venerdì 20 gennaio 2012

Poema, poemetto...

Come si fa a chiamare poema una composizione che alla fine, prevedo, sarà complessivamente di circa quattrocento versi?
Poemetto dà giustizia di questa brevità, rispetto ai classici poemi di più di diecimila versi, però il diminutivo suona in effetti come una diminutio. 
Poemetto ha dalla sua una tradizione. Tra tutte quella pascoliana. Primi poemetti, Nuovi poemetti. Siamo ai primi del Novecento. E quindi sarà poemetto.

Dice Romano Luperini:
All’aggressività e alla negatività della società di massa, Pascoli contrappone i miti della bontà naturale e della poesia. La bontà naturale si esprime nella vita umile e semplice del mondo contadino, cantato con un’adesione priva di problematicità e ignara di contraddizioni e di conflitti. La poesia è il rifugio dei valori cancellati dalla società industriale, un risarcimento per il perduto rapporto solidale con la realtà semplice della campagna. D’altra parte anche nei Poemetti, il fascino naturale sembra spesso alludere alla minaccia di morte e di rovina e forse ancora più rilevanti divengono il dolore e l’inquietudine misteriosa che accompagnano la vita umana. Lo spazio occupato dai temi della decadenza, della corruzione e della morte fa dei Poemetti la raccolta pascoliana più vicina al Decadentismo europeo, anche per la denuncia implicita dei limiti della civiltà moderna».


E Mario Tropea:
La linea generale su cui si svolgono, indicata dallo stesso poeta in una lettera al pittore A. De Witt, è la seguente: “C’è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e famigliare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c’è gran consolazione, la quale non basta a liberarci dall’immutabile destino” ( 28 maggio 1899)».


Società industriale di massa o società agricolo-pastorale, società moderna o postmoderna, società fordista o postfordista, nessuna, credo, sfugge al conflitto, alle guerre, civili e mondiali. Tra i popoli, le parti, le fazioni, le categorie, le classi, i generi. Nessuna delle forme in cui l'umanità si organizza può peraltro fare  a meno di desiderare e/o realizzare il contrario. La pace, la serenità, l'armonia. L'arte è specchio di questa doppia tensione dell'umanità. Quella che distrugge e quella che crea. Quella che crea strumenti distruttivi, quella che distrugge persone e opere. Quella che crea opere di bellezza o forme di distrazione e consolazione. La poesia non può sfuggire a tutto ciò. E' specchio del conflitto, è opera di consolazione.
Questo poemetto consta al momento di tre parti (ne prevedo una quarta): un prologo (nei poemi classici il proemio) intitolato 'Indicazioni', una seconda parte intitolata 'La solitudine di Schenk', una terza parte intitolata 'La nostalgia di Orlando'.




Indicazioni
  
    …a ben vedere non c’erano obblighi
solo inviti, indicazioni di percorso.
Eppure qualcuno si sentiva addosso
un destino, come una condanna.
Si interrogavano i più, segno
che la questione importava,
se la libertà nel cammino era totale.
I giovani, usciti dal liceo,
ne parlavano per strada
tra un semaforo rosso e l’altro

    quel trattato di Pisacane,
Saggio sulla rivoluzione,
faceva mostra di sé
sulla bancarella di libri usati.
L’edizione era vecchia, ma la copertina
di colore grigio topo,
aveva resistito bene all’usura

    quei due ragazzi visti controluce sulla darsena
avevano movenze da danzatori
si contendevano tra i piedi un sasso
finché uno dei due di esterno destro
lo infilò dritto nel tombino

    la cappella situata nei pressi della scuola
ospitava qualche studente solitario
la sua preghiera mattutina era muta
la volta a crociera lo avvolgeva invece con calore

    chiamava alla responsabilità personale
verso il sacro con ferma virilità.
Chi avvertiva in sé l’imminente perdita
ne restava intimorito.
Nella memoria quella virilità non fu intaccata,
l’insegnante di religione, come poi si seppe,
era stato invece allontanato a divinis.



La solitudine di Schenk 

Per fissare i rinvii della memoria
è utile il disegno di una mappa.
In quel territorio s’intrecciano tuttora
sentimenti e progetti. Più a Nord rispetto
ai due campi, è certo,
turchi, greci, spagnoli, italiani abitano
periferie chiassose dove le risse scoppiano
frequenti.           

A Sud i due campi contigui sono separati
da una fitta rete di ferro.
Gli abitanti del campo a Nord,
per entrare in quello a Sud, devono possedere
un pass, il più delle volte non serve,
i volti infatti sono quasi sempre gli stessi.
Stagionali e avventizi sono rari
ma forse è la memoria che immobilizza
lo scenario.

Dieter sciancato, rifugiato dall’Est, parla inglese,
è convinto che la libertà assoluta non esiste
“…ma voglio essere libero di scegliere
le mie schiavitù, you see?”.           
A est del campo, lasciando correre lo sguardo
lungo la pianura fino all’orizzonte,
tutto appare deserto, è non conosciuto.

Qualcuno potrebbe dire che qui
l’unica religione è il lavoro.
Sul permesso di lavoro, controfirmato da un
religioso, deve comparire la religione professata.
Con qualche insistenza si riesce infine  a ottenere,
evitando il balzello, la scritta keine religion.

