lunedì 2 novembre 2015

Rileggendo Lucini

E' un autore per me intoccabile. Senti un fondo esistenziale drammatico che viene prima dello scontro con l'ingiustizia e con l'assenza di Dio. Quanto descrive è necessariamente ingiusto e senza Dio ab aeterno, pertanto è irredimibile e l'unica speranza possibile sale solo dalle carcasse dei morti.
Resta un anelito alla bellezza, alla poesia, a Dio che resterebbe generico se non si aprisse su scenari drammatici come quello della Calabria infettata dalla mafia. Qui sei costretto ad accettare il suo assunto e la sua testimonianza e la poesia si fa documento di un'anima tormentata e disperata di fronte al mondo perduto nelle mani dei criminali. A tratti lo sgomento è davvero impressionante e le parole scavano con precisione da scienziato la sofferenza dell'uomo e del popolo che abita un territorio apocalittico abbandonato da Dio.
E dunque poesia di testimonianza, a tratti quasi mistica, tesa e coerente nella sua disperazione,che non si può ignorare, che si ascolta in silenzio e in punta di piedi,

Di corpi, di versi: l'affollata solitudine di Pier Paolo Pasolini


 
1) Ginnasio-Liceo Alessandro Manzoni di Milano. L’anno il 1957, o il ’58.
Venivo dalla provincia. Mi sembrò una buona idea quella di entrare un giorno in classe con Ragazzi di vita in mano. Non avevo nell’animo nessuna volontà di provocare un bel nulla, mi sembrava che potesse essere un viatico buono per essere accolto tra i miei coetanei, tutti figli della borghesia buona milanese. La futura classe dirigente, ripeteva il preside. Non era nelle mie prospettive una simile destinazione, in mezzo a loro ero straniero per troppi aspetti. Cercavo accoglienza, tra i compagni di classe di Milano. Non era forse la grande e moderna Milano, la città dove le cose succedevano, la città sempre in anticipo sui tempi? E non era forse quella la scuola dove ci si educava alle umane letture?
‘Ah, il romanzo di quel culo…’, mi risposero ghignando in due o tre, un po’ goliardi ma di radici ben interrate, proprio quelle che non avevo io.
‘Quel  culo’, con i suoi borgatari, da lui percepiti e descritti come sradicati millenari, parlava in qualche modo a me ma non a loro. Pensai a Pasolini uomo forse per la prima volta, fin lì per me era solo l’autore di un breve  romanzo che amavo. Pensai per la prima volta alla sua solitudine e ripensai alla mia, alla difficoltà di essere accolto, come profondamente desideravo.
Qualche anno più tardi rincontrai Pasolini nel suo film Il Vangelo secondo Matteo. L’anno il 1964. Pasolini era già carico di glorie. Ma quel Cristo aveva nell’espressione e nei gesti la disperata violenza della solitudine, di chi cerca accoglienza nel mondo. E ripensai alla solitudine di Pasolini uomo, pur nel frastuono provocatorio della sua ricerca di successo.
Ho ripensato alla sua solitudine ancora in un’altra occasione, ma questa volta con un sentimento profondo di rabbia. Come gli saltava in mente di definire in blocco gli studenti come dei figli di papà? 
In quegli anni, tra la fine dei sessanta e i primi settanta, nelle Università mettevano piede per la prima volta nella storia del paese numerosi figli di proletari. Si sradicavano da un territorio antichissimo per entrare in uno nuovo, nemmeno a cercarli con buona volontà in quello dal quale provenivano si sarebbe potuto trovare un libro. Paradossalmente era più facile trovarci qualche verso, nelle preghiere dei santini, nei calendari di frate Indovino. Per sostare in qualche modo nel territorio nuovo, dove i ‘papà’ erigevano troppi aristocratici steccati  contro i barbari, per pagare tasse, libri e molto spesso anche il proprio mantenimento, c’erano i “lavoretti”,  cioè, diminutivo a parte, lavoro nero. Il tutto era quasi epico, ma faticoso. Non eravamo tutti figli di papà. E ci riconoscevamo, nei corridoi delle Università. Dal portamento, dai vestiti, dal linguaggio. Ci si sentiva in effetti meno soli.
Riprendo in mano oggi l’opera in versi di Pasolini. L’eco dei frastuoni del mondo cercati e provocati si sente qua e là, ma più forte sento il timbro di voce della solitudine. E’ questo il ‘luogo’ topico della poesia di Pasolini? Più semplicemente è il luogo dal quale continua a parlarmi.

