martedì 16 ottobre 2018

Dal blog diepicanuova qui ospite un articolo su poesia e musica

Sentiamo affini al nostro interrogarci sull’epica tutti i linguaggi che dicono il mondo reale con la parola semplice. Dico semplice, non la più semplice. Quanto al mondo reale è complesso di suo e quello che mette in mostra spesso è meno importante di quello che nasconde. Se poi si mettono in tensione parola e musica, come fa Umberto Fiori in questo articolo, lui che di buona poesia e buona musica s’intende, ne viene fuori quasi un beneficio. Del resto la metrica dà ritmo musicale al verso ma deve anche esserci una corrispondenza tra ‘tono’ e senso. Se questo avviene, dice Fiori, come nel lavoro di un paroliere come Umberto Simonetta, autore di testi per canzoni, allora siamo fuori da banalità, semplificazioni, artigianato spicciolo. Il problema nel suo caso, continua Fiori, non era solo “…quello di creare dei testi “alternativi” ai modi della canzonetta: si trattava di trovare un punto d’incontro fra testo e musica. Per farlo, non basta che il testo di partenza sia di buona qualità: occorre una solida sintonia tra paroliere e musicista”, tra quanto la musica vuole che la parola dica e quanto la parola vuole che la musica comunichi. Così come il poeta s’impegna nel creare corrispondenza tra parola e verso, tra il suono dei significanti e il ‘tono’ del significato. (P.R.)



Umberto Simonetta: un paroliere di lusso
di Umberto Fiori

Parlando con un amico, faccio il nome di Umberto Simonetta. Dallo sguardo, capisco che non gli dice molto. “Sai chi è, no? Lo scrittore, quello di Tirar mattina, Lo sbarbato, Il giovane normale…”. Niente. “Ma la ballata del Cerutti Gino la conoscerai…” “Eh! Certo! Giorgio Gaber!” “La musica è di Gaber, ma le parole sono di Simonetta. Come anche quelle di Una fetta di limone, Trani a gogò, Porta romana, Le nostre serate, Il Riccardo…”. Le accenno una dopo l’altra. “Belle! Pensavo fossero di Gaber…” “Te l’ho detto: musica di Gaber, testo di Simonetta” “Ah però, bravissimo! Mica male!”.

Oltre che scrittore e autore teatrale di successo, Umberto Simonetta (Milano, 1926-1998) è stato un paroliere tra i più originali e innovativi dell’epoca in cui nasceva in Italia quella che si sarebbe poi chiamata canzone “d’autore”.



Tra gli anni ’50 e i ’60 del secolo scorso diversi poeti e scrittori, da Calvino a Fortini a Pasolini e altri, si misuravano con la canzone (allora canzonetta). L’intento era quello di dar vita a un prodotto popolare “di qualità”, da contrapporre ai prodotti di consumo (o “di evasione”, come si diceva in quegli anni). Nel caso di Calvino e Fortini, la proposta veniva dal gruppo torinese di Cantacronache; Pasolini, invece, si improvvisò paroliere su invito della sua amica Laura Betti. Le strategie in vista di una riqualificazione della canzone erano differenti da un autore all’altro, naturalmente, ma una cosa avevano in comune: il tentativo di far riaffiorare, nei testi, quel mondo “reale” che nella canzonetta veniva rimosso, o avvolto nel marzapane di una poeticità di maniera. L’esperimento purtroppo durò poco e non ebbe seguito: messi alla prova come parolieri, gli scrittori italiani faticavano a adattare la loro scrittura alle esigenze della parola cantata. I loro testi -nati sulla pagina- messi in musica rivelavano una ruvidezza letteraria che a tratti era quasi più stridente di quella della pseudopoesia canzonettistica.



Nelle canzoni di Calvino (penso a Canzone triste, Oltre il ponte, Dove vola l’avvoltoio) la versificazione stentava a star dietro al metro musicale; in quelle di Fortini (anche la bellissima Quella cosa in Lombardia, musica di Fiorenzo Carpi) si incontravano frasi come “vanno a coppie i nostri simili quest’oggi”, che nessun parlante italiano avrebbe mai pronunciato in quella famosa realtà che doveva essere il punto d’arrivo della canzone “riformata”.