Tra versi petrarcheschi e ragazze Carla
le indicazioni non abbondavano,
tra erbe e rami fioriti e tic tac di macchina da scrivere
si poteva imboccare un sentiero poco noto,
forse una scorciatoia oppure il contrario.
A Ovest  i bassi casamenti sono depositi
per ricambi di lenzuola, coperte
e qualche altro comfort. Non lesinano
nella distribuzione anzi invitano a una cadenza
settimanale, per non trascurare l’igiene.


La memoria ha fissato un tempo duraturo,
un inverno inoltrato, un principio d’estate, un sole a tratti,
un verdeggiare fresco e sul piazzale delle passioni
al cambio di turno l’incontro regolare con Schenk
- Wunderschön, ah?
- Wunderbar…
Alla cava vicina lo spettacolo è assicurato, corpi
al sole, trasparenze.

Dieter passeggia conversevole trascinando il suo piede,
indica due caccia americani che sfrecciano nel cielo,
ricorda la sua fuga nel bagagliaio.
Forse è per questo che frequenta il vicino aerodromo
per alianti. Quando è in alto e il suo apparecchio si sgancia
dice che urla per la libertà e la bellezza.
A leggergli versi in italiano si lascia cullare,
non capisce, gli piace la musica che faccio.

Sicuramente la memoria ha fissato da tempo
la mappa dei luoghi, degli incontri.
Bastava solo ridarle occasione,
questa storia, ma verrebbe da pensare ogni storia, 
scritta era scritta da tempo,  
bastava trascrivere il tutto come sotto dettatura.

Al cambio di turno nei pressi del cancello minore
la solitudine di Schenk si staglia ogni giorno,
non è tanto la sua notevole altezza, la magrezza
ma l’impronta dello sconfitto dalla vita.
-Tu studi la Storia, non ne caverai niente.
Da tremila anni è bloccata, è sempre la stessa.
Sarai solo anche tu.
Quando esce dal suo casamento nella rientranza
della sua finestra accomoda terra e acqua
nel piccolo vaso dove a volte
fiorisce un fiore rossastro.

L’entrata è dal Main Gate, situato a Est,
chiedono il pass solo la sera al rientro
da scorribande notturne nei quartieri a Nord,
veri e propri dormitori, attrezzati con qualche verde
e di presidi sanitari dove s’incontrano mogli
e madri turche, italiane, greche, spagnole
con i figlioli vocianti. L’intreccio delle lingue
le fa esplodere tutte in risate concilianti.
L’entrata nel campo è dal Main Gate dove
talvolta sostano due cani pastori tedeschi.
Si tratta solo di una coreografia di qualche
malizia, il conduttore dei cani chiede il saldo
di un debito dimenticato.

Schenk non commette errori, quando esce
punta diritto verso il sentiero in terra battuta
e lo segue. Non vigila su nulla e per l’habitat
non è possibile distrarsi per alcunché
- il verso è una misura d’uomo, non più in là
di tanto né meno, un equilibrio interiore.
Il suo passo sottile, come una lametta
incide il sentiero in silenzio
- a volte inseguo il pensiero e non trovo
la parola. Se qualcuno è vicino a te puoi
chiederla a lui, la prima che dice.



La nostalgia di Orlando

La carta geografica segnala confini,
fiumi, laghi, lo sguardo forza la memoria
penetra in basso fino al reticolo di strade,
vede parchi sotto la neve, il Reno
che lima le sponde, sente stridere i gabbiani.
La neve sulle guglie del Duomo
di Colonia vela marmi tagliati
in stile italiano.
Nella neve di febbraio la sosta all'interno
è su note di Johann Sebastian Bach.

La cattedrale, salva per caso, di Colonia distrutta.
La lunga pace infittisce il sottobosco,
i parchi cittadini ricchi di acque. Hohe strasse,
l'arteria principale, di sabato invasa da proletari.
Al cinema danno 'Accattone' di Pier Paolo Pasolini.
Hans figlio di operai studia legge,
ha nostalgia di un passato che non conosce,
dice di averne memoria.
La Storia per lui è un eterno presente.

I giovani cercano senso, fanno
ipotesi sul mondo, sfrondano il mistero.
Percorrono continenti, negli hub si salutano
si scambiano mappe, lasciano indizi.
Raccolgono l'oro lasciato dalla Storia.
La natura è stupida e feroce, dice Peter l'australiano,
otto milioni di uova per fare un salmone,
occhio al ragno saltatore, si solleva
fino all'altezza degli occhi e lì colpisce.
Peter dice di non fidarsi,
invita alla ricerca, chiude il libro dei tuoi versi.

La memoria si attarda su spazi pieni
incurante che il vuoto e il nulla
sono solo apparenti. La rete invisibile
delle passioni tiene in tensione i due campi.
Anche a sera quando la cantina è deserta.
L'alcool sgrava dalla solitudine
che il juke box non addomestica.
I dormitori sono tutti al buio,
solo i due cuochi amanti
rompono a tratti il silenzio.

Gli spazi vuoti segnalano forme invisibili.
Il filo di ferro della rete che separa i due campi,
spesso e rugginoso, intreccia rombi,
nella pioggia sono occhi luccicanti.
A rientrare a sera i dormitori sono ombre distese.
Gli spazi vuoti fra di loro sono terra di nessuno,
è una geometria, è familiare.

***

Miss Tennent comanda la mensa autorevole,
una dozzina di serventi, tre cuochi.
Assaggia alle sette il the di giornata
se le piace fa felice lo chef dagli occhi azzurri.
- You've got fine pants, today! dice al giovane
italiano vestito da festa. Distribuisce compiti,
sorveglia le porzioni del lunch, ti guarda.
A sera, nel quartiere lungo il fiume, ragazzi
le danno piacere per poco.

