Sono un lettore e scrittore di righe e versi e sono di parte. Una parte tutta da inventare a dire il vero. Perché, insieme a tanti altri, mi interrogo sulla poesia. Risposte poche, tanto che a volte penso che siano le domande ad essere sbagliate. Per dire: ha senso chiedere… senso alla poesia? Sembra proprio di sì, sembra, in particolar modo, per il fatto che c’è stata e continua ad esserci troppa poesia nella quale non si capisce niente. Tuttavia c’è anche , e forse da più tempo di quanto non si voglia credere, poesia che ha senso, poesia che si capisce. Magari non subito, magari un po’ difficile. Ma questo ci sta. Infatti il problema è anche questo: nella poesia che si capisce quando si capisce troppo, o addirittura tutto, il rischio è quello di una ingenuità povera, miserabile. E nemmeno questo è perdonabile a quanto viene proposto come poesia. Dunque chiediamo profondità alla poesia? Sì e no. Quando tutto è molto profondo, sinceramente profondo, non basta andare a capo, forse il genere letterario più adatto è un altro. Perché poesia è anche leggerezza e dunque la profondità deve avere uno spessore minimo per galleggiare con grazia. Ma l’estenuazione dell’io lirico dalle nostre parti non è forse un dato di fatto? (e il Novecento altrove non ha forse conosciuto anche quella del noi collettivista?).
Sono di parte perché a fare queste domande non mi resta molta poesia intorno. Eppure c’è. Lo dico con la consapevolezza che sto da una parte che non è del tutto chiara: senso e non senso, profondità e leggerezza… ma posso aggiungere dell’altro a dire il vero. Come vado dicendo qui in questo blog e altrove ci sono temi del secondo Novecento cui sono rimasti sordi poesia e critica della poesia. Ebbene a me, e non solo a me, pare che intorno ci sia qualche invenzione, o recupero?, di temi. Poco consueti. Le storie famigliari ad esempio e dico dunque la narrazione ( in strofe brevi o lunghe), territorio fin qui privilegio della scrittura in righe. Le guerre. Il lavoro. I conflitti sociali. Le ribellioni. La cura del paesaggio e dell’ambiente. La cura del pianeta. La cura delle relazioni. Il conflitto tra io e noi senza timore per l’affondo nell’identità se è mezzo per fondare ponti col mondo e non per psicosondaggi in acque vuote (o, ahinoi, troppo piene).
Non da oggi leggo i versi di Nino Iacovella, a suo tempo ospite e partecipe di Il Monte Analogo, rivista di poesia e ricerca (editorialmente conclusa), oggi autore per me tra i più interessanti, uno dei fondatori tra l’altro di Perigeion, blog recente di poesia e di resistenza umana (dove quella ‘resistenza umana’ la dice lunga sulle piste da tracciare nei nostri deserti). Di Iacovella è di questi giorni l’uscita della plaquette dal titolo La parte arida della pianura, Edizioni Culturaglobale, “100”.
Nove poesie. Ciascuna di esse raccoglie materiale umano intorno alla parola terra che ricorre appunto nove volte. Da quella masticata nella bocca slogata di Pasolini, ‘corpo duro… che ferisce’, in ‘un’Italia che brucia’ (prima poesia) a quella che nell’ultima poesia ‘rimastica’ e ricicla i nostri corpi, la nostra carne.
Quella per Pasolini:
Polaroid
(Cronaca nera)
La notte devia il corso delle povere cose
rimaste abbandonate:
un cartello rotto, un tubo di ferro,
sono ora corpi contundenti
accanto a un volto sfigurato
Rimane l’ombra dell’ultima parola
Nella slogatura della bocca,
mastica il dolore di quella terra nuda
Poi la prima luce del giorno mostra un corpo duro e solo,
tutto quel rosso che ferisce gli occhi di chi guarda:
la fossa mai terminata, la faccia come un disegno sbagliato,
le flamme di un’Italia che brucia
2 novembre 1975
Idroscalo di Ostia
Nell’insieme le nove poesie sono un breve viaggio di un’umanità nomade in cerca della ‘nuova terra’. Quando prevale la stanzialità nella pianura, come ‘un’ombra poggiata sulla nebbia’ si intravede il gesto del braccio ‘che sparge i semi’. Già, il lavoro. Iacovella sembra suggerire che c’è ancora tempo per dirlo in poesia. C’è tempo, ma è tempo:
Con il corpo piegato dalla fatica
l’uomo pensava a quel miracolo
di terra scavata tra la nebbia
e il rumore puro dell’acqua
Seduto sulla pietra del riposo,
con una enorme macchina agricola
dalla pelle squamata che taceva
il proprio canto sgraziato
Come bestie fiaccate dal tempo,
l’uomo e la macchina sarebbero presto
risorti dal frastuono cavo di un ricordo
e richiuso la porta del vuoto attorno ai campi
Tra i commenti che hanno suscitato i miei versi presenti in questo blog nel post dal titolo La mutazione avveniva per strada, dedicato al convegno dei movimenti a Bologna nel ’77, compare anche quello di Iacovella che dice: “…fortunata la tua generazione che ha avuto ancora tempo di utopie e speranze per il futuro”. Ho preso queste parole come la conferma che Iacovella è partecipe delle ansie di una generazione condannata al vivere precario, progetto in essere di quell’ordoliberalismo che sta spazzando il pianeta come un vento distruttore capace di disperdere anzitempo nello spazio la nostra civiltà.