2) Narciso e la rosa.
Moralità o poesia/ o bellezza, non so,/ protendo questa rosa/ a rispecchiarsi sola.[1]
Se Narciso non rompe gli specchi la sua solitudine genera autodistruzione. Ma, come vedremo, Narciso che rompe gli specchi e conosce l'altro avrà ugualmente la solitudine come inesorabile, splendida compagna.
Rompere gli specchi è peccato? Se ne può conservare sentimento di colpa. Ma c’è un momento in cui il vergine, l’innocente, decide di farsene carico, di superare la paura di peccare. Il poeta che si dice Usignolo della chiesa cattolica (raccolta di poesie scritte tra il 1943 e il 1949) guarda ormai senza timore il diavolo apparso, è pronto[2]. Narciso s’è guardato abbastanza durante la fanciullezza[3].
E la poesia? Quando s’inoltra nel peccato  il vergine, ancora insicuro, stringe in mano il ritratto di Radiguet, pensa accigliato a Gozzano[4]. Ma la scelta apre  comunque con decisione ed è accoglienza senza compromessi del cieco affanno di fronte a un corpo, a un caldo viso apparso all’improvviso[5]. Sarà, per il poeta, per l’uomo, ossessione, vissuta. E l’amore per la bellezza? Narciso che rompe gli specchi ha verso di sé un moto, di uguale intensità, di disprezzo e tenerezza[6].  Ingenuità e consapevolezza  sembrano affondare in oscuri presentimenti.
L’attrazione verso la bellezza è dunque tutt’uno con quella verso il peccato, poesia e vita ci appaiono strette da un legame in tensione polarizzata:  purezza e impurità, salvezza e dannazione, paradiso e inferno. Narciso che rompe gli specchi assume su di sé con angoscia e spavento le sue contraddizioni. Narciso che si divincola dallo specchio ha un ultimo gesto: protende una rosa al rispecchiamento. Nemmeno il poeta sa di cosa sia simbolo quel fiore, se di moralità, di bellezza o di poesia. E il gesto? E’ la coscienza della impossibilità di un allontanamento definitivo? E’ un’irrisione al mito o alla vita? O alla morte in vita? E’ un esorcizzare la morte della bellezza, della poesia, della vita stessa? O è gesto che indica la prossima autodistruzione della poesia, l’impossibilità per la poesia di sopravvivere se l’uomo sceglie il peccato?
Al di là delle possibili interpretazioni  quella rosa, tesa da sola al rispecchiamento , rimanda, mi sembra, ad altro. Narciso-Pasolini sa che in quello specchio c’è, riflesso, anche il volto di sua madre. Alla quale, come lui stesso dice apertamente, è legato da un amore insostituibile. E’ la madre che gli ha insegnato nient’altro che il piacere di essere ciò che sono[7],  e l’amore di lei, non represso, non dà posto/a ipocrisia e viltà[8]: quell’amore lo ha reso sì libero di essere se stesso nella sua diversità ma lo ha anche reso prigioniero per sempre. Amare per lui significherà per sempre amare soltanto sua madre. Solo per essa, impegno tutto il cuore[9]. Per gli infiniti amori occasionali di cui la sua vita sarà affollata arderà in lui solo la carne[10]. La consapevolezza che accompagna Narciso dunque, all’atto di inoltrarsi nel mondo, riguarda una drammatica condanna, quella alla solitudine. Sei insostituibile. Per questo è dannata/alla  solitudine la vita che mi hai data.[11]. L’infinita ‘fame d’amore’ (Forse nessuno è vissuto a tanta altezza/ di desiderio…[12]) dovrà accontentarsi  dell’amore  di corpi senza anima[13], l’unica anima amabile rimanendo per sempre quella della madre.
Quando a  questa condanna si aggiungerà quella del mondo, quando, dal loro ‘museo vigilato’, gli adulti condanneranno il Fanciulletto perverso con le gemme/ dell’Europa terse nel mio sesso[14], il poeta starà fermo dalla parte del desiderio, del suo Narciso gioia e solitudine, né si curerà di redenzioni possibili, non si alleerà col ‘cuore onesto’[15], che è troppo puro e ha il freddo della morte e se mai occorrerà ascoltarlo sarà solo in  prossimità della morte. Condanna interiore e condanna pubblica diventeranno da questo momento compagne di vita a cui però impedire di occupare troppo spazio a scapito della gioia e del piacere. La purezza non dovrà mai soverchiare la gioia del peccato. Piuttosto che rischiare meglio eccedere nel peccato sia pure col corollario della solitudine. Liberare totalmente la vitalità che è disperata di suo e poi testimoniare, nel verso stesso come vedremo, la necessità dell’indecenza, dell’eccesso, dello scandalo contro coloro che condannano. Proteggere la relazione con l’altro con una ‘impura virtù’. E ripetere, ripetere all’infinito, fino all’estenuazione, consumare relazioni perché non si consumino, perché il peccato resti peccato e la gioia gioia del peccato. Esibizione e testimonianza dello scandalo, cioè, come è stato detto, la ‘necessità morale dell’indecenza’[16], saranno la risposta franca e diretta contro la società che rifiuta.
Impurità contro purezza, desiderio, diversità, soddisfazione del piacere, sono i temi che nella poesia di Pasolini ruotano intorno a quello della solitudine. Con l’insistenza ossessiva della coazione e dell’imperativo si articolano in una sterminata affabulazione anche fino a stremare il verso, a rischiare il non-verso.
E necessità e volontà del conflitto e delle contraddizioni trovano in una infinita serie di antitesi e di sintagmi ossimorici le loro figure logiche. Così le colpe sono innocenti, la purezza odiata se non è quella dell’animale o del libertino, il peccato e la corruzione sognati, l’animo un ‘crogiolo d’amore tumorale’, l’esistenza un ‘rottame stupendo’, la gaiezza ‘paradisiaca e immorale’. L’angelo arde impuro. Il poeta è ‘gelo e sole’. La vita ‘scandalo e festa’.
E l’amato ‘endecasillabo di avorio’[17], che si aggira ‘tra gli smalti e l’acqua dell’Arcadia’, lui che ama solo la gioia e la purezza e che non vuole peccati o pianti di fanciulli, come può amare ciò che il poeta ama in se stesso, la ‘pazzia di acqua e di assenzio’[18], le finte innocenze, l’isterismo nascosto ‘tra i panni dell’eretico’, ‘lo scisma’ del proprio linguaggio? La risposta è ormai scontata: l’angelo deve ardere impuro, il cuore elegiaco deve proteggere la poesia di virtù impura. E dunque ripetere, ripetere l’endecasillabo all’infinito, fino all’estenuazione, allungato o accorciato, condensato o slabbrato , sgambetti di ritmo al suo interno, sospensioni o arresti del senso andando a capo. Scandalo e festa. Terzine di tradizione riconoscibile. Irriconoscibile, scismatico, eretico, ma sempre lì, il finto endecasillabo con la sua finta innocenza. Finché il verso non scioglierà ogni legame con la metrica tradizionale  ( e sarà dal 1963, 1964 in avanti).


3)E la notte in giro, come un gattaccio/ in cerca d’amore…[19]

Con i loro freschi corpi, coi calzoni un po’ lisi nel grembo, con la loro sacca tiepida[20], quelle facce vivide di cuccioli lupi, quei maschi adolescenti dalla bella nuca… sono a decine, a centinaia. Ma il poeta non può amarne nemmeno uno. Il suo è amore di pura sensualità, replicato nelle valli sacre della libidine/ sadica, masochista[21]. Ma meglio la morte che rinunciarvi. E quando il desiderio incalza è una ansia funeraria[22] quella che precede una tardiva soddisfazione. E l’atto, con quei maschi che portano nel grembo un segreto impuro come un giglio, bisogna ripeterlo mille volte[23].

