mercoledì 29 febbraio 2012

L'amico P. mi risponde in merito a quanto detto ieri su Omero e Ulisse. In Omero c’è davvero tutto, dice, senza alcuno statuto… se non forse quello suggerito dallo stesso poema citato, in cui in perfetta “autonomia” un Poema parla anche del mondo, di più mondi, di costumi, di navigazione, di religione, di “turismo” etc… E tutto ciò, conclude, non è nient'altro che il senso forte di quell'allietare e far riflettere proprio della poesia.


Di opinione più controversa e complessa è l'amico G. L'aedo innocente, sostiene, è un'ipostasi rischiosa. Ma c'è di più. Ulisse a suo dire ha sbagliato.
"All'aedo andavano tagliate le palle e tutto il resto, e anche Telemaco si meritava una strizzata di coglioni.
L'innocenza umana è una bella invenzione, ma non esiste che la si possa applicare al di là della natura, per una specie culturale l'innocenza è andata a farsi benedire da un pezzo. L'innocenza prevede una colpa rispetto alla quale esistere, ma siccome questa colpa "originale" alla natura non è imputabile ecco che il parassita muore perché non c'è l'ospite. L'innocenza è un parassita obbligato, ma allo stato di natura non c'è un ospite disponibile, quindi essa è pura astrazione. La bellezza è innocente, ma la bellezza che produce l'artista, il poeta, è inconsapevole, è in qualche senso "naturale" e non riguarda in alcun modo l'uomo-artista, l'uomo-poeta.  In sosatnza sull'uomo possiamo anche avere un giudizio negativo e non sulla sua opera, e la sua opera va rispettata comunque. I libri non si possono toccare, non vanno mai bruciati, per gli uomini è un altro discorso.
Caso mai esiste l'irresponsabilità. Se guardiamo la faccenda dal punto di vista dell'irresponsabilità mi sembra chiaro che solo le specie naturali ( vegetali, animali) godano del privilegio di essere irresponsabili. L'uomo invece pretende di essere specie culturale e quindi ha un prezzo da pagare. Il prezzo è la responsabilità. E la responsabilità non è altro che la libertà stessa. Nessuno è libero senza assunzione di responsabilità. In sostanza nessuno è autorizzato a dirmi - sei libero-, la libertà me la prendo da solo e tutta quella che voglio, quando voglio, come voglio, in presenza di qualsiasi legge o regime o politica o ideologia o religione o superstizione. Questo mi è possibile perché assumo responsabilità. Essere poeta, artista comunque, non è naturale, non c'è alcun dio che richiede il nostro canto e gli uomini se ne fregano; è una scelta culturale, un'assunzione di responsabilità. Ti riassumo una storia che preferisco rispetto a quella di Ulisse che risparmia l'aedo collaborazionista. La storia non è mia ma di Jack London ed è un racconto che s'intitola "Il primo poeta".
Siamo nel paleolitico o giù di lì. C'è questa tribù di cacciatori e raccoglitori di bacche che se la passa come una qualsiasi tribù di cacciatori e raccoglitori di bacche. A un certo punto però succede una cosa strana e sconvolgente: un membro della tribù smette di cacciare e raccogliere bacche e comincia a cantare storie, ovviamente sulla caccia e la raccolta di bacche ma non solo, anche su altre cose molto meno concrete, più oscure e ignote, o sulla natura che vede. Ciò che conta per la tribù comunque è che costui ha scelto di diventare improduttivo, un peso per tutti. Viene dileggiato ed emarginato. Il capo però vorrebbe capire o forse solo recuperare un membro produttivo per la tribù e quindi lo interroga, gli chiede conto della sua scelta. Alle rimostranze del capo e della tribù egli risponde