Per le strade del campo inglese il percorso
è obbligato, Orlando non commette errori
- il destino non è stato cattivo, è già tanto
che non sono in galera -. Disegna col furgone
un arco da Ovest a Est, dal magazzino
alla mensa, andata e ritorno con pausa the.
Il sottoufficiale si dondola sui piedi proprio
sull'entrata: I'll be washing my hands, I think.
Sul furgone l'aiutante di Orlando carica food
and meat, burro, the, patate, il burro è salato
a Orlando non piace, fa solo un po' di cresta
al vassoio della carne.
All'entrata della mensa afferra con l'uncino
i sacchi di patate, li trascina all'interno, si annuncia
cantando in falsetto anema e core.
Talvolta insegue miss Tennent nei corridoi.


In ricorrenza di festività o di vittorie ignote
ai più, l'ufficiale scozzese con kilt e cornamusa
batte un perimetro quadrato immaginario,
tiene il passo cadenzato come fosse in battaglia,
alterna a brevi intervalli un grido di comando
poi torna a soffiare nello strumento.
Da Ovest un sole di ghisa illumina il campo.
Tutti concordano sul termine dell'esibizione
a tramonto inoltrato.


Orlando non ha nostalgie. Napoli è solo
un'alzata di spalle, uno sguardo rivolto altrove,
come lontano dal cuore l'amore senza occhi.
Rammenta le strade in Renania Westfalia,
dopoguerra, casalinghe indaffarate,
uomini in fabbrica a produrre per il boom.
Orlando alle undici del mattino, alle tre
del pomeriggio, chiama le donne per strada,
vende ritagli di stoffa italiana come fosse
americana indistruttibile - per questo hanno vinto
la guerra - sparge alcol non visto, dà fuoco
con lo zippo, spegne col pollice prima che l’alcol finisca.
La seduzione non finisce mai. Orlando
amandole tutte semina tracce di sé, ich liebe dich,
tempi gloriosi di maschio italiano.

Irrompe sul piazzale delle passioni,
la squadra di operai non tende un agguato,
colpiscono al corpo risparmiano il viso,
il giovane sardo che ama la greca
incassa in silenzio si affloscia nell'erba.
La squadra di greci addetta al montaggio,
in fabbrica strappa comando ai suoi capi
difende il salario nel ritmo pattuito
della catena – solo a chi è stanco sfugge
il ritmo accelerato senza maggiore compenso –,
qui, sul piazzale, la squadra difende l’antico diritto
dell’uso patriarcale, il possesso del corpo
e del cuore delle donne.

Se nostalgia lo preme Orlando ti porta in città,
nella latteria italiana che apre sul retro
stanze riservate. Lo salutano con deferenza
ma si vede che il posto migliore è destinato
ad altri, al boss in tweed, col solitario al mignolo.
Racconta di sé. Ma è la mano a disegnare
nell'aria tempi inenarrabili a parole.
Di regine di strada. Di battute di caccia.
Indica i pezzi grossi mano a mano che entrano,
resta in silenzio, abbassa la voce - quando
torni in Italia ti dico io da chi andare,
gli fai due piaceri e ti sistemi -.



sabato 14 gennaio 2012

Miss Tennent comanda la mensa autorevole,
una dozzina di serventi, tre cuochi.
Assaggia alle sette il the di giornata
se le piace fa felice lo chef dagli occhi azzurri.
- You've got fine pants, today! dice al giovane
italiano vestito da festa. Distribuisce compiti,
sorveglia le porzioni del lunch, ti guarda.
A sera, nel quartiere lungo il fiume, ragazzi
le danno piacere per poco.

venerdì 13 gennaio 2012

In ricorrenza di festività o di vittorie ignote
ai più, l'ufficiale scozzese con kilt e cornamusa
batte un perimetro quadrato immaginario,
tiene il passo cadenzato come fosse in battaglia,
alterna a brevi intervalli un grido di comando
poi torna a soffiare nello strumento.
Da Ovest un sole di ghisa illumina il campo.
Tutti concordano sul termine dell'esibizione
a tramonto inoltrato.

venerdì 6 gennaio 2012

Giorgio Caproni. Disabitante innamorato.

8 gennaio 2023
Più di un secolo fa un 8 gennaio Giorgio Caproni nasceva a Livorno, ma la città della sua vita è Genova.
Ho scritto sulla sua poesia un breve saggio comparso su La mosca di Milano numero 8, del dicembre 2001.
Tutta la poesia che ho studiato, come succede a tutti, ha lasciato segni nella mia. Segni inconsapevoli per lo più, eppure almeno in una delle poesie della mia ultima raccolta, I contorni delle cose (Stampa 2010), so bene che avevo in mente lui.
Riporto qui il saggio al quale ho fatto solo poche modifiche.


Il disabitante. 

E’ perenne congedarsi dal mondo la poesia di G. Caproni. Un congedo che dura più di cinquant'anni, da Come un’allegoria che esce nel 1936 a Il conte di Kevenhüller del 1986.
A leggere l’intera sua opera il sentimento di esilio nel mondo, che il poeta esprime, finisce col risultare dominante.Un sentimento che si fa via via più vivo dopo la tragica esperienza della guerra ma che diviene esplicita coscienza a partire dalla raccolta, pubblicata nel 1965, col titoloCongedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee. E’ su questo momento topico e su quelli successivi fino al termine della produzione di Caproni, saltando cioè per ora quella precedente, che vorrei soffermarmi per dichiarare, col poeta, quel sentimento.