Il peccato e la condanna, l’impurità e l’eccesso hanno il loro paesaggio. Quei corpi da amare vivono tra ruderi e grotte abitate da feci e fanciulli o in borgate in disfacimento o sul lungofiume che, nella sera che sa di orina, riecheggia di passi viziosi. ‘Erba sozza delle marcite’, ‘deschi approntati dentro porcili’, ‘infette marane di borgata’. Gioisce qui una gioventù ironica fatta di ‘peoni’, poveri e pagani, da sempre ‘barbari’, che hanno nel calore del sesso ‘la propria unica misura di vita’. Si negano e si concedono con violenza, puri e corrotti, popolo mai abbagliato dalla modernità eppure sempre il più moderno, che vive come il poeta ‘in una sola generazione tutte le generazioni’, schiavo che canta la propria leggerezza, che inebria la città coi suoi fischi e i suoi canti. Proletari la cui ‘allegria è religione’ per il poeta. Periferie di ‘ardenti e acidi immondezzai’, che sanno di ‘sangue marcio’, ‘borgate tristi, beduine’[24] percorse dal vento, da ragazzini ‘stridenti nelle canottiere a pezzi’[25], da irose prostitute, da grappoli di militari e operai. Una vita che è ‘pura malinconia’.
E’ la scenografia ricorrente nei versi sin dalla raccolta  Le ceneri di Gramsci del 1957 fino a Trasumanar e Organizzar del ’71 e oltre. Scene riprese dall’occhio nelle lunghe solitarie camminate serali, al momento del rientro nelle case o nell’immediato dopocena. Quando le disillusioni (la fine delle speranze in una trasformazione profonda della società suscitate dalla Resistenza e l’imborghesimento anche di proletari e sottoproletari dentro il neo-capitalismo), l’amarezza per le condanne alle sue opere, il disincanto verso i movimenti rivoluzionari del ’68 e infine l’avanzare dell’età  occuperanno l’animo, sarà il momento del rimpianto per un’epoca conclusa e ormai lontana come un mito. E acquisterà  più spazio la riflessione sul proprio destino. Il tono della voce, che diviene via via anche rabbioso o ironico, troverà sempre più consistenza nel doppio registro dell’antitesi, legata da una parte alla irrinunciabile gioia del sesso senza anima, dall’altra alla solitudine. Afferma il poeta nel 1963, quando è ormai famoso e agiato (oltre che perseguitato dalla giustizia italiana): io riconosco/ciò che conobbi: sole e solitudine[26]. Ma è sulla solitudine che l’accento cade più frequentemente. Le relazioni col mondo sono diventate più difficili. Le file degli amici d’un tempo si sono assottigliate …ho perso la mia compagnia/ di poeti dalle facce nude, aride/di divine capre, con le fronti dure/ dei padri padani…[27], e non senza sue colpe: non ho saputo avere la grazia/ per tenermeli stretti[28]. Anche in relazione  ai suoi rapporti intimi non pochi versi mettono definitivamente a nudo la sua condizione :
…i baci, ogni volta a una bocca diversa,
sempre più vergine,
sempre più vicina all’incanto della specie,
alla norma che fa dei figli teneri padri,
piano piano
sono divenuti monumenti di pietra
che a migliaia affollano la mia solitudine.[29]


4) Il diletto deserto
Ma è solitudine amata, voluta … ‘come un re’[30]. Narciso sembra lontano. Che ne è del mio narcisismo, si chiede, in Trasumanar e organizzar, il poeta che sente prossima la fine della sua carriera: Io non ho più il sentimento/ che mi fa avere ammirazione per me[31]. In questo modo c’è il rischio del silenzio: cosa potrà mai comunicare ora il poeta se non se la sente più di comunicare l’unica cosa che fin qui ha comunicato e cioè, come abbiamo già visto, ‘il piacere di essere ciò che sono’?
E aggiunge subito dopo: se in questo modo riuscirò a scrivere ancora versi, si tratterà di versi ‘appena passabili’ e avverrà solo per abitudine. Che è come dire che proprio a prendere eccessive distanze dal proprio Narciso si finisce con lo scrivere pochi versi e mediocri.
Nei nuovi registri dell’ironia e dell’umorismo, che agli occhi del poeta appaiono ora come unici possibili percorsi stilistici, Pasolini continua a fare poesia ammirandosi, guardandosi anche quando parla di sé che fa poesia. E non si pensi che questo ammirarsi e guardarsi risulti una sovrapposizione che vada espunta per poter godere dei versi buoni: nel verso ormai completamente libero da costrizioni tradizionali Narciso continua a stare per necessità in scena dal primo all’ultimo quadro di tutti gli atti a dire poesia. Col suo carico, esibito o sotteso, di abbandono e solitudine.
Nella nota finale scritta per l’edizione di Trasumanar e organizzar, Pasolini avverte che la raccolta è nata sotto l’idea della diminuzione di futuro per la propria esistenza e, per reazione, dell’aumento del piacere di vivere. E la ricerca del piacere continua, nei versi, a vivere di momenti e luoghi ormai antichi. E torna, immancabile, l’accento sulla solitudine. La solitudine: bisogna essere molto forti/ per amare la solitudine… E’ la poesia Versi del testamento[32]Quando in vecchiaia la stanchezza comincia a farsi sentire, avverte il poeta, il rischio è quello di non avere forze bastanti per uscire, affrontare la passeggiata serale. Nella quale, aggiunge in modo tremendamente inquietante, non si devono temere/ rapinatori o assassini. Ma sarà l’incontro occasionale di puro sesso a soddisfare il desiderio di solitudine. E la solitudine è ancora più grande se una folla intera/ attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni. Ogni incontro è un momento della solitudine e più caldo e vivo è il corpo gentile/ che  unge di seme e se ne va,/ più freddo e mortale è intorno il diletto deserto.  Per una camminata senza fine per le strade povere bisogna avere gambe buone, una resistenza fuori del comune: bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani. Ma non c’è nulla al mondo, nessuna soddisfazione che la vita possa offrire che valga l’incontro nella sera con la  solitudine.




(Il testo presente è una rielaborazione di quello pubblicato nell'autunno 2002 su La mosca di Milano)