negando la propria inutilità, anzi rivendicando su di sé il compito di rendere tutti più consapevoli della propria esistenza, di abbellire con le sue parole la vita di tutti. Ma la bellezza per una tribù di cacciatori e raccoglitori di bacche è uccidere un cervo gigante e trovare una distesa infinita di lamponi, mica ascoltare il canto di un mangia a ufo un po' fuori di testa, per questo non sono ancora pronti. Così, visto che il tipo non ne vuol sapere di tornare ad essere produttivo (nel senso inteso dalla collettività), il capo decide che tanto vale liberarsene e lo lapidano. 
Quel che conta, conclude l'amico G., è che il tipo si lascia lapidare senza un lamento, senza chiedere pietà, senza accampare un'improvvisa follia che lo ha costretto a cantare cose insensate, senza dire - Perdono! Ero posseduto da uno spirito maligno, ma ora ritorno a cacciare e a raccogliere bacche buono buono.- senza dire - Perdono! I proci cattivoni mi hanno costretto-.
Nessuno ci ha costretto ad essere poeti, l'abbiamo scelto noi assumendocene la responsabilità. E il fatto che nessuno canti per se stesso è un'assunzione di responsabilità ulteriore. Non c'è nessuna innocenza nella poesia, nell'arte in generale. Perché arte è una parola estremamente concreta, esprime il concetto del fare, del produrre artifici, la bottega, il sudore, la fatica, le scelte e i ripensamenti, il possedere ciò che facciamo".
Tutto quello che l'amico G. dice  è molto interessante. Soprattutto quando dice che la tribù del paleolitico ad accettare il tanghero improduttivo che mangia a ufo non è ancora pronta. Non è detto che ciò vada inteso storicisticamente, nel senso che magari altre tribù del paleolitico nello stesso momento erano comunque già pronte, ma resta il fatto che a quanto pare nell'età del bronzo la faccenda era già acquisita: Ulisse si ferma e non uccide il collaborazionista. L'acquisizione culturale della bellezza come sublime accessorio della seconda natura è dunque avvenuta solo dopo un processo più o meno lungo? Mi sa che non è solo proprio così. Certo che per l'uomo, e la donna, del paleolitico la bellezza sta nell'uccidere un cervo gigante o nello scoprire una distesa di lamponi ma quando è sazio/sazia gli/le piace rammentare quella bellezza con i gessetti sulla parete della caverna e mi sa anche che scoprono l'altra funzione, quella apotropaica, delle pitture, quando hanno fame. Il lapidato dell'amico G. ha un po' l'aria dello sfigato che ha sbagliato tribù per cominciare la sua storia. Se è così, se, almeno dal diffondersi dell'homo sapiens sapiens, le cose procedono quasi di pari passo allora non è ovviamente questione di dei che ci chiedono il canto ma qualcosa che sta in noi per noi. E quindi non è vero che 'gli uomini se ne fregano' ma è vero che certuni sì.
Ulisse per me è poi portatore di un altro problema: la giustizia al suo tempo era una faccenda personale, familiare, tribale. La legge patriarcale voleva così, Ulisse fa strage di un centinaio di persone e la sua vendetta arriva come monito fino a noi. Le colpe dei proci lui le lava nel sangue. Le colpe dei proci oggi non so se sarebbero arrivate a sentenza.
Mi sa che Omero, o chi per lui, quando scriveva di Ulisse che si vendica in maniera così sanguinaria deve essersi detto che la produttività media della difesa della legge patriarcale era giusto che andasse rispettata  ma che forse non era il caso di prenderla così tanto sul serio. E ad ogni buon conto a Ulisse gli ha fatto risparmiare quel tipo improduttivo ( cioè se stesso).