Per chi sa “d’avere più conoscenze / ormai di là che di qua” cominciano a farsi necessari i saluti. Succede nella poesia del Congedo che dà titolo alla raccolta. Il cerimonioso viaggiatore saluta, sul treno, i suoi compagni di viaggio, si scusa per il disturbo, si rammarica di non poter godere oltre della loro ottima compagnia. Segnali sicuri avvisano il viaggiatore che l’arrivo per lui è imminente, anche se il luogo del trasferimento è del tutto ignoto. Non solo: il viaggiatore confessa persino di non conoscere “quali stazioni / precedano la mia”.
L’ironia, lieve e controllata, dà alla poesia un tono di leggerezza: è volontà precisa del poeta di trattare così temi impegnativi. Prima dell’ultimo saluto (“Buon proseguimento”), a chiusura della poesia stessa, il viaggiatore proclama l’unica certezza raggiunta nel suo viaggio: “io / son giunto alla disperazione / calma, senza sgomento.”

La disperazione è quella di chi si trova a vivere nello smarrimento esistenziale seguito alla violenza della guerra e al dispiegarsi alienante della modernità. Ma è disperazione calma, di chi non rinuncia a fare i conti con la solitudine, col deserto della vita, con la morte. A partire dal Congedo dunque, e più ancora da Il muro della terra del 1975, che tutti concordano nel ritenere raccolte di svolte decisive nell’opera di Caproni, il tono di fondo della voce del poeta è, sempre più consapevolmente e con maggiore insistenza, quello di chi, smarrite le coordinate di spazio e tempo, si trova ad essere qui e altrove nello stesso tempo. Quella disperazione calma fa tutt’uno, con crescente lucidità, con il sentimento di disabitante del mondo, in perenne congedo, che caratterizza, mi sembra, quasi tutta la poesia di Caproni.

“Io / che non ho abitazione / [...] io / - che non ho ubicazione - ” dice nella poesia Finita l’opera de Il muro della terra, (1975). E ancora, più dichiaratamente, più di dieci anni dopo, nell’universo in cui si sente intrappolato, il poeta conferma di sentirsi “soltanto uno dei suoi tanti / - smarriti - disabitanti”. Lo era già nei panni del preticello irreligioso del Congedo quando costui, allontanandosi dai peccati del mondo, si fa prete per pregare, non perché Dio esiste, ma perché Dio esista. Lo sarà quando, nella raccolta Il franco cacciatore (1982), dichiarerà: “Fa freddo nella storia. / Voglio andarmene.”.

Da qui quell’eterno congedarsi. Che non è solo congedo che voglia quasi esorcizzare la provvisorietà terrena, ma anche consapevolezza delle trasformazioni interne e necessarie delle ragioni della poesia, del suo logos. Ogni commiato è in realtà anche un arrivo e una nuova partenza. La calma disperazione del Congedo diventerà straziata allegria in Il franco cacciatore , e ancor più in Il Conte di Kevenhüller quando, non arrestandosi nella realtà il viaggio, il poeta è sempre più impegnato in sfide estreme, quelle della caccia a Dio e al proprio io. Sfide che confermeranno il sentimento di esilio per chi è a caccia di certezze, perché si concluderanno entrambe con la disfatta. La prima perché “Dio esiste soltanto / nell’attimo in cui lo uccidi.”, la seconda perché l’integrità della identità individuale risulterebbe possibile solo nell’autodistruzione: l’io cacciatore che bracca, a fucile imbracciato, la propria ombra, confessa: “ La mira , ero io. / Il resto, / tutta una fantasia.”, e quando spara ai suoi due io divisi ( un Caino e un Abele in ruoli reversibili, che si amano e si odiano con ardente allegria) in realtà spara a se stesso: “Premetti / a bruciapelo il grilletto. / Li vidi cadere insieme / sotto la raffica. / L’urlo / che alzarono, mi colpì in petto / come piombo. / Fuggii.”.

Per il disabitante smarrito, che non rinuncia alla vita, il tema dell’assenza e della ricerca di Dio e quello dello sdoppiamento dell’io diventano temi decisivi, affrontati come sfida col tono di una amichevole, a tratti aspra, conversazione con il lettore. Ciò che mi preme qui rilevare è che quei temi, con la tensione metafisica che comportano, non solo incidono sul rinnovamento del linguaggio e della metrica che si fa franta, sincopata, dentro una musica quasi atonale, ma modificano anche gli scenari, la geografia fisica.

Quel congedarsi dal mondo è anche un prendere le distanze, materialmente, dalla scenografia precedente. Succede così che la città, luogo fisico privilegiato nelle poesie di Caproni precedenti la pubblicazione del Congedo, da ora in avanti tende a scomparire o a comparire perlopiù in negativo. E di negatività è investita anche e soprattutto Genova, la città tanto amata da Caproni (insieme a Livorno sua città natale), anche se viva ormai soltanto nella memoria del poeta che da tempo, come vedremo, si è trasferito a Roma.