[1] Il Narciso e la rosa, è in L’usignolo della chiesa cattolica, comprende poesie scritte tra il
1943 e il 1949. Vedi P.P.Pasolini Bestemmia, Tutte le poesie, Garzanti, pag. 333.
[2] Sermone del diavolo, in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 323
[3] Il Narciso e la rosa, cit. pag. 332
[4]Sermone del diavolo, cit. pag. 323.
[5] L’illecito, in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 326.
[6] Solitudine, in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 328.
[7] La nascita di un nuovo tipo di buffone, in Trasumanar e organizzar, edita nel 1971, in P.P.
Pasolini, Bestemmia, cit. pag. 902
[8] La realtà, è in Poesia in forma di rosa, comprende poesie scritte tra il 1961 e il 1964. Vedi
P.P.Pasolini, Bestemmia cit. pag. 654.
[9] Ibidem, pag. 653.
[10] Ibidem pag. 653.
[11] Supplica a mia madre, in Poesia in forma di rosa,  cit. 640.
[12] La realtà, cit. pag. 653.
[13] Ibidem, pag. 640.
[14] Lingua, è in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 351.
[15] Dies irae, ibidem, pag. 360.
[16] Vedi Franco Fortini, I poeti del Novecento, Laterza, pag. 188.
[17] Lingua, in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 353.
[18] Ibidem, pag. 353.
[19] Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, cit. pag. 639.
[20] Le belle bandiere, ibidem, pag. 740.
[21] Ibidem, pag. 740.
[22] La realtà, cit. pag. 653.
[23] La realtà, cit. pag. 654.
[24] Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci, comprende poesie scritte tra il 1952 e
il 1957. Vedi P.P.Pasolini Bestemmia, cit. pag. 248.
[25] Ibidem, pag. 249.
[26] La persecuzionein Le ceneri di Gramsci, cit. pag. 686.
[27] La realtà, cit. pag. 649.
[28] Le belle bandiere, cit. pag. 736
[29] Ibidem, pag. 741
[30] Ibidem, pag. 737
[31] La nascita di un nuovo tipo di buffone, in Trasumanar e organizzar, Vedi Bestemmia, cit.
pag. 901.
[32] Versi del testamento, in Trasumanar e Organizzar, cit. pag. 959.






domenica 13 settembre 2015

Tepore e segnali di fumo nella poesia di Nino Iacovella

Sono un lettore e scrittore di righe e versi e sono di parte. Una parte tutta da inventare a dire il vero. Perché, insieme a tanti altri, mi interrogo sulla poesia. Risposte poche, tanto che a volte penso che siano le domande ad essere sbagliate. Per dire: ha senso chiedere… senso alla poesia? Sembra proprio di sì, sembra, in particolar modo, per il fatto che c’è stata e continua ad esserci troppa poesia nella quale non si capisce niente. Tuttavia c’è anche , e forse da più tempo di quanto non si voglia credere, poesia che ha senso, poesia che si capisce. Magari non subito, magari un po’ difficile. Ma questo ci sta. Infatti il problema è anche questo: nella poesia che si capisce quando si capisce troppo, o addirittura tutto, il rischio è quello di una ingenuità povera, miserabile. E nemmeno questo è perdonabile a quanto viene proposto come poesia. Dunque chiediamo profondità alla poesia? Sì e no. Quando tutto è molto profondo, sinceramente profondo, non basta andare a capo, forse il genere letterario più adatto è un altro. Perché poesia è anche leggerezza e dunque la profondità deve avere uno spessore minimo per galleggiare con grazia. Ma l’estenuazione dell’io lirico dalle nostre parti non è forse un dato di fatto? (e il Novecento altrove non ha forse conosciuto anche quella del noi collettivista?). 
Sono di parte perché a fare queste domande non mi resta molta poesia intorno. Eppure c’è. Lo dico con la consapevolezza che sto da una parte che non è del tutto chiara: senso e non senso, profondità e leggerezza… ma posso aggiungere dell’altro a dire il vero. Come vado dicendo qui in questo blog e altrove ci sono temi del secondo Novecento cui sono rimasti sordi poesia e critica della poesia. Ebbene a me, e non solo a me, pare che intorno ci sia qualche invenzione, o recupero?, di temi. Poco consueti. Le storie famigliari ad esempio e dico dunque la narrazione ( in strofe brevi o lunghe), territorio fin qui privilegio della scrittura in righe. Le guerre. Il lavoro. I conflitti sociali. Le ribellioni. La cura del paesaggio e dell’ambiente. La cura del pianeta. La cura delle relazioni. Il conflitto tra io e noi senza timore per l’affondo nell’identità se è mezzo per fondare ponti col mondo e non per psicosondaggi in acque vuote (o, ahinoi, troppo piene).

Non da oggi leggo i versi di Nino Iacovella, a suo tempo ospite e partecipe di Il Monte Analogo, rivista di poesia e ricerca (editorialmente conclusa), oggi autore per me tra i più interessanti, uno dei fondatori tra l’altro di Perigeion, blog recente di poesia e di resistenza umana (dove quella ‘resistenza umana’ la dice lunga sulle piste da tracciare nei nostri deserti). Di Iacovella è di questi giorni l’uscita della plaquette dal titolo La parte arida della pianura, Edizioni Culturaglobale, “100”. 

Nove poesie. Ciascuna di esse raccoglie materiale umano intorno alla parola terra che ricorre appunto nove volte. Da quella masticata nella bocca slogata di Pasolini, ‘corpo duro… che ferisce’, in ‘un’Italia che brucia’ (prima poesia) a quella che nell’ultima poesia ‘rimastica’ e ricicla i nostri corpi, la nostra carne. 
Quella per Pasolini:

Polaroid 
(Cronaca nera)

La notte devia il corso delle povere cose 
rimaste abbandonate: 
un cartello rotto, un tubo di ferro, 
sono ora corpi contundenti 
accanto a un volto sfigurato 

Rimane l’ombra dell’ultima parola 
Nella slogatura della bocca, 
mastica il dolore di quella terra nuda 

Poi la prima luce del giorno mostra un corpo duro e solo, 
tutto quel rosso che ferisce gli occhi di chi guarda: 
la fossa mai terminata, la faccia come un disegno sbagliato, 
le flamme di un’Italia che brucia 
                                                              2 novembre 1975 
                                                                                Idroscalo di Ostia
                                                               

Nell’insieme le nove poesie sono un breve viaggio di un’umanità nomade in cerca della ‘nuova terra’. Quando prevale la stanzialità nella pianura, come ‘un’ombra poggiata sulla nebbia’ si intravede il gesto del braccio ‘che sparge i semi’. Già, il lavoro. Iacovella sembra suggerire che c’è ancora tempo per dirlo in poesia. C’è tempo, ma è tempo:

Con il corpo piegato dalla fatica 
l’uomo pensava a quel miracolo 
di terra scavata tra la nebbia 
e il rumore puro dell’acqua 

Seduto sulla pietra del riposo, 
con una enorme macchina agricola 
dalla pelle squamata che taceva 
il proprio canto sgraziato 

Come bestie fiaccate dal tempo, 
l’uomo e la macchina sarebbero presto 
risorti dal frastuono cavo di un ricordo 
e richiuso la porta del vuoto attorno ai campi 