martedì 28 febbraio 2012

Quando Odisseo, tornato a Itaca, compie la sua strage, si arresta solo davanti al poeta, al cantore, l'aedo che lo supplica di risparmiarlo. Gli dice risparmiami, abbi pietà, tu avrai rimorso un giorno se uccidi il cantore perché "io canto per gli dei e per gli uomini". E continua dicendogli che lui l'arte l'ha imparata da solo ma che un dio gli ha ispirato in cuore tutti i canti: "non tagliarmi la testa, io canterò davanti a te come davanti a un dio".
Odisseo si ferma, anche perché Telemaco gli conferma che l'aedo è stato sempre costretto a cantare.
Cosa ha cantato? Cosa ha cantato che potesse tenere lontano un giudizio di connivenza criminale con i proci? Qualsiasi cosa abbia cantato non entra a quanto pare in questione, Odisseo lo risparmia perché ha cantato sotto costrizione, poi che abbia cantato la guerra di Troia o quant'altro non ha importanza. Il poeta è libero di cantare quello che vuole e se canta in catene per un principe odioso e crudele non va considerato suo complice (ai complici veri ben altra sorte è riservata, le dodici ancelle che si sono concesse ai proci le fa impiccare tutte da Telemaco, al servo Melanzio gli fa tagliare nell'ordine naso, orecchie, genitali, mani e piedi).
Il poeta costretto a cantare è innocente. La poesia è innocente? 
Omero non ha dubbi. L'autonomia della poesia è un dato 'naturale', uno statuto? Il poeta canta per gli uomini e gli dei e tanto basti. Con il suo canto li intrattiene, li consola, li distrae, li emoziona, li fa riflettere.
Il poeta, la poeta non cantano per se stessi, cantano per gli dei, per le dee, per gli uomini, per le donne.

martedì 21 febbraio 2012

L'amico G. contesta le recensioni. 'Aggiungono' troppo! Stravedono, cose che l'autore non si è mai sognato di voler dire!
Le cattive recensioni credo siano proprio così. Ma allora sono esercitazioni letterarie i cui scopi stanno nella mente dell'autore. Ci si accorge che sono esercitazioni se non danno emozioni. Perché una buona recensione dà emozioni come una buona poesia, insomma ci si deve sentire il sangue e il corpo dell'autore. Ma in questo caso il critico lettore viaggia per conto suo, segue il flusso delle sue emozioni conseguente all'impatto con i versi letti. Aprirà su sentieri che non appartengono più all'autore. Perché il testo poetico, come dice Bachtin, una volta dato alle stampe diventa nel corso degli anni anche tutto quello che è stato detto su di esso. Dante stupirebbe enormemente di tutto ciò che in sette secoli i lettori sono riusciti a vedere dentro la Commedia!
Città alta, che sta nel post precedente, ha ricevuto all'uscita diverse recensioni.
Una di queste è di Roberto Caracci, lettore attento e sensibile. Nelle serate a casa sua, nel Salotto Caracci appunto, presenta l'autore, lo fa parlare e poi ci scrive sopra una scheda critica, 'aggiunge' cioè un po' di sé al testo poetico (o filosofico o altro, dipende dall'invitato).


5 nov. 2003

Amici salottieri, vi mando qualche riflessione sul libro di Rabissi presentato nel 'denso' incontro di ieri 4 novembre.
R.C

Appunti su “Città alta”, di P.Rabissi

1)      L’ORIZZONTE IN ESPANSIONE
Le ‘fughe’ aprono a orizzonti di spazio sempre più vasti, dilatati, dal vicino al lontano, proprio come lo sguardo di un bambino che comincia pian piano ad allontanarsi dalla sua casa di origine, a svezzarsi dal nido, a camminare pieno di esitazioni, ma anche di meraviglie e di stupori

2)EPIFANIE E AGNIZIONI
E infatti qui tutto è dominato da un’aura di scoperta, una dimensione epifanica, dove in uno spazio metafisicamente minimalista tutto appare come piccolo prodigio, rivelazione, agnizione
 

3)      LO SPAZIO AMPLIFICATO DELL’INFANZIA

E allora gli occhi di questo bambino che scivola rapidamente verso la maturità, che è già adulto e lo diventa sempre di più man mano che scende da questa Trieste alta verso il mare, vedono le cose più grandi di quello che sono, amplificate e enfatizzate, come in una dimensione di fiaba quotidiana, dove anche i ‘topi sono ‘grossi come gatti’
,la casa dei ‘malati di mente ha qualcosa di inquietante e il cane che ti annusa negli occhi è ‘monumentale’(forse addestrato ‘a fare la spia’).


