sabato 2 ottobre 2021

Lavastoviglie e comunismo

Cinquant'anni fa tondi tondi imparai a confrontarmi con la mia prima lavostoviglie. Un aggeggio generoso. Sbrigavo la cucina, il che faceva parte della divisione di ruoli con la mia compagna, in pochi minuti. Nonostante il fragore altrettanto generoso, a tempo stabilito, stoviglie e tutto il resto erano pronti, puliti. Soprattutto erano senza macchie, senza aloni,senza striature sospette. Ma durò poco. Ben presto quei difetti cominciarono a manifestarsi in maniera indisponente. La causa, cominciai a sentire, era che il detersivo non era abbastanza buono, quello che fin lì aveva funzionato bene non era più soddisfacente. Non so cosa pensai allora, oggi penso che il mercato ha le sue regole. E così, difronte alla domanda crescente, i produttori di detersivi che perlopiù sono gli stessi che producono le lavatoviglie, hanno 'dovuto', per mantenere lo stesso livello di profitti difronte all'aumento del costo della vita e cioè dei salari dati a operai, impiegati, controllori ecc, diminuire la qualità del detersivo. Il rimedio, per la mia strenua volontà di avere stoviglie pulite bene, fu che i produttori cominciarono a consigliare di aggiungere a parte al normale detersivo un supporto, sale, oppure brillantante oppure profumatore contro le puzze, ecc. Non ho potuto sottrarmi per molto tempo, un po'sì, ma poi cedi. Compri e usi tutti i supporti igienici e quando poi i produttori annunciano di avere inventato un detersivo che ha incorporato quei supporti e che quindi non è più necessario aggiungerli, paghi un po' di più ma finalmente tutto è tornato come prima. E le stoviglie sono tornate pulite. Da un po' di mesi, forse un anno che è poi tempo di pandemia, le stoviglie non sono più pulite di nuovo. In fondo ai contenitori di cartone riciclato del detersivo è apparso un avviso che dice pressappoco così: è vero che sale, brilantante e profumatore sono inseriti dentro il nostro detersivo però se volete risultati eccellenti è meglio che ne aggiungiate separatamente. E' proprio così. Sono tornato a inserire nelle apposite finestrelle i supporti antichi e i bicchieri non hanno più macchie. Io mi sento troppo vecchietto per azzardare morali tantomeno giudizi politici, con l'aria che tira sembra che morale e politica siano ormai questioni da barzellette. Certo io pensavo al comunismo, cioè a quella cosa nella quale il costo del mercato non viene fatto pagare in massima parte agli strati più deboli del lavoro e del non lavoro, sin dalla prima lavastoviglie. Certo continuo a ripetermi le righe di Marx, quelle nelle quali, dopo avermi spiegato come funziona anche il sistema delle lavastoviglie, lui ripete che il comunismo è il movimento che tende alla distruzione del capitalismo. Che sin qui per me ci siamo. Ma poi? Cioè, con gli esempi che abbiamo alle spalle di quello che è stato il comunismo nel '900, qual è il tipo di organizzazione sociale che gente come me dovrebbe avere in mente? Certo, anch'io come Montale vado per sottrazione: questo no, quest'altro no e quest'altro ancora nemmeno per sogno, ma cosa sì? e soprattutto sì ma 'come', che tipo di sì? Se riusciamo prima o poi ad abbatterlo questo sistema, sarà bastato?

mercoledì 12 maggio 2021

Cronache berlinesi. La memoria, le mutande, il Caos

 

(https://www.youtube.com/watch?v=QbvgYnBBd1s

a questo link l'incontro nel 'salotto' Galzio)


Cronache berlinesi.
La memoria, le mutande, il Caos

Giordano Bruno: "Mi par cosa ridicola il dire che extra il cielo sia nulla. Di maniera che non è un sol mondo, una sola terra, un solo sole: ma tanti son mondi, quante veggiamo circa di noi lampade luminose."

