Riporto qui da Doppiozero ( http://www.doppiozero.com/materiali/laltro-1977) un articolo di Enrico Palandri. La sua è una pagina che induce all'ottimismo. Sono della generazione che lo precede e leggere queste sue righe mi fa pensare che non tutto è perduto. Tono e contenuti li condivido. Il pensiero critico nato negli anni sessanta e dilagato poi col '68 (non 'un' pensiero critico in generale che quello anche mia nonna lo propugnava ma il pensiero critico appunto del '68) si arricchisce e si conferma come il territorio possibile di un altro mondo. Della mutazione antropologica che vorremmo accelerasse. Quella che bypassa l'orrenda fusione tra potentati politici e capitalistici. Là dentro ci sono una strategica follia distruttiva e una intelligente menzogna. Non è infatti la violenza degli armati, come suggerisci, a essere per loro il vero nemico. Il vero nemico siamo noi. Danno da credere che i violenti con le loro armi, che pure ci sono e che sappiamo essere più pillotati di quanto sembra, siano i nemici della democrazia e del benessere. Ma quelli in qualche modo li sconfiggono sempre o quasi. Chi non riescono a eliminare sono quelli che continuano a esercitare la critica del presente. Ci facciamo così storia, storia magari carsica ma loro lo sanno che continuiamo a esercitarla. Infatti tagliano assistenza, scuola e salari, cioè lì dove si forma e ribolle la critica. Fa niente. La rete sta dimostrando di sopperire, almeno fin qui, alla strategia distruttiva. Che è anche ciecamente autodistruttiva perché è evidente che dovessero arrivare al termine della loro operazione non avrebbero più nemmeno di che alimentare la propria vita di rapina.
L'altro 1977
di Enrico Palandri
Quando entro in aula, dove ho insegnato tutta la vita, e vedo i ragazzi che finalmente liberi dalla disciplina della scuola sviluppano rapidamente e con competenza una visione del futuro che abiteranno con scienza e poesia, porto con me le splendide atmosfere intellettuali della mia giovinezza. Da Gianni Celati e Umberto Eco a Giuliano Scabia o Pietro Camporesi, i nostri cattivi maestri, come si diceva allora, o almeno quelli che sono stati i miei, riempivano le aule non solo di studenti, ma di idee e discussioni. Bologna era negli anni ’70 un’università-fucina straordinaria. Giornali, seminari, collettivi, radio. Invece si riparla sempre del ’77 bolognese a partire dalla violenza. Foto di fazzoletti tirati sopra il viso, i blindati che entrano la città universitaria come a Praga nel ’68, salvo che il tono degli articoli italiani non simpatizza davvero con lo studente ucciso o con gli studenti che vennero arrestati, se mai ribadisce che erano untorelli, per usare il termine ripreso dai promessi sposi da Enrico Berlinguer in un comizio a Piazza Maggiore.
È un’epoca lontana e la memoria trasforma i fatti, per me come per altri, ma rivedere quanto facilmente si ricrea lo schieramento che in nome dei veri operai del popolo italiano impedì l’ingresso in Piazza Maggiore degli studenti che protestavano per la morte di Francesco Lorusso, mi costringe, oggi come allora, a reagire. Io non ero e non sono stato in seguito in nessuna organizzazione politica, conoscevo altri studenti, con alcuni ero amico ma ero anche lì solo per l’università ed ero quindi piuttosto sradicato. Ritrovare in certi articoli i toni saccenti di chi vuole mettere dietro la lavagna i discoli mentre quelli con la tessera di qualche partito in tasca cantano la messa, fa oggi lo stesso effetto che fece allora. Perché non si racconta che a vedere cosa succedeva a Bologna vennero intellettuali da tutta l’Europa? Che ci ritrovammo, intellettualmente, al centro di un discorso e non più a inseguire da provinciali cosa accadeva altrove? L’appello contro la repressione degli studenti lo firmarono Sartre, Deleuze, Althusser e tutti i principali intellettuali della sinistra francese ma anche in Inghilterra, in Germania o in America degli anni ’70 italiani si sono occupati in tanti, in modo aperto, curioso.