4)      VERSO IL NITORE DEL MITO
Il passato si fonde con il presente, quel viaggio del bambino fuori dalla sua porta di casa viene ricalcato dai passi dell’adulto. La realtà è ancora lì, la ‘stessa trattoria’
sulla strada e quel ricordo della ‘donna che urla’ uscendo contro il marito ubriacone, un quadro effimero che ha già la nitidezza immobile del mito.
 

5)BAMBINO E ADULTO, DALLA CITTA’ ALTA AL MARE
 E lo sguardo che scende verso il mare (è uno sguardo che viaggia) dilata i suoi orizzonti, arriva al porto, sotto la città alta, dove si ‘accendono risse/col
mare alle spalle”, ma risale anche verso lo spazio alto delle giostre coi sedili volanti- col rischio che quel volo possa risultare fatale per un bimbo, come è accaduto. Dalla discesa al mare si risale verso la città alta e viceversa: non è il doppio cammino del bambino che diventa adulto e dell’adulto che ritorna bambino?
 

6)PRESENTE E PASSATO
Si oscilla fra presente e imperfetto narrativo, ciò che è era e ciò che era è.  La strada scende, la strada ‘scendeva’.
La città è sempre la stessa, ma il tempo ha scavato dentro la vita e i tempi verbali intervengono lì a ricordarlo
 

7)IL BIVIO E LA FRONTIERA
Poi nel cammino di un ragazzo, come nella vita, si arriva sempre finanzi a un bivio, anche qui c’è una strada che scende verso il mare e il rischio di un quartiere assolato che ‘non era sicuro”,
e a destra la casa dei matti: ma poi, ancora più oltre l’invalicabile ‘frontiera’ che per un bambino rappresenta le Colonne d’Ercole della sua fuggitiva avventura.
 

8)IL GIARDINO CHE NON C’E’ Più
E quel giardino che ‘non c’è più’ è il giardino della casa dei matti, dove ‘si
sente lo stesso grido soffocato’ o quello dell’infanzia finita, dell’eden perduto e soffocato dal tempo, come il singhiozzo che resta in gola? E le ‘corde vocali che non reggono ancora lo sforzo’, sono quelle del matto che non ha più la forza  di urlare come prima o della “poesia” che malgrado il tempo ha questa forza ancora un po’ strangolata di rievocare le immagini di un mondo finito?
 

9)MOSAICO IMPRESSIONISTICO
Il linguaggio è rotto, spezzato, fatto di frasi concise, brevi, segmenti di discorso frantumato. Tra un segmento e l’altro il silenzio della discontinuità.
Impressioni e pennellate che formano piccoli mosaici carichi di suggestione.
 

10)LAMINE DELLE IMMAGINI
Questo impressionismo fatto di lamine plurime e frastagliate, sbalzate dentro il quadro di una spazio-temporalità di modalità quasi cubistica, si conferma nei ‘Paesaggi’ della seconda sezione, con i cani del ‘Parco Ravizza’
che ‘si stampano nei fiati’ e le ali che ‘lampeggiano…sulle antenne paraboliche’, o l’inverno del cavalcavia di ‘Piazza Corvetto che ‘abbrevia la luce’