Nato a Nola vicino a Napoli, bruciato a Roma sul rogo il 17 febbraio 1600. C'è ancora. Lì a Postdamer platz, temevo che la furia ricostruttrice su Berlino est dopo la caduta del muro si portasse via la bella grande scultura a testa in giù di Giordano Bruno. E' lì, come se quella fosse la sua posa naturale con quella testa schiacciata che lo assomiglia a ET del film di Spielberg. Giusto così. Intellettuali e poeti e poete e scienziati e scienziate, non in pochi né in poche,sono spesso a testa in giù, vanno contro, vengono da un altro mondo. Godono tutti e tutte di un trattamento speciale soprattutto se mettono in discussione ruoli e poteri, allora gli si scatenano contro chiese religiose e laiche, i fascismi, gli stalinismi, i razzismi, i sessismi. Allora li-le ammazzano e prima li-le torturano. Così è capitato a Giordano Bruno. Gli hanno inchiodato la lingua al palato con un solo grosso chiodo perché non parlasse.

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Impressionante qui a Berlino l'esercizio quotidiano della memoria, non puoi sfuggirgli, anche se sei in vacanza. Come a Milano non puoi sfuggire alla pubblicità delle mutande, soprattutto delle donne, qui non sfuggi alla memoria del nazismo. Postadamer platz è attualmente tappezzata di foto di polacchi deportati e condannati al lavoro forzato dopo il '39.

La città si dilata su una superficie otto volte superiore a quella di Milano. Tre milioni e mezzo di abitanti, pochi se pensiamo che sulla stessa superficie a NYC ce ne stanno più di dieci. Le strade non sono stressate dal traffico, ma anche quando frotte di turisti si disseminano frastornate sempre in cerca di qualcosa raramente fanno resse tipo quelle di piazza del Duomo a Milano. Unter den Linden, la strada usata dai nazisti per le adunate lunga un chilometro e mezzo e poi famosa per il muro dal 1961, è larga sessanta metri: non tutte sono così larghe ma, aggiungendo i marciapiedi che sono larghissimi, la sensazione resta quella di un territorio di pianure estese che devi conquistarti gambe in spalla. Altrimenti ti perdi tutto. In realtà ci sono le Ubahn, metropolitane sotterranee che ti portano ovunque, e poi ci sono le Sbahn che sono come le Ubahn solo che viaggiano in superficie ma su percorsi sopraelevati o comunque protetti dunque veloci come le prime. Non puoi pensare di andare da un quartiere a Ovest a uno a Est a piedi, ti va via la giornata. Da un quartiere all'altro invece si va in metro anche con la bici. Grandi biciclette che nei vagoni occupano grandi spazi e devi stare attento a non esserne infilzato.

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Abbiamo saccheggiato con lo sguardo la città. Senza la conoscenza della lingua sei costretto a usare di più gli occhi. Occhi da turisti disimpegnati. Gli altri sensi sono anch’essi chiamati a un surplus di esercizio ovviamente. Il naso lavora su materiale abbastanza inedito. Anzitutto il profumo di cucinati. Minestrone, brodo di carne, erba cipollina, curry, sesamo, cumino, caffè mit sahne, donerkebab, tutto mescolato insieme ti avvolge già verso le dieci del mattino quando ti sprofondi negli anditi delle metropolitane. E’ un afrore, molto simile a quello di altre città, ti prende alle narici e resta lì, non va più a fondo ma non ti abbandona più, neanche se esci sulle piazze sterminate che per attraversarle non bastano due semafori, neanche se si mescola agli odori di qualche umano. Finisce che lo cerchi, sfuggente e intenso, colto e perso in un metro di banchina. Ma in fondo niente altri impegni per il naso. Solo in qualche zona ti arriva grato il profumo dei tigli, di per sé beatificante ti gratifica ancora di più se i filari sono lunghi sulla allee. Ma in Unter den Linden la delusione è grande, ne hanno rimessi solo un centinaio delle migliaia che c’erano prima che i nazisti li spianassero per fare più grandi le adunate.

