo Stella non poteva a mio avviso
non ripercuotersi, in modo forse decisivo, il riconfermarsi del suo giudizio
intorno all'angustia e la parzialità del progetto di trasformazione sociale
degli economisti, dei politici, degli uomini di cultura toscani, interlocutori
comunque di ben altra levatura e progettualità rispetto allo Stella. Ma,
lontana dalla poesia, dall'immaginazione e dalla fantasia, la rigida tensione
ideologica e programmatica di quell'ambiente, con tutto il suo «furore di
calcoli e arzigogoli» e il suo spiritualismo mistificante, gli appariva oltre
che riduttiva, presuntuosa e stupida in quanto lontana dal '"vero"
che "arido" lo era per conto suo. E quali passi mai potevano essere
fatti a favore di quella tanto evocata «felicità dei popoli» a lavorare in
quell'ambiente con quelle premesse? Contro l'infelicità naturale degli
individui ora più che mai gli sembrava semmai necessario l'intelligente
conforto che solo la poesia e la letteratura amena e dilettevole potevano
portare. È questo il contenuto di quella nota lettera al Giordani con la quale
Leopardi si congeda praticamente da Firenze: «[...] mi comincia a stomacare il
superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura:
massimamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano
stia nel saper la politica e la statistica»22. Ai primi di giugno
Leopardi rientra a Firenze dopo aver completato la scelta dei passi poetici per
la nuova antologia ma ai primi di luglio scrive allo Stella che, gli occhi non
permettendoglielo, non ha intenzione di ricopiare per intero tutti i passi
scelti e gli spedisce il manoscritto con tutte le indicazioni del caso. Stella
ai primi di agosto annuncia di aver mandato al torchio la Crestomazia poetica e
reputa giunto il momento per mettere in corso qualcos'altro. Che ne era del
materiale per la progettata Enciclopedia? Ma Giacomo risponde subito: è un
lavoro che non sa quando potrà terminare, forse gli ci vorrà un anno ma per ora
di lavoro non ne vuole più sapere, chiede, per tornare a Recanati, che Stella
gli anticipi insieme le mensilità fino a novembre compreso e conclude così la
lettera: «Dalla suddetta epoca in poi cesseranno i suoi sborsi mensili e le
nostre relazioni pecuniarie»23, salvo semmai riprenderle in seguito.
Ma seguito non ci sarà. Il 10 novembre 1828, avendo Vincenzo Gioberti come
compagno di viaggio, parte per «l’orrenda notte di Recanati». Da allora il suo
scambio epistolare con lo Stella (che morirà del resto nel ‘33, cinque anni
dopo e quattro prima di Giacomo) diventerà via via più rado. Stava per iniziare
uno dei periodi più fecondi per le sue realizzazioni poetiche ma certamente conclusa,
dopo poco più di tre anni, era l'esperienza di scrittore e consulente
editoriale per la casa «Antonio Fortunato Stella e figli». Condizioni di salute
a parte, del resto, Giacomo Leopardi non lavorerà più per nessuno.
NOTE
[1]
G.L., Epistolario, a cura di F. Moroncini, Le
Monnier, Firenze 1934, vol. III, lettera n° 968 a Monaldo L.
2 G. L., Epistolario, op. cit., vol. III, lettera n° 662 di A. F. Stella.
3 G. L., Epistolario, op. cit., vol. III, lettera n° 680 a A. Papadopoli.
4 G. L., Epistolario, op. cit., vol. III lettera a Monaldo del 3. 10. ‘25.
5G. L., Epistolario, op. cit., vol. III lettera a Carlo L. del 28. 10. ’25.
6 G. L., Epistolario, op. cit., vol. III lettera di A. F. Stella del 12. 12.
’25.
7 G. L., Epistolario, op. cit., vol. III lettera
di A. F. Stella del 18. 12. ’25.
8 G. L., Epistolario, op. cit., vol. IV, lettera a Carlo Leopardi del 24. 2.
’26.
9 G. L., Epistolario, op. cit., vol. IV, lettera a A.F. Stella del 12. 3.
’26.
10 G. L., Epistolario, op. cit., vol. IV, lettera a A.F. Stella del 31. 5.
’26.
11 G. L., Epistolario, op. cit., vol. IV, lettera a Carlo L. del 30. 5. ’26.
12 G. L., Zibaldone di pensieri, Mondadori, 1983,
vol II, pag. 1092.
13 G. L., Canti, Milano, Garzanti, 1983, pag. 165.
14 G. L., Epistolario, op. cit., vol. IV, lettera a A. F. Stella del 25. 7.
’26.
15 G. L., Epistolario, op. cit., vol. IV, lettera a P. Brighenti del 15. 2.
’26.
16 G. L., Epistolario, op. cit., vol. IV, lettera
di A. F. Stella del 3. 2. ’27.
17 G. L., Epistolario, op. cit., vol. IV, lettera di G. P. Vieusseux dell’ 1.
3. ’26.
18 G. L., Epistolario, op. cit.,
vol. IV, lettera a G. P. Vieusseux
del 4. 3. ’26
19 G. L., Epistolario, op. cit., vol. IV, lettera a Paolina Leopardi del 6. 7. ’27
20 G. L., Epistolario, op. cit., vol. V, lettera a
A. Papadopoli n° 1202.
21G. L., Epistolario, op. cit., vol. V, lettera a P. Giordani n° 1225
22G. L., Epistolario, op. cit., vol. V, lettera a
P. Giordani n° 1293. Per quanto noto ricordiamolo lo stesso: nel maggio Giacomo
ha confidato a Paolina (lettera n° 1223, vol. V) di aver ripreso a scrivere
versi «con quel mio cuore d’una volta».
23G. L., Epistolario, op. cit., vol. V, lettera a A. F. Stella n° 1312
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