Tra i commenti che hanno suscitato i miei versi presenti in questo blog nel post dal titolo La mutazione avveniva per strada, dedicato al convegno dei movimenti a Bologna nel ’77, compare anche quello di Iacovella che dice: “…fortunata la tua generazione che ha avuto ancora tempo di utopie e speranze per il futuro”. Ho preso queste parole come la conferma che Iacovella è partecipe delle ansie di una generazione condannata al vivere precario, progetto in essere di quell’ordoliberalismo che sta spazzando il pianeta come un vento distruttore capace di disperdere anzitempo nello spazio la nostra civiltà.
Nella rassegna tenuta lo scorso autunno in Bicocca a Milano insieme con Franco Romanò e intitolata, non a caso, Poesia e Storia Iacovella ha letto da Latitudine delle braccia, deComporre Edizioni, 2013. Qui il poeta racconta la Storia, la guerra. Con un’operazione che non è solo impegno civile di empatia con la sofferenza vissuta  e raccontata da altri, il poeta sembra piuttosto voler rivivere tragici momenti nella propria carne, nel proprio sguardo, nelle proprie braccia, si fa corpo presente che col corpo scrive, con le mani che scavano, gli occhi accecati, la testa rabbiosa, i denti che arrivano all’osso, come sentisse necessario incistare nelle proprie fibre e nelle proprie vene  quella Storia che altrimenti gli sfugge, quasi un’operazione di piercing sulle labbra e nel cuore. Quasi appunto che domande e risposte agitate sin qui non servano più a niente e che occorra ricominciare daccapo a interrogare passato e presente. Probabilmente con categorie diverse che forse solo le nuove generazioni sono in grado di sperimentare per via di una sensibilità diversa educata alla instabilità e alla precarietà molto più di quanto sia accaduto per la mia generazione nata durante la guerra e cresciuta nella Ricostruzione. Non basta la memoria, che resta spesso confinata dentro margini individuali, occorre allargare e allungare lo sguardo sui paesaggi complessi che la Storia ci ha consegnato. E’ un percorso per me ricco di avventure per una poesia che oggi assomiglia sempre più a una delle macchine celibi di Duchamp, improduttive e sorde.

Queste osservazioni sono lontane dal dare ragione del grande talento poetico che Iacovella libera nei suoi versi ricchi di umanità, altri hanno detto e diranno meglio di me la matura capacità compositiva e l’empito di emozioni che da essa proviene, ma ha ragione Giampiero Neri a dire che questa raccolta di versi  è ‘il poema sulla guerra che aspettavamo’ e ha ragione Alessandra Paganardi a dire che il poeta ‘percorre la Storia per intero’ (le loro note sono nel libro medesimo). 
L’incrocio tra poesia e filosofia è stato forse quello che maggiormente ha distribuito immagini e percorsi nel secolo scorso, io credo che oggi l’incrocio fecondo sia proprio quello con la Storia e peraltro leggo in questo se mai il rinnovarsi di una tradizione vicina a noi più di quanto non ci abbia fatto credere l’egemonia di una poesia astratta. 
Le nuove generazioni avvertono su di sé con allarme e talvolta angoscia i profondi cambiamenti cui stiamo assistendo, trasformazioni che modificano la nostra stessa percezione del mondo anche per via delle nuove tecnologie raffinate e fragili e dei nuovi confini delle scienze, e dunque non possono fare a meno di cercare da qualche parte agganci concreti e solidi che né le religioni né le filosofie sembrano in grado di dare. Quali le nuove guerre e  quali i conflitti maturati dentro le democrazie senza pace?  
Non è dunque a caso che Latitudini delle braccia cominci con un episodio tragico della nostra storia recente, la strage del 2 agosto del 1980 alla stazione di Bologna. 

Hai forse dimenticato le braccia 
da qualche parte, in questa città, 
dove puoi vedere ancora il fumo 
denso dell’esplosione. Vedi, tutto 
si compie all’altezza di un cielo 
irraggiungibile. Eppure volevi 
afferrarlo quel momento di cielo, 
così, con la tua mano distaccata 
da tutto il resto, un corpo ricaduto 
a pezzi, il mosaico che pavimenta 
i resti della stazione. E vero, 
siamo qui, in tanti tra le macerie, 
assieme alla testa di un cane 
c’e come terra di carne sbranata 

Nell’attimo prima che si compisse 
lo scempio, eri li ad interrogarti 
sulla faccenda della vita, senza 
aspettarti nulla, nessun fragore. 
Ed eri solo a due passi dall’innesco, 
vicino a chi avrebbe deciso le sorti 
del vuoto d’aria che ti avrebbe preso 
per alleviarti dall’insostenibile 
peso delle braccia 

Nemmeno la tua solitudine poggia 
più sulle proprie gambe. Adesso è lì
mescolata a terra indistinta tra 
lamiere storte, viscere e sangue 
Sabato 2 agosto 1980 - Ore 10,25 
Stazione di Bologna 

Nessun credito a chi parla di fine della Storia, ma la rifeudalizzazione delle società con oligarchie strette al vertice  che relegano il resto dell’umanità ai confini è intorno a noi e credo soprattutto che i giovani poeti come Jacovella sentano violentemente il rischio di integrazione dentro un eterno presente senza spessore critico e senza grandi speranze per il futuro.
Tra ‘aride pianure’ e ‘cieli imperfetti’ se la poesia resiste è solo perché offre il tepore della cenere di parole e tenui segnali di fumo. 
Ma basteranno:
(dalla sezione Una terra come carne)

La poesia non può cambiare l’ordine 
del dolore 

Quella polvere non si poserà altrove, 
piuttosto ricuce addosso la presenza 
delle lapidi, insinuando al funambolo 
che osa lo sguardo oltre la corda 
che sovrasta le proprie rovine 

Cercare ricordi, tra i muri anneriti 
e le case abbandonate, noi tra le notti ancorate 
con le unghie che vanno a fondo 
ai bordi del materasso, avessimo visto i volti, 
le madri tra i vuoti delle stanze, 
avremmo un taglio più vistoso al collo 
e come parole un filo di voce 

Per questo lanciamo solo segnali di fumo 
da posti sicuri e abbandonati 

e se apriamo nascondigli 
nutriamo un vuoto di formaldeide, 
un lascito di brace che toglie il respiro 