Con l’udito non c’è storia. I rumori sono quelli delle grandi città. Il treno, Ubahn o Sbahn che sia cioè in sotterranea o in sopraelevata, sferraglia proprio come un treno velocissimo e potente nel cuore della città. Stazioni di ferro, di acciaio e cristalli, percorsi di ferro sui ponti di ferro sullo Sprea. Le porte si aprono e chiudono con jingle che sembrano tutti accordi delle sinfonie di Beethoven e forse lo sono davvero. La vista dunque. Ma non è come a NYC. Lo sguardo lì è costretto continuamente a guardare in alto. I giochi dei riflessi dei grattacieli gli uni negli altri tengono la tua testa alzata, ma tieni la testa alzata anche perché sai che lassù c’è il Central Park al termine della avenue che sale o perché, al contrario, sai che laggiù c’è Battery Park, al termine della avenue che discende verso la foce dell’Hudson e dell’East River. A Berlino è diverso perché i palazzi sono alti ma non troppo e devi subito fare i conti con la loro struttura quadrata, rettangolare, esagonale ecc. Figure geometriche classiche cioè armoniche cioè leggere, quasi un paradosso. Lungo i viali spaziosi non incombono, massicci e solidi nello spazio ma mai pesanti. Respirano su larghe piazze, spesso così grandi che rinunci ad attraversarle. Si defilano con eleganza se costeggiano lo Sprea, anzi lì scopri la loro vocazione ai vuoti architettonici che liberano spazi con arcate, portici e colonnati neoclassici. Un’architettura sobria e concreta, viva e sonora. Colpiscono la varietà, l’audacia e gli effetti coloristici delle soluzioni formali dei palazzi moderni (sono stati chiamati a realizzarli architetti di tutto il mondo tra cui Piano) ma poi ti ritrovi davanti a estesi quartieri di fattura settecentesca, ancorché rifatti, ma fedelmente, dopo le distruzioni della guerra, omogeneamente neoclassici al punto che ti sembra di entrare direttamente negli spazi della scuola di Atene di Raffaello. Colonnati, porticati, frontoni, spazi vigorosi con statue e fontane che adornano cortili e piazzali. Da manuale cinquecentesco. Anche perché sono i palazzi civili a prevalere, chiese non ce n’è o vivono una vita appartata. In quella che è forse la più bella piazza di Berlino, la Gendarmenmarkt, ci sono sì contrapposte due chiese, quella luterana per i tedeschi e quella ugonotta per i francesi fuggiti dalla Francia a fine seicento, ma non hanno alcun peso religioso nemmeno formale perché ora sono due musei e comunque nella piazza dominano elegantemente neoclassico il teatro costruito da Schinkel durante la Restaurazione e il monumento a Friedrich Schiller. Infine però non puoi fare a meno di renderti conto che il gotico non è passato da qui. Sembra quasi impossibile. Eppure quello stile che ha contribuito a riempire di chiese tutta l’Europa ma soprattutto l’Italia dove si è innestato sul romanico, non ha lasciato gran che in tutto il Brandeburgo. Qui a Berlino una delle poche testimonianze è una chiesetta bicuspidata nei pressi di Alexanderplatz.

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Una tappa obbligatoria con sorpresa. Non potevamo sottrarci alla curiosità di rintracciare in qualche modo nella città la presenza di Bertolt Brecht. Così,


lasciata alle spalle la stazione Nord con le sue lucentezze di acciaio, abbiamo sostato per un po’ davanti al Berliner Ensemble e siamo anche entrati nel piccolo teatro ricostruito dopo la guerra ma la sua struttura dimessa e le stesse fotografie appese nell’entrata ci hanno fatto solo malinconia. Non credo che avessimo in animo una specie di commemorazione vera e propria, fatto sta che quel giorno l’abbiamo poi dedicato a rintracciare il piccolo cimitero dove Brecht è sepolto. Un cimitero diverso dai nostri che non ha niente di triste, un parco vero e proprio dove abbiamo riposato un po’ tra betulle salici e marmi dorati. Il sepolcro di Brecht è semplicissimo, ha accanto quello della moglie e non molto distante ha sorpreso entrambi la tomba di Christa Wolf. Ci hai lasciato sopra in dono una matita. Così ho fatto io su quella di Brecht.