Erano allora e sono stati in seguito attenti alle intuizioni dei giovani bolognesi su come si trasformava il lavoro (l’effetto dell’automazione), l’opposizione sociale (il famoso scontro tra garantiti e non garantiti), ma soprattutto erano curiosi del dibattito filosofico, letterario, teorico che si era sviluppato in quell’area. Basta vedere chi ha parlato e di cosa negli anni successivi, da Tondelli e Pazienza alle sette lezioni di fisica di Carlo Rovelli, da Toni Negri alla filosofia di Giorgio Agamben che, anche se non so dove fosse allora, ha raccolto meglio di tutti le influenze di Gilles Deleuze, il filosofo secondo me più innovativo di quegli anni, elaborandole in modo originale e convincente nell’opposizione tra la nuda vita e lo stato. Oppure pensare al lavoro giornalistico di Maurizio Torrealta, che ha indagato su tante cose, dalla trattativa tra stato e mafia a capitan Ultimo, ai tanti altri romanzieri che sono nati da quegli anni e in quell’area. Perché parlare sempre e soprattutto della violenza? Quella violenza nasceva da tante cose. Eravamo ancora in piena guerra fredda, c’erano Gladio e le bombe fasciste oltre alle BR, servizi segreti di diversi paesi che armavano, pilotavano e depistavano, e certamente come sempre anche tanti disperati che potevano essere reclutati da una parte e dall’altra. L’Italia è uscita da quel ciclo quando non è stata più la frontiera tra l’est filosovietico e l’ovest filoamericano. Ma se fosse davvero questo a interessare, si potrebbe fissare l’attenzione su tanti episodi del dopoguerra.
Per riparlarne si dovrebbe vedere che tra il ’48 e l’89 a tremare fu sempre tutta la frontiera di Yalta. Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Germania dell’Est, Italia e Germania occidentale. Il ’77 bolognese, in questo quadro, è un piccolo episodio di un dramma molto più ampio, quello dei Partiti Comunisti filosovietici che intravedono la fine del ruolo che avevano avuto nel mondo. Sono apparati amministrativi che poggiano su un’idealizzazione del conflitto sociale in nome del quale organizzano consenso, gerarchie, potere. Hanno a fianco e di fronte altri apparati, cattolici, massonici, liberali, e inevitabilmente con questi altri apparati si scontrano, si mescolano, metabolizzano le epoche in cooptazioni e ricatti reciproci.
Come una decina d’anni dopo nell’Europa orientale, una classe dirigente si ritrovava in nome della classe operaia schierata su posizioni arretrate, incapaci di ingaggiare i giovani. Molti di quei giovani erano a loro volta, e per la prima volta in Italia grazie alla riforma della scuola media unificata, figli di operai, e quindi il conflitto era anche interno alle famiglie. I giovani, diceva Tolstoj, sono sempre belli e onesti. Certamente hanno bisogno di capire il futuro meglio degli altri, perché dovranno viverlo. Il PCI e gli altri partiti istituzionali amministravano invece ancora la lunga sconfitta del dopoguerra, non avevano davvero gli strumenti, e forse neppure il desiderio, di capire cosa cambiasse allora. I partiti erano scuole di potere, si entrava per fare un certo tipo di carriera, basata sul consenso.
Non è casuale che i protagonisti del ‘77 il consenso non lo abbiano cercato e non abbiano fatto politica. Hanno scritto, fatto ricerca, non hanno fatto carriere politiche. Questo perché il conflitto era quello: da una parte c’era l’idealizzazione dello stato, così centrale al comunismo fin dalle origini e che rimane la ragione principale della dissidenza di quei movimenti dal PCI di allora. Più in generale della dissidenza dal comunismo, tanto che Elvio Fachinelli, che pubblica Alice il Diavolo e Boccalone, pubblica anche i libri sui gulag psichiatrici sovietici. Un PCI che ha portato anche tante buone cose in Italia, giocando un ruolo importante (ma non l’unico) nella sconfitta del fascismo e battendosi per un sistema sanitario e scolastico più giusto e più in generale impegnandosi nella distribuzione delle ricchezze. Ma che in questa idea dello stato ha sempre mostrato un’insofferenza per l’individuo, il suo contributo eccentrico, laterale, per le diversità. In Italia questa attenzione alla soggettività la portarono soprattutto due influenze: quella del femminismo e quella dell’antipsichiatria. Oltre ovviamente alla beat generation, che infatti ai comunisti ortodossi e filosovietici di allora faceva parlare dei giovani americanizzati come se questo fosse un insulto, e che inevitabilmente appiattiva il PCI sulle posizioni dei biechi blu di yellow submarine.