Lasciamo tepore, ma con parole di cenere 
dopo ogni bivacco 



venerdì 7 agosto 2015

La pietà Rondinini al Castello sforzesco

La nuova sistemazione della Pietà Rondinini al Castello sforzesco di Milano non è gran che. L'unica giustificazione convincente del trasferimento sta nella dichiarazione che quella precedente non era facilmente accessibile ai disabili, ma forse si poteva fare qualcosa in proposito. E' vero che la sala nella quale era ospitata dal '56 fino a oggi era dispersiva tuttavia ricordo che le sculture del rinascimento lombardo facevano esemplare introduzione all'opera di Michelangelo. Ad essa peraltro si accedeva dopo aver sceso pochi scalini e inoltre lo studio milanese che aveva avuto in commissione la sistemazione aveva avvolto la scultura dentro una parete semicircolare che aveva sì la funzione di isolare con ragione la statua ma contribuiva ad avvolgere una composizione che di suo avvolge due personaggi in un unico abbraccio circolare tanto che, a causa del 'non finito' dell'opera, non sembrano esistere un davanti e un di dietro come  nella maggior parte delle statue. Maria e Gesù Cristo sembrano sostenersi a vicenda ciascuno dentro la propria sfinitezza del corpo, morto l'uno ma poco meno l'altra.
Nella nuova sistemazione è successo quanto non potevo aspettarmi. Non la vedevo da almeno trent'anni. Sparita la parete, sparito l'isolamento ad hoc mi sono ritrovato in faccia, entrando nella sala,  il retro della statua: lo conoscevo bene, sapevo già che è fortemente incluso nella composizione, ma il disagio è stato forte. I giovani presenti hanno sicuramente superato meglio di me la faccenda e si sono seduti poi sul davanti nelle panchine di legno a osservare.  Poi si sono dedicati, sempre di faccia,  alle foto con relative pose di ciascuno/a. Poi si sono avvicinati ancora all'opera scrutandola da vicino. Infine hanno preso la strada dell'uscita. Hanno cioè interpretato alla lettera la sistemazione - per vedere la statua dobbiamo aggirarla - e quando sono entrati hanno subito realizzato per prima cosa che dovevano aggirare la statua per osservarla, è quello che hanno fatto, si sa che la parte più interessante sta davanti. Il problema sta in quel 'non finito' che sta sia davanti che dietro e rende appunto un po' meno identificabili del solito il davanti e il dietro. Nella vecchia sistemazione insomma veniva più spontaneo osservare e aggirare, osservare e spingere lo sguardo a scivolare sul dietro, a incorporare la statua in un unico abbraccio circolare.
Quando la sistemazione del '56 fu pronta e aperta al pubblico ero appena arrivato a Milano. Ma della coincidenza ho saputo solo stamattina quando sono andato al Castello, quando la vidi allora per me era lì da sempre e non sapevo nemmeno che quell'opera era stata comprata e trasportata dai milanesi dal palazzo dei Rondinini a Roma. E già, perché Michelangelo non era mica lombardo, e trascuriamo che era aretino o giù di lì, ma era di fatto trapiantato romano. Ma se uno guarda le statue del Giorno e della Notte a Firenze che sono così monumentali e grandiose e le paragona a quest'opera in cui la sfinitezza dei corpi esausti è tutt'uno con l'estrema sottigliezza e fragilità di quel marmo lavorato a quel modo non verrebbe da dire che in fondo si tratta di un'opera molto lombarda? Osservazione questa che in qualche modo debbo alla locandina di presentazione, nel senso che a me, provinciale che arrivavo a Milano allora vera metropoli italiana, che oggi non riesce a farsi ancora europea (anche se qualcosa sta cambiando) quella statua sembrò un vero e proprio biglietto da visita milanese e lombardo (che poi si alimentò coerentemente con la scoperta di Leonardo e Bramante operosi in città). Ma non ci siamo proprio se la città non riesce a dare una sistemazione geniale a Michelangelo lombardo.

lunedì 20 luglio 2015

Maestà di Duccio di Buoninsegna, a.d. MCCCXI

Maestà di Duccio di Buoninsegna
a.d. MCCCXI
(sei strofe, 62 versi)

Siena è piena delle madonne di Duccio di Buoninsegna.
Il fatto è che o dipingeva madonne o non campava: né preti né banchieri, tutti devoti credenti naturalmente e già allora padroni della città, commissionavano altro.
La Maestà in trono cui faccio riferimento è una vasta composizione in legno con al centro una madonna circondata da angeli e santi: è splendidamente conservata nel museo dell’Opera del Duomo di Siena.

Le cronache raccontano che nel giorno, all’incirca dell’anno 1311, destinato all’esposizione, il piissimo e devotissimo a Maria popolo senese andasse in massa alla casa di Duccio per portare lui e la sua Maestà ancora fresca di colore in Duomo. Tra frati e popolino ci furono dispute per la testa del corteo (le cronache non dicono nulla della laicissima preoccupazione di Duccio che il suo dipinto arrivasse intatto a destinazione).

*

L’insonnia degli archivolti centra cristalli 
carichi del tannino dei secoli venti soffiano 
aprendo le mani e congiungendo gli occhi
le sommità del giorno preferiscono 
pavoneggiarsi nel buio 
con la passione che non tarda.




Duccio assillato mutante dai laici potenti e del clero 
mutante che agita e turba i convolvoli d’asce
ricamate che ingigantiscono le pietre:
reggendo l’increspatura  ai clori e agli acidi, 
solidamente il rimbombo di verdi e azzurri
ancorato in pieno centro,
la devozione sgrana perdite di sistemi
di animali in corsa e le grida stagnano 
nell’ansa di un albero che preme sulle fronti 
con la volontà dei frutti maturi.




Quanto simile possa essere la fatica 
dentro un sepolcro d’alluminio esposto alla luna
quanto poco divino spetti a un creatore
ripulito e pantofolaio
sempre meglio che sterrare preamboli curiosi
spettegolare a imbuto su leccornie sfuggite a davanzali
signorili e non altrimenti perché chi ricalcitra
sollecita precisi azzeramenti o finisce col sognare
particolari inediti sui muschi 
quando l’ermellino abbandona gli asfalti
e trascina con sé frecce e fantasmi 
per le scalinate asserragliate dei centri di ristoro.