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La grande storia qui è ovunque. Del muro di Berlino è rimasto un pezzo lungo un chilometro e qualcosa. Costeggia lo Spree. Il territorio tra il muro e l'altra sponda del fiume era considerata zona neutra, chi cercava di attraversarla difficilmente sfuggiva alle mitragliatrici della DDR e veniva ‘giustiziato’ sul posto. Dieter lo sciancato che ricordo in Inverno a Colonia era scappato per un'altra strada, nascosto dentro la fusoliera di un piccolo aereo. Rivedendo oggi il muro mi è tornato in mente lui, per la prima volta mi sono posto il problema se Dieter vive ancora nella Germania unificata. Oggi dovrebbe avere più o meno settant'anni, senza incidenti di percorso è realistico pensarlo vivo. Ma l'italiano non lo conosceva e quindi difficilmente può aver intercettato il mio blog (che altri seguono in Germania). Parlava un inglese maccheronico mentre oggi i tedeschi, quando si accorgono che sei straniero, per risponderti mettono automaticamente il cervello in modalità inglese che è come una seconda lingua materna per loro che lo studiano dalle elementari, se poi vedono che non capisci nemmeno quello allora si bloccano e chiedono aiuto increduli. Dieter non parlò mai della sua avventura, preferiva chiedermi in continuazione appena mi vedeva che cosa avrei fatto se fossi entrato in possesso di un milione di dollari!

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Il muro rimasto è un'opera d'arte en plain air per via dei murales che lo ricoprono interamente. Ne esci come puoi uscire dal museo Bergruen dopo aver visto un centinaio di Picasso e altrettanti Klee. Sbalordisci e in più devi fare i conti con il cielo vastissimo e mobile di nuvole che mutano la luce e tu devi registrare lo sguardo dopo ogni click della tua macchinetta. Le due facciate del muro sono dipinte e disegnate secondo l'estro in murales brevi o lunghi. L'omogeneità delle opere è data ovviamente dal tema, interpretato in un paio di centinaia di pezzi dagli artisti di cui molti famosi, ma soprattutto dal tipo di colorazione acida delle bombolette a gas.

C'è una riflessione cui ti costringe involontariamente una bacheca posta all'inizio e alla fine del muro. Essa avverte che mentre i murales della facciata esposta a Est, il territorio riconquistato, è quello riconosciuto ufficialmente di valore, nel quale cioè si sono impegnati artisti di nome, quella esposta a Occidente con i murales di autori ignoti è ritenuta di natura 'selvaggia'. Si tratta di un paradosso involontario. E' come se si fossero invertite le parti. A Est, che fino a poco fa era occupato dai ‘barbari’, l'Occidente espone la sua arte con i suoi modi coinvolgenti, le sue linee informali ma dirette a un senso, la bellezza di composizioni ammirevoli per genialità. A Ovest l'Occidente espone la serie B e C, opere dei giovanissimi, che curvano lo spray al momento giusto per disegnare un cerchio quasi perfetto ma poi la direzione deraglia da qualsiasi senso. E' difficile cogliere in quei murales sicure emozioni e significati. Se ci sono, sono rimasti in un cantuccio della testa dell'autore tanto che finisci col pensare che la prima è vera Arte e la seconda è solo Caos. Salvo poi non poter fare a meno di considerare che l'ordine dell'Occidente contiene una quantità incommensurabile di caos, quella che si manifesta nella crisi delle democrazie europee, nella crisi della globalizzazione capitalistica, nella insolvenza criminale del pensiero unico e della sua pratica schiavizzante. Forse i giovani della facciata Ovest sono nel Caos ma forse stanno anche cercando una via d'uscita dal Caos dell'Occidente.