Nella rassegna tenuta lo scorso autunno in Bicocca a Milano insieme con Franco Romanò e intitolata, non a caso, Poesia e Storia Iacovella ha letto da Latitudine delle braccia, deComporre Edizioni, 2013. Qui il poeta racconta la Storia, la guerra. Con un’operazione che non è solo impegno civile di empatia con la sofferenza vissuta e raccontata da altri, il poeta sembra piuttosto voler rivivere tragici momenti nella propria carne, nel proprio sguardo, nelle proprie braccia, si fa corpo presente che col corpo scrive, con le mani che scavano, gli occhi accecati, la testa rabbiosa, i denti che arrivano all’osso, come sentisse necessario incistare nelle proprie fibre e nelle proprie vene quella Storia che altrimenti gli sfugge, quasi un’operazione di piercing sulle labbra e nel cuore. Quasi appunto che domande e risposte agitate sin qui non servano più a niente e che occorra ricominciare daccapo a interrogare passato e presente. Probabilmente con categorie diverse che forse solo le nuove generazioni sono in grado di sperimentare per via di una sensibilità diversa educata alla instabilità e alla precarietà molto più di quanto sia accaduto per la mia generazione nata durante la guerra e cresciuta nella Ricostruzione. Non basta la memoria, che resta spesso confinata dentro margini individuali, occorre allargare e allungare lo sguardo sui paesaggi complessi che la Storia ci ha consegnato. E’ un percorso per me ricco di avventure per una poesia che oggi assomiglia sempre più a una delle macchine celibi di Duchamp, improduttive e sorde.
Queste osservazioni sono lontane dal dare ragione del grande talento poetico che Iacovella libera nei suoi versi ricchi di umanità, altri hanno detto e diranno meglio di me la matura capacità compositiva e l’empito di emozioni che da essa proviene, ma ha ragione Giampiero Neri a dire che questa raccolta di versi è ‘il poema sulla guerra che aspettavamo’ e ha ragione Alessandra Paganardi a dire che il poeta ‘percorre la Storia per intero’ (le loro note sono nel libro medesimo).
L’incrocio tra poesia e filosofia è stato forse quello che maggiormente ha distribuito immagini e percorsi nel secolo scorso, io credo che oggi l’incrocio fecondo sia proprio quello con la Storia e peraltro leggo in questo se mai il rinnovarsi di una tradizione vicina a noi più di quanto non ci abbia fatto credere l’egemonia di una poesia astratta.
Le nuove generazioni avvertono su di sé con allarme e talvolta angoscia i profondi cambiamenti cui stiamo assistendo, trasformazioni che modificano la nostra stessa percezione del mondo anche per via delle nuove tecnologie raffinate e fragili e dei nuovi confini delle scienze, e dunque non possono fare a meno di cercare da qualche parte agganci concreti e solidi che né le religioni né le filosofie sembrano in grado di dare. Quali le nuove guerre e quali i conflitti maturati dentro le democrazie senza pace?
Non è dunque a caso che Latitudini delle braccia cominci con un episodio tragico della nostra storia recente, la strage del 2 agosto del 1980 alla stazione di Bologna.
Hai forse dimenticato le braccia
da qualche parte, in questa città,
dove puoi vedere ancora il fumo
denso dell’esplosione. Vedi, tutto
si compie all’altezza di un cielo
irraggiungibile. Eppure volevi
afferrarlo quel momento di cielo,
così, con la tua mano distaccata
da tutto il resto, un corpo ricaduto
a pezzi, il mosaico che pavimenta
i resti della stazione. E vero,
siamo qui, in tanti tra le macerie,
assieme alla testa di un cane
c’e come terra di carne sbranata
Nell’attimo prima che si compisse
lo scempio, eri li ad interrogarti
sulla faccenda della vita, senza
aspettarti nulla, nessun fragore.
Ed eri solo a due passi dall’innesco,
vicino a chi avrebbe deciso le sorti
del vuoto d’aria che ti avrebbe preso
per alleviarti dall’insostenibile
peso delle braccia
Nemmeno la tua solitudine poggia
più sulle proprie gambe. Adesso è lì
mescolata a terra indistinta tra
lamiere storte, viscere e sangue
Sabato 2 agosto 1980 - Ore 10,25
Stazione di Bologna
Nessun credito a chi parla di fine della Storia, ma la rifeudalizzazione delle società con oligarchie strette al vertice che relegano il resto dell’umanità ai confini è intorno a noi e credo soprattutto che i giovani poeti come Jacovella sentano violentemente il rischio di integrazione dentro un eterno presente senza spessore critico e senza grandi speranze per il futuro.
Tra ‘aride pianure’ e ‘cieli imperfetti’ se la poesia resiste è solo perché offre il tepore della cenere di parole e tenui segnali di fumo.
Ma basteranno:
(dalla sezione Una terra come carne)
La poesia non può cambiare l’ordine
del dolore
Quella polvere non si poserà altrove,
piuttosto ricuce addosso la presenza
delle lapidi, insinuando al funambolo
che osa lo sguardo oltre la corda
che sovrasta le proprie rovine
Cercare ricordi, tra i muri anneriti
e le case abbandonate, noi tra le notti ancorate
con le unghie che vanno a fondo
ai bordi del materasso, avessimo visto i volti,
le madri tra i vuoti delle stanze,
avremmo un taglio più vistoso al collo
e come parole un filo di voce
Per questo lanciamo solo segnali di fumo
da posti sicuri e abbandonati
e se apriamo nascondigli
nutriamo un vuoto di formaldeide,
un lascito di brace che toglie il respiro
Lasciamo tepore, ma con parole di cenere
dopo ogni bivacco