domenica 4 marzo 2018

La calda Storia di ‘Veglia Europa’ la nuova raccolta di versi di Franco Romanò, “plumelia” edizioni, 2017



Ciò che anima in maniera decisiva questa nuova raccolta di Franco Romanò è la tensione etica, irrinunciabile per lui quanto l’esigenza di scriverne in versi. E’ una tensione che è già evidente nel titolo Veglia Europa su cui torno fra poco.

Questa tensione etica del poeta si manifesta sin dai primi versi del poemetto L’ultimo Alessandro, che apre il libro, c’è qui una sorta di dichiarazione di poetica anche se apparentemente il poeta sta parlando delle caratteristiche della lingua latina di Cesare nel suo De bello gallico:
La lingua limpida, il dettato
che non liscia la storia
anzitutto dunque linguaggio limpido, nessuna concessione ad artifici retorici, a metafore eleganti ma anche nessuna rinuncia a posare lo sguardo sul male della storia, questa è la cifra che a mio parere regge tutta la raccolta.

Ho detto nessun artificio retorico ma è vero fino a un certo punto, ce n’è uno in particolare che lega la raccolta ed è l’uso del presente storico, proprio alla latina come fa Giulio Cesare, ne viene come effetto che il lettore in certi momenti si ritrova immerso  nel proprio presente mentre di sicuro fin lì si trovava nel passato, valga come esempio proprio nella prima poesia a pag. 18 dove, parlando delle condizioni della plebe il poeta dice

molti essendo oppressi dai debiti o
dal peso delle tasse
o dalla prepotenza dei potenti,
si offrono schiavi ai nobili,
ipotecano le case, accendono
mutui per la scuola dei figli
cadono nella tresca usuraia
[…]                              …affollano
le strade fuggendo da guerre…



Ecco, la narrazione storica è improvvisamente diventata un richiamo del poeta al fatto che l’Europa dopo più di duemila anni è afflitta nonostante la sua lunga storia di civiltà dagli stessi mali legati alla violenza del potere, il lettore viene avvisato del passaggio dall’uso del corsivo, legato al passato, che si fa per il nostro presente normale.
Dunque sembra proprio così, linguaggio e tensione etica fanno tutt’uno nel verso chiaro ma secco che segue un proprio ritmo interiore, di misura breve o più lunga ma sempre a ridosso della sua  tensione empatica verso le sorti della vecchia Europa:

Torniamo allora per un attimo al titolo perché dobbiamo scoprire qualcosa in più.
A nessuno sfugge che si tratta di un titolo che offre molteplici soluzioni di senso, io ho finito a dire il vero col fare una torsione grammaticale di cui conto di dare ragione, di legittimarla.
C’è una parola antica ormai caduta in disuso, e comunque di uso solitamente poetico, un aggettivo sostantivato che è Veglio, lo usa Petrarca, lo usa Dante. Dice Dante appena messo piede nel Purgatorio
Vidi presso di me un veglio solo
degno di tanta reverenza in vista
che più non dee a padre alcun figliuolo 
(siamo nel Purgatorio, si tratta di Catone nemico di Silla e poi di Cesare, piuttosto che cadere sotto la tirannia di quest’ultimo si uccide).
Ora veglio vuol dire vecchio, deriva vetulus, da quel latino con cui Franco Romanò inizia la sua raccolta.
Mi piace allora interpretare, forse al di là delle intenzioni dell’autore, veglia Europa come vecchia Europa.
A legittimare la mia scelta del resto soccorre bellamente  l’emistichio Europa è vecchia dell’ultima poesia della raccolta.
L’Europa è vecchia ma si tratta di una vecchiaia degna di reverenza e amore come nel caso del Veglio che compare a Dante.
Se leggiamo infatti il resto della poesia l’immagine di Europa che ne viene fuori è quella di una signora attempata che racconta la sua storia così lunga e complessa ad una platea di uomini appesi alle pipe e alle labbra di lei per rivivere vecchie battaglie e fastosi trascorsi.
Ma non basta questo per il nostro ragionamento, occorre aggiungere la connotazione etica, infatti Europa è degna di amore ma
non può più celare sotto un manto di
facile oblio quel che lei sa
sorseggia distratta ed il rosso
è solo ricordo presagio
di sangue
Europa, ecco il dettato che non liscia la storia, non deve rimuovere quanto la sua storia grondi di sangue e violenza.