I benpensanti tengono all'ordine creativo della prima facciata. Essa contiene una sicura quantità di razionalità che garantisce, almeno a loro, la sopravvivenza. Se tutti i soggetti politici e culturali si acconciassero a razionalizzare al meglio strutture mentali e pratiche, se si adattassero con 6 professionalità alle necessità pragmatiche del mercato tutti starebbero meglio, dicono e pensano, e in ultima analisi non ci sarebbe più un'Arte di serie B. Non si rendono conto, o non vogliono farlo il che è più verosimile, che svelano in maniera plateale la propria utopia. Tutti quelli che hanno passato gli ultimi decenni a denunciare i mali delle ideologie, che ovviamente provenivano per loro solo da sinistra, dovrebbero avere il coraggio di affermare che quello era solo il modo per mascherare l'utopia del pensiero unico liberale che stava di casa da sempre di qua dal muro. Adattandosi un po’ di più, accettando le ragionevoli regole dell’unico mondo possibile fondato sulla natura, dicono, questo sistema può evitare il Caos, al quale il grosso dell'umanità sembra essere affezionata.

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Abbiamo lasciato il muro dipinto con questo fardello. Il ponte più bello di Berlino, l'Oberbaumbrucke, ci ha accolti sotto le sue arcate in una piccola friggitoria gestita da tre giovani che friggevano patate e cotolette di maiale davanti a noi. Alle pareti tanti manifesti di gruppi rock e jazz. Noi eravamo proprio gli anziani, qualcuno ci ha guardato incuriosito. Tutti e tutte giovanissimi, birretta in mano, nell’altra un teller di patatine fritte, tutte e tutti convinti della propria gioventù e del proprio diritto a godersela,salvando, dentro la precarietà assoluta del presente e la sfiducia nel futuro, il proprio Caos. Per un attimo mi sono sembrati tutti tutte a testa in giù, come Bruno.


martedì 16 febbraio 2021

Una fantasia utopica che scaldava



altoforno


 Una fantasia utopica che scaldava.

Ho spesso immaginato (anche in pagine scritte e lasciate al palo) la sospensione, l'interruzione definitiva di ogni attività produttiva, ho immaginato le colate incandescenti degli altiforni lombardi raffreddarsi lentamente per sempre. Non mi sono mai chiesto come avrebbe fatto il mondo a sopravvivere in quelle nuove condizioni. Davo per scontato che tutto si sarebbe ricomposto in una mutua composizione di capacità in grado di soddisfare nell'immediato bisogni e bisogni, con l'uso di alte tecnologie e saperi diffusi, il tutto a favore di una continua affabulazione della vita tra nobili conversari, pacifiche competizioni, scoperta di risorse. Come diceva tempo fa quel compagno delle pantere nere: se fabbrica deve esserci dieci anni devono bastare, il resto solo è vita. Una fiducia estrema in molteplici soluzioni che sbandivano per sempre produttività esasperata e imperialismo del denaro. Insomma una fantasia utopica che scaldava. Il fatto che l'evento sia accaduto nel modo che subiamo col Covid non scalda per niente la fantasia né l'immaginazione. Non può venirne niente di buono. Al fondo della mia immaginazione c'era il rifiuto del lavoro e la ribellione contro un sistema organizzato atrocemente per la distruzione del mondo. Oggi invece siamo chiamati in massa alla responsabilità collettiva di avere contribuito chi più chi meno al disastro e nulla importa che molti tra noi denuncino il disastro imminente da decenni.