11)LA SALVEZZA DELLO SGUARDO FIABESCO
E infine, la cucitura fra la prima sezione, “Fughe”
e la seconda, “Paesaggi”: fra il mondo dilatato e in espansione dell’infanzia (la strada che dalla casa va verso il mare e risale alla città alta), e quello contratto e grigio del mondo urbano adulto, con cavalcavia e claxon che spezzano l’incanto. La cucitura potrebbe riassumersi in una parola che ricorre nell’ultima parte del volume, ‘fiaba’, o ‘favola’. L’adulto che non è più bambino ma che forse ha ancora lo sguardo del bambino, quando la realtà glielo consente, non rinuncia al suo ‘sguardo caparbio di fiabe’. La realtà è mutata, ma nel cambio dei ‘fondali’ della scenografia urbana- come quello determinato dal cavalcavia di piazzale Corvetto –rimane dentro lo stesso desiderio di favola, o di ricreazione fabulistica, a salvarci: e dunque la libertà di ‘fuga’ verso il mare o la ‘Città alta’.


Roberto Caracci

sabato 11 febbraio 2012

L'amico A. mi scrive da Trieste, manda una fotografia a colori. E' la sua poetica risposta al mio post su i bianchi e i neri di Trieste di qualche mese fa, su questo blog.
A Trieste, fugacissima città natale, ho dedicato nel 2001 una breve raccolta intitolata 'Città alta'.
(ediz. Dialogolibri).

Riporto dalla prima sezione intitolata 'Fughe'.
img531_2.jpg
Fotografia di A.


Le infanzie veloci calzano pietre,
di poca polvere.
Sostano a incroci di qualche luce,
acqua senza storia da un cielo.
Rasentano un muro
calce su calce
danno orecchio alla vita che nasce
ne chiedono il nome
per essere nominate.


trieste 327.jpg


I

Prima che la strada entri in casa
o si rovesci la bambolina
trattenuta da un elastico al  geranio...
c’è  un muretto che salva, cinta
due metri per due di terra durissima
che si scrosta appena con le unghie,
nel sole d’inverno più bianco
con quei passanti radi
da un momento all’altro la strada
entra in casa, l’elastico cede...
in un modo o nell’altro il muretto salva,
unica via di fuga
la voragine accanto, là il nero delle pietre
apre


 trieste 182.jpg
II

Per uscire sulla strada parallela
fai portone corte portone,
lo apri e ci sei,
da lì, ogni giorno, il mare s’intravede.
Il più è quell’attraversamento.
In solitudine, a sera, dicono di topi
grossi come gatti.
Con la pioggia la distanza raddoppia,
eppure è l’acqua di tutti i giorni.


 IV

 Una casa senza balconi. Qualche finestra c’è.
Vicino stanno i malati di mente, i ragazzi dicono i matti.
Lui ti fa salire. Col piede storpio, se scende,
è tempo perso. Ti mostra un giochino,
un acrobata di legno fa piroette
tra due stecchi. Ti dice dopo che l’ha fatto lui.
Se decidi di andare, lui non saluta
alza il volto, sorride dalla bocca
con pochi denti.

 V

Dalla strada in salita
ci sono due possibilità,
il mare a est, i quartieri più bassi a ovest.
Quest’ultima è scelta con rischio.
Le opinioni sono discordi, nell’insieme 
la fama resta terra terra. Si mormora
di passioni mal dirette, a sera
i lampioni restano spenti. Le strade
stringono verso il fondo.
Da lì a volte sale un brusio, crescente.


VI

C’è ancora, la stessa trattoria.
Devi attraversare la strada con attenzione,
può uscire una donna che urla
al suo uomo sorpreso a bere che gli fa male.
A lui hanno aperto un buco in gola,
tutti si chiedono come faccia a bere.


 VIII

Nel corridoio buio, sulla ringhiera,
l’ovale di gatto magro
ha occhi spalancati.
L’equivoco è pensare
che sia lì per impedire il passaggio.
In caso di zuffa può cadere di sotto
sulla scala ripida
che scende dai rabbiosi . E’ incerto
se sia per fame.
Lascia sugli avambracci
due triplici righe di sangue, divergenti.