Questa nuova raccolta di versi di Franco Romanò è un invito amorevole ma senza lisciate ad attraversare picchi significativi della storia d’Europa, un invito attento al dettato severo della storia, quello che nelle vicende sciagurate dell’umanità cerca un senso non effimero o banale  e magari anche i segni di un riscatto ancora possibile.
La raccolta parte da Giulio Cesare, ultimo Alessandro, fino a coinvolgere il nostro recente presente con la caduta del muro di Berlino.
Un materiale incandescente in cui poesia e storia, memoria e storia s’intrecciano in quella che vorrei chiamare la calda storia.
Una storia calda appunto della tensione del poeta che interroga
le grandi passioni di uomini e donne, le relazioni d’amore nell’intreccio con il potere, e i sogni rivoluzionari.
Calda perché lo sguardo del poeta indaga oltre le ragioni della grande storia.
la storia deve mettere punti
e virgole, timbrare documenti
e testimoni, stampare i nomi
perché tutto infine si plachi
nei libri
il poeta in questo senso è più libero dello storico, perché è vero che la storia non è più solo quella dei vincitori ma fa ancora omissioni e non sa guardare negli angoli.
proprio negli angoli
bisogna guardare per vedere bene
dice nella poesia intitolata ‘Deportati’

Così il poeta coglie Cesare e Cleopatra in un viaggio sul Nilo che dura dieci settimane e le ore d’amore si alternano ai progetti di  spartizione dell’impero prossimo venturo.
Ci racconta la storia di Malinche, nobile azteca divenuta schiava e poi amante di Cortes e la storia di Guido Picelli, un rivoluzionario che parte dall’Italia e attraversa tutta l’Europa da Mosca alla Spagna inseguendo il suo sogno rivoluzionario.
A tratti lo sguardo del poeta si fa attonito nel constatare la miseria della storia: è il caso di ‘Conquistadores’, il secondo poemetto della raccolta: a cosa è servita tanta violenza e crudeltà , tanta astuzia del potere, ai conquistadores spagnoli sulle popolazioni indie visto che i vinti di un tempo sono ancora qui nel presente?
il messico è pieno di conchiglie e teschi
di spagna… ma dappertutto si guardi
si vedono indiani viventi:
dove sono i conquistadores?  
Forse l’animo più turbato e commosso di fronte alle violenze degli eventi storici il poeta lo svela quando deve farsi testimone della caduta del ‘sogno profano’ quello che partito dalla rivoluzione d’ottobre sembrava destinato ad aprire una nuova era in cui riscattare millenni di oppressioni e violenze di classe.
Qui il poeta si ripiega su se stesso perché la sconfitta ha finito dopo aver sfiorato la libertà col rendere di nuovo il poeta simile al goffo albatro incapace di volare oggi a causa di gabbie nuove più sofisticate e invisibili. Così nell’ultimo poemetto ‘1789-1989’ in un crescendo fortiniano:
Il poeta della storia è un albatro
di nuovo ai ceppi imprigionato.
Scrivere un diverso statuto
sulla dura pietra di una fabbrica
richiedeva tempo e qualcosa di più
della fratellanza, del pane insieme
compagni…
La poesia tuttavia va oltre.
In quest’ultimo poemetto il sogno profano fallito non basta a impedire al poeta di riprendere il suo cammino periclitante in un paesaggio desertificato, tra mille incertezze ma nella consapevolezza della possibilità di un altro diverso percorso:
ma il sarto di Ulm continua a tornare
nei sogni,nel balenio improvviso
e risveglio dal sonno totale,
a dire che sì, si può
imparare a volare.
E dunque possiamo concludere anche noi, quella tensione etica che abbiamo detto attraversare sin dall’inizio questi versi non è nient’altro che la tensione della poesia con le sue ragioni e i suoi sogni.



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