Accantonamento e deragliamento convincenti, 
non per fregola d’arrivista ma solo sbriciolando il pretesto
mentendo quanto basta per rispondere all’intreccio
si instaurano  concerto e l’intesa
e Duccio liberamente restaura sapidità di pecore corinzie
nel dramma battesimale di pochi eletti e tanti facenti funzione.
Forzando di metafora il potere si annulla
e le pareti sottili sfilano organi maestosi senza sussulti
né pesci istoriati, ci pensano gli angeli, con techne sicura,
a detestare sorgenti immobili, 
lo scroscio d’oro dagli occhi  il fenomeno critica 
presentendo l’azzurro
sorpreso sul trono a spartire coralli d’impazienze 
e prestiti d’ombre esauste.




Dai contorni  svettano naiadi e dalle impronte 
di mani sulle formelle il cruccio,  ed è l’inizio,
consentendo balconate di annunciazioni possibili
e ballatoi di bocche spumeggianti
i gialli e i verdi via scivolano s’inoltrano nel fondo,
larghe s’accampano linee di profili elettricamente riposati
sguardi standardizzati da ironie  
che alla memoria riattizzano
rivoli di salnitro e fosforo su rimasugli di stalle
laghi di stagnola ancorati ai gozzi di vitelli 
improvvisazioni aventi come terminali 
resurrezioni e giacigli senza fine.




E che tempo c'è dentro quella Maestà?
Fuori è lo scappellarsi indegno dell’inverno piovoso
statue inarcate sotto le ciglia
tondi percorsi di altalena sotto porticati 
la lingua lastricata d’alabastro 
pretende niente di più nientemeno 
che l’assalto particolare della techne del verso
l’incerta, sulla carta, tecnologia.


Milano 2000



venerdì 17 aprile 2015

A proposito di E. Dickinson

Seguendo le suggestioni venute da un pezzo teatrale dedicato alla poeta E. Dickinson ne ho letto quasi tutta l'opera. 
Dickinson è e resta una poeta enigmatica e misteriosa, certo poco ottocentesca, qualcuno ne ha fatto addirittura un emblema del post-moderno. La natura complessa della sua scrittura è data dal suo rifiuto radicale di presentarsi come una 'persona' identificabile, procede per ellissi e omissioni di sé e la natura ha così grande parte solo in quanto habitat e territorio vicino ma non come fine. L'estrema radicalità di questa posizione è la stessa che la porta a sottrarsi al mondo delle relazioni per sondare solo dentro di sé l'effetto di essere semplicemente viva. E' quello che secondo me ognuno di noi potrebbe fare se a un certo punto del giorno non decidessimo di buttarcici dentro, cioè solo qualche secondo dopo esserci svegliati. Lei rinuncia al gioco - anche perché poteva permetterselo - e noi assistiamo allo spettacolo delle sue emozioni filtrate filtratissime e depurate da qualsiasi oscenità della cronaca. Un'operazione radicale che la potrebbe avvicinare al misticismo ma lei ne resta fuori. Un'operazione radicale che la potrebbe avvicinare all'intimismo ma lei ne resta fuori. Come dice una sua brava inteprete critica (B. Lanati) è come se lei invece di vivere restasse dietro le quinte o dietro uno spessore. Rinunciando a dare di sé un'immagine qualsiasi, in realtà parla continuamente di sé e noi continuiamo a chiederci chi è lei davvero. La cifra metalinguistica che diventa passo ironico e a volte beffardo è sempre elegante e tutto non fa che aumentare misteriosità ed enigma perché i tentativi nostri di interpretarla possono essere infiniti (e così è in effetti la montagna di letture critiche) e questo va tutto a credito di una idea di poesia che trascenda il visibile ma senza allontanarsene mai davvero. Occhi impigliati nelle nuvole, piedi per terra.
Verrebbe peraltro da chiedersi se la cifra stilistica adottata da Emily abbia, almeno in parte, favorito la scelta di isolarsi dal mondo, poco o tanto che sia nella realtà avvenuta, o se la scelta di isolamento abbia finito col riversarsi anche nella scrittura favorendo  omissioni ed ellissi del sé. Anche questo è enigmatico, per me forse l'enigma cruciale, perché se è vero che la scrittura è quai sempre un tentativo di colmare un vuoto, una inadeguatezza, una mancanza, è anche vero che queste inadeguatezze e mancanze non sono sempre psicologiche o esistenziali ma spesso dovute anche a carenze di natura organica se non a vere e proprie malattie che rendono inadeguate e mancanti.

lunedì 6 aprile 2015

Omaggio a Luigi Di Ruscio

NON POSSIAMO ABITUARCI A MORIRE

di ruscio 09
“Scriviamolo sui muri, la resistenza è ancora possibile, l’urgenza delle parole si frapponga fra noi e il resto. La sconfitta non è definitiva,  la speranza è tutta nella nostra capacità di ridere.”
L. Di Ruscio
La redazione di Perigeion è lieta di invitarvi a questo evento da noi molto sentito.
1o Aprile, Milano , Spazio tu di Mascherenere presso la Fabbrica del Vapore in via Procaccini,4
Ore 19,00; ingresso libero
FESTA-TRIBUTO-INCONTRO sull’opera di Luigi Di Ruscio.
A partire dall’opera del grande scrittore e poeta marchigiano, attraverso la proiezione di piccoli cortometraggi e frammenti video sulla sua figura e la lettura di suoi testi ad opera di poeti, scrittori e amici che l’hanno ammirato e conosciuto, questo incontro vuole essere insieme un momento di festa e di riflessione. In questi tempi dove l’uomo, la poesia e la bellezza vengono continuamente offesi, aspira ad essere un’alternativa il più possibile concreta alla volgarità e all’ignoranza che tentano di soffocare la nostra vita di uomini liberi.
DiRuscioLocandina (1)
Luigi Di Ruscio è nato nel 1930 a Fermo, nelle Marche, in una famiglia sottoproletaria di Vicolo Borgia. Da ragazzo ha sbarcato il lunario lavorando come manovale, operaio, fotografo di matrimoni. Nel 1956 è uscita da Schwarz la sua prima raccolta di versi, “Non possiamo abituarci a morire“, prefata dal giovane Franco Fortini, e l’anno successivo è emigrato a Oslo, in Norvegia, dove ha vissuto fino alla sua morte, avvenuta nel febbraio del 2011, lavorando in una fabbrica che produceva chiodi, la Christiana Spigervek. In Norvegia si è sposato con Mary Sandberg e ha messo al mondo quattro figli, continuando a scrivere e a pubblicare, soprattutto per piccole case editrici, sostenuto dalla stima di lettori come Salvatore Quasimodo, Italo Calvino, Antonio Porta, Giancarlo Majorino fino a quando, dopo la sua morte , Feltrinelli pubblica nella collana comete il meglio della sua produzione letteraria.
Le fotografie a Luigi Di Ruscio sono di Ennio Brilli.