In Il congedo (del 1965 quando Caproni è già a Roma da quasi vent’anni) il preticello, smarrito nella sua irreligione, ha infatti voluto allontanarsi dalle tentazioni proprie della sua città, di quella Genova mercantile dei vicoli dove persino il mare “pare insaccare / denaro nel rotolio / della risacca” e che “pone nell’arricchire / (e nel riuscire) il solo / scopo delle sue mire”. Ed è ancora di Genova che il poeta parla quando, in Il muro della terra (1975), dice:“Il trifoglio / della città è troppo / fitto. Io son già cieco”, una poesia nella quale conferma, sia pure con rammarico, di essersi congedato per sempre dalle “matte risate, / la sera, all’osteria / dietro le donne.”. Nella stessa raccolta è sempre in quella città che la luce s’è fatta ormai troppo dura e impura: “nel tronfio rigoglio / bottegaio, la città / sputa in faccia il suo Orgoglio / e la sua Dismisura.” sicché il poeta si sente costretto a sottrarsene avendo negli occhi un “fulminato spavento.”.

Ma la polemica poi investe la città in generale. E’ il cuore stesso di ogni città ad essere morto “ la folla passa / e schiaccia - è buia massa / compatta, è cecità”. Più tardi, in Il conte di Kevenhüller, e saremo nel 1986, il poeta conferma la sua presa di distanza ormai senza tono polemico e senza alcun rammarico: “Le città d’una volta / (le belle città costiere / e le bianche spiagge del sole. / Le barche. Le bandiere. / Le donne nudeggianti / sventate e pigre) la mente / più non ci turbano.”.

Il territorio nel quale il poeta, straniero al mondo e a se stesso, si è definitivamente inoltrato (con Il muro della terra del 1976, Il franco cacciatore del 1982, Il conte di kevenhüller del 1986) è ora fatto perlopiù di campi spopolati, di pianori deserti battuti dal vento. Ogni traccia di sentiero, se mai ce ne fu, è andata perduta. E’ il vuoto ad avere quasi consistenza e le parole stesse “scavano nel vuoto vuoti / monumenti di vuoto.” E’ rimasto solo il vento “Un vento / lasco e svogliato [...] Un vento / spopolato.”.

Qua e là s’intravedono alberi, un ponte, l’acqua; a volte “i tavoli / della locanda ancora / ingombri”. Talvolta, all’improvviso, compare un bar dove il poeta, che medita sulla propria identità, crede di vedere se stesso in un altro avventore che ha il volto fisso “sulla sua birra svogliata”: ogni tentativo di stabilire un colloquio fallisce: la radio, la calca lo impediscono.

Il paesaggio poi torna a essere spettrale. Nebbia, nevischio, fumo e il cielo come fanghiglia. Finché ci si trova nell’ultimo borgo, dove si aprono i ‘luoghi non giurisdizionali’ di Il franco cacciatore (1982). Brughiere, foreste, aree di confini incerti senza dogane o frontiere, dove non si sosta ma si passa, da un vuoto a un altro vuoto. Sono i luoghi dove con maggiore evidenza la realtà della storia si mostra più inconsistente. Dove ogni violenza, ogni caccia, si mostra ferocemente inutile: ogni cacciatore si rivela in realtà un cacciato, ogni persecutore una vittima. Sono i luoghi nei quali la Bestia vociferata, in Il conte di Kevenhüller (1986), braccata inutilmente, risulta aver dimora dentro noi stessi. Dove appare più chiaro che nessun al di là attende nessuno e che nemmeno il nulla esiste. Dove è possibile infine rivedere, trasparenti, i morti “Vivi dentro la morte / come i morti son vivi / nella vita.”.

Non luoghi, dunque: “Là / fra la palpebra e il monte” dove pure esiste “tutta quest’erba felice / di nessun luogo”, “nelle regioni gialle del sogno”, quando l’ora è: “l’ora / di taglio tra mano e volto”.

In questo scenario poetico si rinnovano congedi, addii. La città è ormai lontana. E’ lo scenario poetico imposto dal cuore e dalla mente al disabitante del mondo che si aggira nel labirinto dei nodi e dei conflitti di un uomo del secondo novecento, dentro,come sottolinea L. Surdich, “le tematiche novecentesche dell’io scisso, dello sdoppiamento, dell’analisi e della rappresentazione del negativo”.

Occorre tuttavia dire che, per quanto aereo e spettrale si faccia lo scenario dal Congedo in avanti, la presa con la realtà è nella poesia di Caproni irrinunciabile. La riflessione, le idee trovano sempre il modo di sciogliersi dalla loro astrattezza per farsi “prodigiosamente narrazione e rappresentazione” dentro situazioni in cui, accanto a una sospensione quasi allucinata del reale, si sente tuttavia, per brevi cenni, la consistenza di una dimensione materiale, quotidiana, domestica. I segnali concreti ai quali accennavo prima (un bar, un’osteria, ecc.) finiscono col rinviare agli scenari abituali interiorizzati nella vita in città. In questo senso mi sembra significativo che una delle ultime poesie di Il conte di Kevenhüller, che è del 1986, sia ambientata in un bar anonimo e come sospeso nell’aria: la ragazza del banco interrogata sulla sorte di un ‘lui’ risponde che è scomparso, “E riprende a sciacquare i bicchieri, / ripresa dai suoi pensieri.”. E’ un’immagine che rimanda inevitabilmente, e faccio qui un’anticipazione, alla ragazza che sciacqua bicchieri nella conclusione di Stanze della funicolare , una complessa composizione interamente centrata nell’universo genovese e che è presente in Il passaggio d’Enea. Questa raccolta è del 1956, cioè di trent’anni prima del sopra citato Conte di Kevenhüller. Nel suo insieme è espressione dello struggente amore di Caproni per la sua città.