A me sembra che a questo appuntamento i Sapientes siano arrivati stremati. Incapaci di tornare a fare Storia. Il re è nudo ma non fa ridere nessuno. Storditi e con la febbre forse in realtà non c'è più nemmeno voglia di tornare a lavorare, si cercano perlopiù pretesti per ritardare la ‘normale’ competizione per il lavoro. Gli scenari possibili sono talmente tanti che persino l'immaginazione fatica a darne ragione. Ma credo che ci vogliano troppe energie per modificare oggi un intero sistema così complesso e complicato. Chi ne avrà di rimanenti forse riuscirà a ritagliarsi a modo proprio sacche autonome e autodeterminate di lavoro produttivo e riproduttivo apparentemente sciolto da legami cogenti ma in fondo solo piccoli corpi collaterali interni al sistema. Uno scenario insomma da popstapocalisse. Nel frattempo ci sarà il vaccino per questo coronavirus e forse avremo qualche anticorpo attivato per affrontare il prossimo.



mercoledì 3 febbraio 2021

Lucy, reperto A.L. 288-1

Eritrea, la depressione di Afar, Dancalia
 


Lucy, reperto A.L. 288-1                                  (a Adriana)

 
ecco che maneggiare millenni diventa

addirittura possibile, lo scrittore di versi

si sente a casa quando la parola che usa

è senza dubbi la più vicina al senso,

allora la verità non è davvero solo

la somma degli anni, in certi casi rischia

di folgorare, l’attenzione si raddoppia se lo scarto

col presente diviene da secolare millenario,

qualcuno azzarda lemmi poco collaudati se

si tratta di milioni di anni. La vertigine

ora può farsi smarrimento il computo oltremodo

estendendosi di anni, bastano pochi reperti

catalogati e conservati e ti ritrovi compagno

per strade non visibili

per paesaggi che la Storia non raggiunge.

 

 

A volerlo riconoscere il territorio di Lucy

una mappa non basterebbe nemmeno

per le più abili scritture dello spazio,

ma qui è in gioco il multitempo esteso simultaneo

tra qui e allora, il reperto recita A.L.

288-1 tremilioni di anni

o poco più, Lucy nome cantato nei settanta

cammina già eretta ma con le braccia ciondoloni

afferra il ramo, ci vive sicura ci dorme più sicura.

Ecco il paesaggio si aggiusta in presenza e la mappa

si fa trasparente di secoli, giorni, ore.

 

Il muco secreto ora ha quell’odore lì,

anche rami e foglie hanno l’odore grosso, la lingua

salata, l’occhio allucinato. Verranno

in molti, fa senso montare sul ramo più alto

nell’intrico più aggrovigliato arriverà

il più agile e veloce, trapasserà il suo seme

a balzi di secoli e millenni, un mucchietto di enzimi,

di geni trascritti in sequenze speciali.

Quanto ci vuole perché un salto di milioni

di anni riveli il salto evolutivo di un dito

divenuto opponibile capace di spezzare

un ramo e usarlo come bastone?

 

Lucy disarma solo al mattino quando raschia

la terra in cerca di radici, nel giorno affocato

di luce l’intrico più alto dei rami è ancora

rifugio, il chiarore notturno svela libere erbe

alte della savana sonora e senza orizzonti.

L’occhio di Lucy perfora millenni, salda ovunque

le mani al vuoto e al pieno, scende la costa

di altipiani sollevatisi un tempo come spalle

di gigante coi piedi infuocati nel magma,

barriere naturali per un pianoro infinito di erbe

macchie cespugli, l’umido si scioglie, il clima

più secco fa arretrare la foresta. Si fa il territorio

ospitale e Lucy e i suoi simili, a ridosso di strisce

magnetiche nella depressione di Afar, affrontano

la savana e allenano posture erette in difesa.

 

Born to run, come in quegli stessi settanta

cantavano in America, la migrazione iniziò

verso Est, un’espressione di fede non più

solo verso la natura, c’è ormai di mezzo la Storia

la pietra scheggiata il prolungamento degli arti

la manutenzione del fuoco, tutto per una eccedenza

vitale inesauribile che spinge i più verso tutti

i confini del pianeta, lascia indietro solo

chi ha nostalgia e si dedica al restauro dei resti.

 

Quelli rimasti oggi li chiamano Dancali.