 IX

Quelli del porto hanno bandiere.
Le agitano, in attesa di scale
per salire, alla luce del giorno, in città alta.
Qua e là si accendono risse
col mare alle spalle.
A volte nemmeno bevono più insieme.
I ragazzi si arrampicano tenendosi
a ciuffi d’erba.


 X

Su c’è gente, più confinata.
Non mancano indicazioni per la salvezza.
Gli sguardi dirigono altrove, più in alto,
forse alla giostra coi sedili volanti,
si dice che ogni tanto se ne stacchi uno.
Nello schianto una ragazzina
si è persa.


 XI

Al bambino disse che le note,
diluite in luce e buio                     
le colorate invisibili,
sarebbero comparse nella foto
per aria, sottratte al mistero.
Mentre suonava l’armonica lui scattava.
Il bambino guardava
studiava come attrezzare
l’occhio imperfetto che addolora.
                                                                  

 XII

Se il giorno schiarisce
sui marciapiedi si fanno incontri.
I figli talvolta riconoscono i padri,
anche attraverso i vetri.
Il barbiere
resta con le forbici per aria.


 XIII

Al bivio i due si fermarono scontenti.
A sinistra la strada scendeva esposta
al sole il quartiere non era sicuro,
a destra si saliva alla casa dei matti
su c’era la frontiera.
Ciascuno prese la sua strada.


 XIV

Il giardino non c’è più.
trieste 225.jpgEppure si sente lo stesso grido soffocato.
Ma nessuno è lì a soffocarlo. Forse
sono le corde vocali
che non reggono ancora lo sforzo .
A volte il corpo fa sogni più robusti.

                            Trieste,  via del Molino a vento.                                                                                                







                                                               

giovedì 9 febbraio 2012

Ma poi perché dare un genere. Poemetto lascia perplesso anche l'amico N. Il quale, nella sua solita ambiguità, dice: certo, superata l'esitazione a usarlo, dopo non resta che poemetto!
L'unica possibilità di bypassare la questione è dare direttamente un titolo.
Troppa enfasi in 'Viaggio in Colonia'. Dove quell''in' dovrebbe dire molto, dovrebbe.
Ad A. invece piace Köln1963'.
Io non posso fare a meno di ricordare 'Concerto a Colonia' di Jarret, che segnò i miei anni settanta.
Ma 'Köln1963' mi suona un po' snob. Meglio 'Colonia, 1963'.
Comunque Claudio non mi parla. La memoria è tornata muta. I due tradimenti sono veri ma ricordo troppo poco. Della sua vita universitaria ricordo la sua battaglia per difendersi dall'accusa di aver usato soldi della cassa del movimento degli studenti. Ricordo la sua appassionata difesa, di quando nella seduta pubblica esibì tutte le ricevute delle spese effettuate. Ma se aveva ragione perché abbandonò l'Università e gli studi per finire a Londra a fare il barman? La memoria è meno avara sui suoi ritorni dal servizio al bar degli ufficiali, che chiudeva come in UK alle dieci di sera. Era sempre un po' sbronzo, mi intratteneva con racconti e fumava le sue Rothmans che l'ufficiale inglese gli procurava. Come mai non mi ha mai parlato di donne? Omosessuale non lo era, almeno mi sembra. O magari lo era e lo nascondeva. Aveva nostalgia dell'Inghilterra, questo sì. Quando decise di andarsene? Da fratello maggiore, come gli piaceva porsi, mi fece raccomandazioni, in particolare mi invitò a non andarmene di lì senza un ricordo. Mi suggerì di comprare un accendino. Un Dupont d'argento. Dovevo insomma andarmene spendendo dei soldi, una sorta di sacrificio per il viaggio di ritorno. In effetti così feci. Quell'accendino l'ho conservato finché una banda di teppisti mi rubò l'auto con dentro l'accendino. Il maggiolino lo ritrovai, l'accendino no. Era il 1970.
Credo partisse per l'Inghilterra ma non ricordo altro. La quarta parte di 'Colonia, 1963' è di là da venire.