Il disabitante innamorato.

Recupero ora all’analisi le opere che precedono Il Congedo del viaggiatore. Là dove la città, Genova, domina la scena.
A Genova Caproni giunge nel 1922, a dieci anni. Vi trascorre la sua adolescenza e giovinezza. Vi resta fino allo scoppio della guerra. Fino ad allora la sua poesia ( nelle raccolte Come un’allegoria e Ballo a Fontanigorda, del 1935 e del 1937) è in presa diretta con l’amatissima città.
E’ presa di sensi in continua sollecitazione. Coglie il permanere nel vento, quando le risse e le sassaiole sono finite, di “un fiato di bocche accaldate / di bimbi”. Coglie, al tramonto, il colore del mare, così sbiadito che pare entrato negli occhi - “macchie d’indaco appena / celesti “- del bagnino. O, nella notte, l’odore acre di sugheri bruciati in improvvisati falò estivi. Più spesso nella città, nei pressi del porto, l’odore di catrame e il tanfo “di bolliture / rancide, d’olii di semi” che viene dalle friggitorie. Se i sensi si incrociano soccorrono sinestesie e allora “un tram / col suo fragore la brace / dei gridi attizza”.E’ presa carnale. Su fanciulle: “ sento ancora / fresco sulla mia pelle il vento / d’una fanciulla passatami a fianco / di corsa.”. Sulle donne: “S’illuminano come esclamate, / ad ogni scoppio di razzo, / le chiare donne sbracciate / ai balconi.”. E “carnali risa di donne” si levano, in una poesia successiva, dal putridume fresco delle acque del porto. Di donne “che sanno / così bene di mare”.

Poi si avvicina il tempo di guerra. La raccolta Finzioni (pubblicata nel 1941) raccoglie poesie scritte entro il 1939 ed è già incupita da un sentimento di fine delle cose, del loro inevitabile spegnersi. Avrebbe scritto più tardi lo stesso poeta di una “quasi allucinata chiaroveggenza con cui nel sangue era presentita [...] l’ineluttabilità della tragedia in agguato.”. Siamo già nell’atmosfera dell’addio e del congedo. La guerra sarà il trauma più doloroso della vita di Caproni.

Dopo aver partecipato alla guerra di liberazione in Val Trebbia si stabilisce a Roma con la famiglia. Fa il maestro. Genova è ormai lontana. E’ un ricordo. Tanto più vivo quanto più estranea gli risulta la nuova città: “ah perdere anche il nome / di Roma, enfasi e orina.”. Ed ecco la raccolta del 1956 Il passaggio d’Enea che vive interamente nel recupero memoriale della propria giovinezza genovese.
Solo a Genova si può scrivere, vivere, solo lì sarebbe possibile una morte gentile. “Genova mia città fina : / ardesia e ghiaia marina. / Mare e ragazze chiare / con fresche collane di vetro / (ragazze voltate indietro, / col fiasco, sul portone / prima di rincasare)”. Unico punto saldo di riferimento, nella memoria, Genova è simbolo di consistenza, di fermezza, di solidità: ”Mia Genova difesa e proprietaria. / Ardesia mia. Arenaria. / Le case così salde nei colori”. Ma, più ancora, città degli amori, della vita viva: “La mia città dagli amori in salita, / Genova mia di mare tutta scale / e, su dal porto, risucchi di vita / viva”.
Genova dunque come dimensione dell’anima. “Genova l’ho tutta dentro. Anzi, Genova sono io. Sono io che sono ‘fatto’ di Genova. Per questo anche se nato a Livorno (altro porto: altra città mercantile), mi sento genovese”.
Lasciare Genova ( i suoi rimorchiatori, le persiane verdi e i gerani, le ragazze a coppie col petto commosso, i passeri dalla voce calda ma grezza, il gioco cantilenante della parlata genovese) è stato per il poeta entrare nella tenebra.

Il sentimento della vita come un passaggio ( verso il nulla) si sta acuendo e sarà, come abbiamo visto, la fonte delle meditazioni delle raccolte successive. Ma congedo e morte qui vengono affrontati ancora dentro la disperazione calma che sarà esplicito approdo della coscienza nel Congedo del viaggiatore. Caproni dice i temi gravi dell’addio e della morte con naturale semplicità, con lo sguardo disincantato e leggero che gli proviene dalla sua accettazione delle regole del gioco della vita. Con Genova ancora nel cuore e nella mente.

Quando avrà deciso di andarci, in paradiso, ci andrà con l’ascensore di Castelletto ( uno dei quartieri di Genova), e di notte, interrompendo il sonno. Sul belvedere, in vestaglia, forse incontrerà le ragazze genovesi: “le leggiadre / giovani in libera uscita / con cipria e odor di vita / viva” e forse anche sua madre: “Con lei mi metterò a guardare / le candide luci sul mare. / Staremo alla ringhiera / di ferro - saremo soli / e fidanzati, come / mai in tanti anni siam stati”. Sarà commosso fino alle lacrime perché lascerà sola Rina, la compagna della sua vita, come quel giorno che era partito per la guerra.