I referendum su aborto e divorzio aprirono una stagione che era già dopo la guerra fredda, usciva dall’opposizione delle grandi ideologie e apriva su un altro orizzonte, quello che è stato alla fine chiamato il post-moderno. Non sempre attraente, ne fanno parte indubbiamente l’individualismo acquisitivo berlusconiano e quello che si intreccia nelle tante forme di dissidenza della single issue politics, come la chiamano nei paesi anglosassoni. Conflitti sull’ambiente (ma di solito appunto su problemi specifici, che infatti non producono un partito ma cercano al più di coordinare iniziative sparse) e mille altre forme di conflittualità che ci sono ovviamente nella nostra società come in qualunque altra. Ma non c’è più stata da allora un’unica parrocchia che tenesse insieme valori diversi in un’unica fede, né per il PCI né per la chiesa cattolica né per nessun altro. L’effetto straniante che provocano Trump e Brexit oggi è da questo punto di vista in qualche modo simile: l'uno e l'altra sembrano richiamare un’unità di progetto delle destre che in una società dove la pluralità delle attitudini sessuali, religiose, più in generale etiche, rende difficile immaginare un accorpamento come quello che viene rivendicato. A meno di non trascinare tutti in guerra e costringere in questo modo la società a serrare i ranghi.
Ma finché non siamo in guerra, i soggetti raccolgono idee e valori cui aderire come scelgono i prodotti del supermercato. Useranno contraccettivi anche se il Papa dice di no o si incammineranno lungo il consumismo, l’accumulazione di un capitale privato attraverso l’acquisto della casa, a prescindere dal sol dell’avvenire. La grande narrazione che dovrebbe tenere insieme addirittura il popolo si è frantumata in mille pezzi, sul modello statunitense. Questa è semplicemente la conseguenza della vittoria americana nella seconda guerra mondiale.
Richiamare la violenza del ‘77, come se tra i giovani ci fosse stato un nuovo partito che aveva una qualche strategia, a me pare proietti, come fece allora Berlinguer, su un movimento plurimo e informe, la forma partito, o piuttosto la nostalgia della forma partito, di chi lo guardava e non lo capiva. Aveva troppo da perdere, come perdeva in quegli anni tutto il mondo a cui faceva riferimento, l’URSS e i suoi satelliti. Un mondo che non funzionava, non produceva beni, deportava e imprigionava i dissidenti, ammazzava circa trenta milioni di esseri umani.
Com’è noto, queste convinzioni furono alla base delle convinzioni della magistratura, che condusse le sue inchieste arrestando per anni e seguendo piste congetturali, come si trattasse di cambiare una cultura. Questa a me pare la vera discendenza praghese: il settantasette sentiva soprattutto l’esigenza di sottrarsi a questo conformismo che, attraverso il PCI di allora e il mondo cattolico, tentava di far rientrare nei ranghi. Una forma oppressiva di politica che nell’Europa dell’Est e dell’Ovest imponeva un conformismo figlio della guerra. Militare, maschilista. Soubrette e partite di calcio contro Bob Dylan e i libri. Capelli corti contro capelli lunghi, maschilismo contro femminismo, normalità contro diversità. La generazione della guerra contro la generazione dei fiori. Il PCI contro i giovani. Inviare il segretario della confederazione sindacale vicina al PCI a predicare ai giovani che occupavano l’università di Roma non fu affatto un errore, era al contrario l’espressione di un’idea di come dovevano essere irregimentati i conflitti sociali. Diceva chiaramente quanto il PCI di allora non comprendesse cosa stava avvenendo. Immaginare che chi ascoltava i Jefferson Airplane o entrava in contatto con il mondo psichedelico di quegli anni fosse vittima della CIA. In fondo schierarsi con Cossiga che da ministro degli interni suggeriva che i giovani venissero picchiati fino a quando il suono delle sirene delle autoambulanze copra quello delle macchine della polizia. La stessa strategia della Diaz di Genova, la stessa strategia di sempre.