martedì 31 marzo 2015

L'operaismo e il paesaggio che circoscrive



Scuote la mia memoria l’amico Sergio con i suoi articoli più recenti nei quali ricostruisce le vicende dell’operaismo. Mi richiama alla natura politica e culturale dell’operaismo da me vissuto negli ultimi momenti della rivista Classe Operaia, nel breve percorso di vita della rivista La classe e in quegli stessi dodici mesi dentro il neonato Potere Operaio di cui lui parla.
La permanenza in P.O. dopo quei dodici mesi, come per lui, divenne anche per me insostenibile perché al suo interno la pratica di quel lavoro politico che si era concretizzato soprattutto con La classe, nonostante il suo breve periodo di vita, era ormai considerata superata da molti. Anche per me P.O. era già sin dall’inizio (autunno ’69) quella riproduzione di un modello di partito bolscevico fuori tempo come lo definisce Sergio, ma
finché ci sono rimasto ho continuato in pratica a interpretare il mio impegno dentro il gruppo allo
La riedizione della rivista
Primo Maggio
(1973-1988) fondata da
Sergio Bologna
stesso modo dell’inizio della mia esperienza con l’operaismo. Ancora oggi, dopo più di quarant’anni, considero fondamentale per la mia formazione politica ma anche culturale quell’esperienza nella quale ebbe importanza preponderante Sergio (insieme a pochi altri, l’amico Ferruccio in testa) del quale ero in qualche modo un allievo. E continuo a considerare che, nonostante le trasformazioni avvenute nel lavoro, quel tipo di riflessione e di pratica politica siano un’ipotesi di lavoro degna della massima attenzione ancora oggi nella confusione generale, quella reale e quella indotta dai poteri forti e i loro serventi.
A monte di tutto c’erano per me due premesse, due veri e propri assiomi di matrice marxiana (che diventarono teoria e pratica militante soprattutto dentro la rivista Primo Maggio). Il primo era quello di interrogare con i metodi più idonei (dall’intervista al contatto quotidiano) il movimento reale di classe per capirne composizione e tendenze. Si trattava di un lavoro che richiedeva umiltà e pazienza perché la classe operaia era in realtà un universo molto più complesso di quanto non volesse una certa retorica gruppettara. Il secondo era quello di fare da ponte, da tramite, da collegamento interno alla classe stessa ed esterno (i tecnici, gli studenti...) un tipo di attività che non era né quello delle sezioni di partito né quello della sezione sindacale: occorreva avere la pancia e la testa sgombre da rigidità ideologiche e burocratiche. Certo è che ne veniva fuori un tipo di intellettuale piuttosto originale, anche un po’ sartriano, prossimo ma comunque non identificabile con il leninismo. Non identificabile con il leninismo, almeno per quanto riguarda me ma non solo, soprattutto perché nonostante non fossi estraneo alle suggestioni del clima rivoluzionario ( e come era possibile? In quegli anni dal 68 in avanti ma anche da prima qualsiasi azione un po’ trasgressiva era considerata e vissuta come rivoluzionaria!), non pensavo che ci fossero neanche lontanamente le condizioni per una rivoluzione alla maniera francese o soviettista. Perché è vero che l’operaio massa
di Mirafiori e della Pirelli erano arrabbiati e generosamente pronti ad una lotta che rompeva gli schemi e gli obiettivi dei partiti di sinistra e dei sindacati, ma è anche vero che in quelle grandi fabbriche le resistenze degli anziani erano molto forti. Non solo. Nella cintura delle piccole e medie fabbriche lombarde venivamo in contatto con una classe operaia che ci accoglieva e ci dava ascolto ma che non aveva nessuna intenzione di bruciarla la fabbrica. Credevo invece che le lotte operaie potevano inceppare i meccanismi di riproduzione del profitto, dello sfruttamento del lavoro, dell’estrazione di plusvalore dal lavoro. Una dimensione di fatto antagonista al sistema perché ogni piccola conquista sul posto di lavoro che intaccasse la parte variabile del salario e diventasse parte fissa non era da leggere esclusivamente come conquista sindacale. Era la conquista di un comando sul lavoro che obbligava a patteggiare. Anzitutto provocava una frattura interna alla classe perché gli operai più anziani legati al posto di lavoro del quale conoscevano tutto, legati a una sorta di professionalità che li rendeva una specie di aristocrazia fortemente legata al PCI, mal sopportavano che le lotte intraprendenti dell’operaio massa finissero col garantirgli aumenti e concessioni che loro avevano sudato le sette camicie per ottenere. C’era da capirli. Il fatto era che l’operaio degli anni sessanta era molto più di loro alienato dalla divisione del lavoro avvenuta nelle grandi fabbriche sulla catena di montaggio dove la parcellizzazione costringeva a pochi gesti ripetuti all’infinito per ore e ore. Peraltro questa bassa professionalità non impediva ai giovani di riconoscersi, nel dopoguerra del boom economico, produttori di ricchezza e portatori di una soggettività politica e culturale rabbiosamente insofferente del dispotismo autoritario presente nelle aziende, negli uffici, in tutte le strutture politiche e culturali compresa ovviamente la scuola dove gli studenti erano impegnati nel medesimo conflitto.
L’operaismo è stato per me, e tuttora, un’indicazione di metodo e di percorso di democrazia reale che allora confinava con la tradizione dei partiti di sinistra senza esaurirsi lì. In questo senso è stato anche una sorta di browser, di navigatore per connessioni di natura letteraria sulle quali sono anche nate negli anni novanta iniziative in Calusca con l’amico Primo. Del resto il paesaggio che l’operaismo circoscrive è proprio quello che sto attraversando anche con l’attuale produzione di versi.



Nuovo evento e sito nuovo della casa editrice Stampa2009

Incontri con l'Autore

Palazzo Sormani – Milano

Mercoledì 8 Aprile, ore 18.00


Marco Borroni
Maurizio Cucchi

presentano

la Collana
e i quaderni de la Collana

Edizioni Stampa 2009


Intervengono:

Cristina Annino
Michele Hide
Cesare Imbriani
Lucrezia Lerro
Valeria Poggi
Paolo Rabissi
Mario Santagostini
Mary Barbara Tolusso

Sala del Grechetto
Palazzo Sormani
via Francesco Sforza 7
Milano


il sito della casa editrice è:  www.stampa2009.it