Quando la commozione del ricordo di Genova si fa pressante allora la poesia diventa quasi preghiera. La poesia Litania , che chiude Il passaggio d’Enea , è organizzata con lo schema del rosario. Le quarantacinque quartine di distici baciati si srotolano in una infinita serie, alla maniera litaniale, in un verso di proposta e uno di risposta (in corsivo). La prima: ”Genova mia città intera. / Geranio. Polveriera. / Genova di ferro e aria, / mia lavagna, arenaria.”. E’ la sua Genova tradita, che lo carica di rimorso. Ma soprattutto Genova “rimario, puerizia e sillabario”. Città di mercanti e industriali ma soprattutto di “Campana Sbarbaro e Montale”.

Ne esce un quadro totale della città, nei suoi scorci paesaggistici e nella sua topografia, nei suoi aspetti umani, storici e civili, nella memoria autobiografica.

Sono però, infine, le Stanze della funicolare, la vasta composizione che occupa la parte centrale de Il passaggio d’Enea (del 1956) e che rappresenta un viaggio allegorico dalla vita prenatale fino alla morte, a dare definitiva sostanza alla mitologia genovese di Caproni. La funicolare, come accade nella realtà, parte da un breve tunnel (il prima della nascita) e poi sale lentamente senza potersi fermare, tirata dal suo cavo (il destino inarrestabile), verso la meta finale ( la morte) avvolta nella nebbia che dà alla conclusione una atmosfera ‘vagamente purgatoriale’. Qui spazio e tempo si confondono, allegoria e onirismo sembrano prevalere. Ma sotto e intorno c’è la città.

Anche nel ricordo la presa di Genova è sui sensi. Luci acide feriscono gli occhi; l’alba, che segna l’inizio del viaggio, sa di rifresco e di rifiuti gelidi. In basso sui marciapiedi deserti si sente il fracasso delle carrette degli spazzini. Dal mare sale il respiro. L’aria vibra di sale e di rame al primo passaggio di un tram. L’aurora colora il sartiame del porto. Poi le tende bianche sulla marina, agitate dalla prima brezza, richiamano sciami di ragazze dai calcagni arrossati. Sui tetti a mezzogiorno compaiono i bucati stesi, si sentono risse esplodere tra i grigi casamenti di Oregina. Più in là, sopra le carceri, genovesi in raduno giocano a bocce al tramonto. Scesa la notte, la pioggia lava la città e sugli scogli ragazze in amore porgono la spalla spruzzata di pioggia ai marinai e le pietre odorano di luna appena spuntata. In un buio bar sul lungomare una donna lava in terra e una giovane sciacqua bicchieri nella nebbia del nuovo mattino.

Così, con rimpianto, con rimorso, il poeta si congeda da Genova. Aveva già scritto:“Nell’ossa ho un’altra città / che mi strugge. E’ là. / L’ho perduta. [...] Città / cui nulla, nemmeno la morte / - mai, - mi ricondurrà”.

giovedì 5 gennaio 2012

Blues, labrador nocciola

Ti chiedevo dell'inconscio, sulle sue profondità,
su quel prato gigantesco a duemila metri,
tenevo tra le dita un fiore senza averlo colto
eppure ti chiedevo delle tue radici, dell'acqua
da cui proveniamo.
Tu per risposta annusavi l'aria sottile
disperdevi lo sguardo intorno, sulla catena
di Dolomiti che avevamo per sfondo
con le malghe incassate nei fianchi.
Il tuo interesse era lì
in quel profondo orizzontale, quello sterminato
spazio di valli che avresti esplorato volentieri
con me anche se la vita non bastava.
Cara Blues, avevi ragione anche su questo,
su inconscio e radici l'esplorazione
non finisce mai.

mercoledì 4 gennaio 2012

Per le strade del campo inglese il percorso
è obbligato, Orlando non commette errori
- il destino non è stato cattivo, è già tanto
che non sono in galera -. Disegna col furgone
un arco da Ovest a Est, dal magazzino
alla mensa, andata e ritorno con pausa the.
Il sottoufficiale si dondola sui piedi proprio
sull'entrata: I'll be washing my hands, I think.
Sul furgone l'aiutante di Orlando carica food
and meat, burro, the, patate, il burro è salato
a Orlando non piace, fa solo un po' di cresta
al vassoio della carne.
All'entrata della mensa afferra con l'uncino
i sacchi di patate, li trascina all'interno, si annuncia
cantando in falsetto anema e core.
Talvolta insegue miss Tennent nei corridoi.