Non voglio riaprire polemiche ma spero che su una cosa si possa convenire: che quella violenza fu difensiva. Nel ’77 i giovani erano delle Vispe Terese, certo, come del resto era prevedibile, mentre la generazione che aveva visto la sconfitta della guerra sapeva che eravamo intessuti di servizi segreti stranieri. La violenza dei giovani fu però, anche per questo, difensiva, e come disse Sartre quando gli chiesero perché avesse firmato l’appello contro la repressione in Italia, quando uccidono uno studente, io sto dalla sua parte. Questo lo penso anche oggi in aula, davanti ai miei studenti, se immagino che la loro discussione possa provocare una nuova repressione, l’ho pensato per la morte di Carlo Giuliani o per le violenze alla Diaz, purtroppo ho imparato a prevederlo. Quando un dissenso si allarga e inizia a coinvolgere e creare dell’altro, il potere si difende e spara. Nei paesi democratici come in quelli dittatoriali, sebbene in misura diversa, perché dove il sistema politico è meno rigido nel controllo del potere, si sa che dall’attrito generazionale nascono le nuove idee in grado di rigenerare una società e quindi si nutrono di quello che i giovani portano al mondo. Nell’Italia di allora si scatenò invece una vera restaurazione che invecchiò e secondo me continua a invecchiare il paese.
Anni lontani, che però mi hanno regalato, oltre ad amici che ho tenuto per tutta la vita, la consapevolezza che aver attraversato scontri di questo tipo, anche a chi come me si è occupato poco sia allora che in seguito di politica, è di vedere da vicino come viene gestito il potere. L’uso della stampa, la costruzione del consenso attraverso sentenze giudiziarie, replicato regolarmente quando si riparte dalla foto di una ragazza con il fazzoletto tirato sul viso in mezzo ai poliziotti.
Le ondate repressive sono periodiche, regolari nelle società. Imposti da un sovrano o da un gruppo politico. Imporre la conversione religiosa, o l’adeguamento a una lingua maggiore proibendo l’uso del catalano sotto il franchismo o del tedesco sotto il fascismo, l’accusa di intimismo piccolo borghese in nome dei valori rivoluzionari della classe operaia e della rivoluzione comunista con Stalin, o finire sotto processo per le proprie simpatie comuniste sotto il maccartismo. Quando si scatenano questi cicli repressivi è facile identificare nel conformarsi ai repressori una virtù. La prima reazione è credere alla storia dei vincitori. Ci vogliono anni per andare a ripescare sotto l’inquisizione simpatie per l’eliocentrismo o a rileggere l’Achmatova e Mendelstam. L’effetto che il potere persegue e di solito ottiene attraverso la repressione è l’idealizzazione di un’appartenenza che si scatena contro i diversi. Etnicamente, religiosamente, sessualmente diversi.
Gli esseri umani, che sono sempre diversi gli uni dagli altri. Di nuovo, oggi lo vediamo con preoccupazione nelle destre nazionaliste, da Trump e Farage ai grillini. Provoca
inevitabilmente altre lacerazioni, ma si presenta come urgente rimedio a una situazione insostenibile, troppo conflittuale e lacerata. Quello che ho imparato è che chi trova la situazione insostenibile di solito è lontano dai problemi che descrive. Sono i pensionati delle regioni inglesi troppo povere per essere raggiunte dall’immigrazione a scatenarsi contro il danno che fa l’immigrazione. A Londra, al contrario, dove una emigrazione potente esiste da sempre, sono tutti molto più aperti. Sono coloro che non hanno, o non si accorgono di avere, amici omosessuali, o non capiscono la propria sessualità, a scatenare campagne omofobe. Così anche allora, a Bologna e nel resto d’Italia, era chi non vedeva la dissoluzione di un mondo che in quindici anni avrebbe visto la scomparsa di tutti i partiti politici italiani a immaginare che la minaccia fossero i giovani di allora.
In ogni società esiste chi vive in zone culturalmente arretrate, infestate da omofobia, antisemitismo, opposizione ai giovani. Zone tristi dove si coltiva la normalità come desiderio di punizione di altri. Come è possibile non vedere negli anni ’80, quando i giovani smettono di essere così irrequieti e si possono condurre come un branco di pecore nei concerti organizzati dal sindacato o nei raduni di CL, esattamente lo stesso tipo di adeguamento che ha seppellito l’emergere delle individualità disaffiliate del ’77? Nel lieto ebetismo, come lo chiama Michele, il frutto di anni di processi in cui bastava aver conosciuto certe persone o leggere certi libri per essere etichettati come collaboratori del terrorismo?
Per questo è così triste partire sempre dalla rievocazione della violenza. Giustifica l’intervento così lucido che riportò l’ordine in Italia. Che poi non ci stupisca se il prezzo di quell’ordine sia stata la provincializzazione di un’Italia che si è ripiegata in una nostalgia identitaria alla ricerca di un consenso con se stessa di cui non ha saputo far altro che ridere.