La loro figura è snella e i lineamenti

molto fini. Allevano cammelli e vendono

il sale abbondante di antichi laghi costieri

evaporati. Le piccole capanne ricoprono

di rami e stuoie, le fanno annidate intorno

a caverne naturali, nelle regioni costiere

costruiscono ricoveri a forma cilindrica

con pietre sovrapposte a secco.

Qualcuno potrebbe pensare che la natura

voglia imporre le sue ragioni alla Storia,

vulcani e terremoti sono sempre più frequenti

deformano di continuo la depressione di Afar

dove stavano i resti di Lucy.

La roccia vulcanica fragile cede e il pianoro

si abbassa lentamente, silenzioso penetra l’oceano.

L’inabissamento dell’intero territorio è previsto

entro il  millennio.



giovedì 28 gennaio 2021

Dante, padre della poesia, guerriero e militante politico

 


plastico della battaglia di Campaldino (1289)


Mi scrive un caro amico del '68, storico del movimento operaio (al quale mi introdusse): "...Anno di Dante, anno della poesia, promette bene... Mi piacerebbe leggere un tuo commento, un pensiero,  su Dante. Avevo sentito il bisogno di rileggerlo qualche anno fa, mi era parso di ringiovanire, non per ricordi di scuola, ma per un ritorno alle radici della conoscenza. Pre-marxista."

A lui ho risposto: "
Il pensiero bello l'hai già fatto tu, non possiamo che riconoscerci tutti nel viaggio alle radici della conoscenza, a leggere Dante. Poi, siccome, come dice Bachtin, l'autore è quello che diviene nella lettura e interpretazione dei suoi lettori, posso solo aggiungere una considerazione di questo tipo. E cioè che Dante è stato sormontato per secoli dal petrarchismo e che soprattutto Ottocento e in parte il Novecento, nel recuperarlo, hanno finito col tenere separata la sua sorte di uomo da quella del poeta. Il '68 contribuisce un po' a ricomporre. A me interessa in particolare mettere l'accento sulla sua figura di combattente. Partecipe anche rumoroso della dolce vita fiorentina, diventa adulto nel'89 a Campaldino. Fa parte dei 'feditores', la prima linea di cavalieri armati che deve aprire lo scontro. Riesci a immaginarlo sul cavallo bardatissimo e lui stesso in calzamaglia di ferro corazza elmo piumato lancia e spadone che mena fendenti? Da qualche parte, non ricordo dove (ma Alessando Barbero, nella sua recente biografia di Dante ha scritto in merito pagine illuminanti) deve aver nominato la sua spada insanguinata. Guerriero e militante politico, fendenti continua a menarli sul suo presente di papi corrotti e ignobili borghesi che fanno mercato di tutto e rovinano con l'usura i costumi e la morale non solo fiorentini.
Che ne è stato di questa militanza nelle letture successive? Molto poco. Il petrarchismo ha avuto la meglio. Ancora a Novecento inoltrato i nostri premi Nobel, Quasimodo e Montale (meglio tutto sommato ha fatto Deledda da scrittrice di righe) si sono contenuti abbastanza nel riserbo, l'uno - "come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore?" - chiudendosi nel suo ermetismo prezioso, l'altro riservandoci l'assunto del "ciò che non siamo, ciò che non vogliamo" come unico messaggio di resistenza, che comunque, devo ammettere, non era poco.
Qualcosa sta cambiando. Ma animare come fa Dante i versi di scontri, di conflitti, di rivoluzioni scientifiche, di quelle politiche, dello sconvolgimento epocale della globalizzazione, della comparsa di soggettività nuove, insomma del presente come Storia, richiede di inventare linguaggi nuovi, formule nuove di versificazione, uno sguardo diverso. Percorso non breve né facile, con un amico poeta e scrittore abbiamo aperto un blog che si chiama 'diepicanuova' (qui). Lì discutiamo e presentiamo autori che vanno in quella direzione."