martedì 3 gennaio 2012

Giunto a Milano fui costretto a segnare il passo in un paradosso di inadeguatezza. Perché qui, contrariamente al solito, essa consisteva nel fatto che su questioni di sesso ero molto più avanti di tutte e tutti. E dunque inadeguato all'ambiente! Al mio liceo di Milano di amore e di sesso non si parlò mai. Il mio insegnante di greco, quando si accorse che negli intervalli mi intrattenevo con una ragazza, ironizzò pubblicamente sulla faccenda e alla fine dell'anno scolastico mi spedì immeritatamente a settembre. Greco era una delle mie materie preferite, il mio profitto ovviamente non era brillante ma la sufficienza riuscivo a strapparla. Gli anni erano quelli. La serietà dell'Istituto si fondava sulla censura assoluta su questioni di amore e di sesso e naturalmente sulla disinformazione totale della quale peraltro le famiglie stesse erano complici.
Modigliani Nudo Rosa
Invece io sapevo molto e il mio desiderio era lì lì per trasformarsi in appetito. Mancava solo la condivisione cameratesca. Venivo da una permanenza di quasi tre anni, la più lunga della mia vita di studente prima di Milano, a Rimini. Dove di sesso se ne parlava e faceva in abbondanza. Anzi quella era la dimensione costante e quotidiana nella quale vivevamo io, i miei compagni di classe, i miei compagni di strada, i conoscenti, gli adulti maschi e femmine, persino la coppia di anziani  che mi ospitava, che intendeva rallegrarmi con storielle atroci di sesso, e la figlia, ormai zitella, belloccia, che tentò, inutilmente per via della mia timidezza, di avviarmi ai rapporti sessuali. L'attività sessuale maggiore tra noi maschi adolescenti era ovviamente la masturbazione. Alimentata, del tutto involontariamente, dai preti che al momento della confessione accoglievano il volto dei ragazzini fra le ginocchia ricoperte dall'ampia tonaca sotto la quale il confessore si dava godimento. Al mio arrivo a Rimini peraltro era risultato subito quanto fossi indietro. L'attività masturbatoria, della quale non avevo ancora notizia, lì era oggetto di sottili ragionamenti. Dedicarcisi due volte nello stesso giorno soprattutto d'estate, col sole e il mare affollato, poteva anche capitare, ma chi esagerava veniva rimproverato pubblicamente. Il giovane iscritto a una società ciclistica con la quale partecipava a gare regionali ci istruiva sui tempi: ci volevano tre giorni per smaltire una 'pugnetta' e quindi, se aveva la gara di domenica, il giorno buono era giovedì, che era anche giorno di tortellini a casa sua. D'estate però era tutto diverso. I giovani in età di transizione avevano un'offerta così abbondante che alla fine della stagione erano in molti a guardarti con aria da esperti. Le ragazze riminesi a maggio avevano già l'abbronzatura e l'elegante costume alla moda. Le straniere portavano zoccoloni di legno ma erano altissime e soprattutto molto più disponibili. Causa i miei ritardi e la solita partenza prematura feci appena a tempo a mettermi in pari con la masturbazione. A Milano il senso di inadeguatezza si manifestò all'incontrario. Ero pronto per il passaggio successivo ma la cosa sembrava non interessare nessuno. Ho ricominciato a interessarmi al sesso condiviso solo dopo la maturità e dopo Colonia. Ma, per i tre anni di liceo, desiderio, appetito e tutto il resto fu di nuovo censurato e ricacciato nelle fantasie. A scuola le ragazze portavano lunghi grembiuli neri ed erano inaccessibili. Le cattoliche frequentavano Gioventù Studentesca sotto la guida di don Giussani. Nelle classi marxiste si parlava di politica. Non era come a Rimini, avevo ancora negli occhi quel compagno di banco che era riuscito a slacciare dalla giarrettiera e sfilare le calze a una compagna durante un compito in classe. Quanto a qualunquismo politico, ma non solo, la mia classe ne era massima espressione. Dovetti imparare, adeguarmi ad altri usi e costumi. Tutti tifavano per il Milan o per l'Inter. Un giorno, a casa di un amico, vidi Schiaffino in televisione volteggiare sull'erba a San Siro con una eleganza che mi innamorò. Divenni così milanista e lì feci presto a mettermi in pari. Bastava leggere il lunedì il Guerin Sportivo da dove pontificava, ma con grande inventiva di linguaggio, Gianni Brera. Il giorno in cui comparii in classe avendo in mano 'Ragazzi di vita' di Pasolini  probabilmente avevo in animo di smascherare la mentalità piccolo borghese dei compagni, ma non ero preparato a rispondere a colui che, incrociandomi, mi chiese come mai leggessi 'la roba di quel culo!'. In effetti non ero preparato a niente. Quel giorno però cominciai verosimilmente a pensare che la mia classe nascondeva qualcosa. Forse di sesso ne sapeva più di me ma non lo diceva, forse era molto più politicizzata ma non lo dava a vedere, forse insomma era molto fascista, reazionaria, omofoba e molto, molto ignorante. Più di me.



La scalata di San Marino

Bastava salire fino alla porta
e restarne fuori, al di là c'era
la repubblica di San Marino.
Chi fosse Marino non l'ho mai saputo.
Da Rimini mare fin lassù
con le nostre bici pesanti
-gonfia bene le gomme, dicevano-
ci volevano più di due ore.
Una sfacchinata, di quelle che
fai a sedici anni.
-mo' se ti fai le pugnette non
ce la fai mica!
Poi il rito del ritorno.
Fazzoletto intorno alla fronte
giornale sotto la maglietta
e giù 'a tomba aperta', come diceva Brera.
Arrivavi primo in preda al terrore
per via della bici più pesante
che non frenava bene.
A sera nel viale era tutto un raccontarsela,
fortuna che le ragazze baciavano lo stesso.

domenica 1 gennaio 2012

Orlando non ha nostalgie. Napoli è solo
un'alzata di spalle, uno sguardo rivolto altrove,
come lontano dal cuore l'amore senza occhi.
Rammenta le strade in Renania Westfalia,
dopoguerra, casalinghe indaffarate,
uomini in fabbrica a produrre per il boom.
Orlando alle undici del mattino, alle tre
del pomeriggio, chiama le donne per strada,
vende ritagli di stoffa italiana come fosse
americana indistruttibile - per questo hanno vinto
la guerra - sparge alcool non visto, dà fuoco
con lo zippo, spegne col pollice prima che finisca.
La seduzione non finisce mai. Orlando
amandole tutte semina tracce di sé, ich liebe dich,
tempi gloriosi di maschio italiano.