Nemmeno questi generosi tentativi riuscivano a eliminare l’effetto di innaturalezza che – in una pagina de Il giovane normale di Umberto Simonetta (1967) – l’intellettuale Nelson riscontra nella canzonetta cantata dal protagonista, Giordano:



Tic tic tic,

nell’auto c’è un tic tic tic.

Che cosa sarà?

L’accensione?

La frizione?

Il cassetto?

Lo specchietto?

(…)

O che ira ti dà

questo tic che prosegue insolente…



“Tutte quelle parole in un italiano vecchio, scolastico…” – sghignazza Nelson. Sono sicurissimo che tu Giordano non dici mai, per dire che sei incazzato: o che ira mi dà…”



Nei testi scritti da Pasolini per Laura Betti, la letterarietà della canzonetta (di cui nemmeno la canzone “d’autore” riusciva a liberarsi) viene decisamente travolta: nel testo di Macrì Teresa detta Pazzia, l’uso del romanesco produce un effetto bruciante di realtà, di genuinità. Purtroppo, la musica (il jazz di Piero Umiliani) annulla e anzi distorce questo effetto, dando alla canzone un imbarazzante sapore da telefilm americano. Il problema, insomma, non è solo quello di creare dei testi “alternativi” ai modi della canzonetta: si tratta di trovare un punto d’incontro fra testo e musica. Per farlo, non basta che il testo di partenza sia di buona qualità: occorre una solida sintonia tra paroliere e musicista, che può nascere solo da una lunga collaborazione. I poeti e gli scrittori italiani che in quegli anni accettano di misurarsi con la canzone si limitano a fornire i loro versi al compositore, senza che tra autore della musica e autore del testo ci sia un vero confronto.

Nelle canzoni che Simonetta scrive per Gaber, invece, non si avverte nessun contrasto tra musica e parole. Simonetta è tutt’altro che un paroliere mestierante: è uno scrittore, un letterato, un intellettuale; ma riesce – senza sforzi apparenti – a evitare quegli effetti di legnosa letterarietà che gravano tanto sulla canzonetta quanto sulla canzone “d’autore”.



Per capire la qualità del suo lavoro, è utile confrontare il testo di una delle prime canzoni scritte per “I due corsari” (Gaber e Jannacci), Una fetta di limone (1959), con quelli di due pezzi dello stesso periodo, Geneviève, di Gaber, e Ciao ti dirò, di Gaber Tenco e Reverberi. Ecco qualche verso di Geneviève (1959): “Quando tu/eri ancor/l’amor/Geneviève/solo allor/ la mia vita/ ignorava il dolor”. Ed ecco un saggio di Ciao ti dirò (1958): “Giurami che tu/ ami solo me/ pupa non scherzar/ voglio il tuo amore solo per me/ se no ciao ti dirò/ pupa ciao ti dirò…”. Infine, leggiamo qualche verso da Una fetta di limone, di Simonetta:



Non voglio cento sacchi

né il grano per gli intappi,

né i regalini a mucchi.

Sei ricca ma sei racchia,

per me sei troppo vecchia,

per questo non mi cucchi.

Dimmi che vuoi da me.



In Geneviève ritroviamo gli amor, i dolor, gli allor della canzonetta;  Ciao ti dirò si dà arie più “moderne” (la musica è un rock), ma il suo linguaggio, che vorrebbe essere aggiornato e “giovanile”, non ha mai circolato fra i ragazzi dell’epoca: “pupa” è un termine che solo in qualche film di gangster poteva trovare spazio. Ben più credibile è il gergo con cui Simonetta gioca nei suoi settenari martellanti, inventando la contro-serenata di un ragazzotto a una “tardona”: grano, intappi, racchia, cuccare… Una fetta di limone è un crepitare leggero di rime, assonanze, allitterazioni, uno scherzo (un po’ nello spirito del rock di Boris Vian), ma le sue radici affondano nella realtà della Milano di quegli anni, la stessa descritta vivissimamente nei romanzi dell’autore.



La strategia di Simonetta, come quella degli scrittori e dei poeti suoi contemporanei che si misurano con la canzone, è quella di contrapporre la cruda realtà quotidiana alle melensaggini della canzonetta. Ma mentre nelle canzoni di Calvino, Fortini, Pasolini, la realtà si presenta nei suoi aspetti più seri, la “contro-canzonetta” del paroliere di Gaber ha una speciale predilezione per la banalità più grigia, per il terra-terra. Così, il termine whisky a-go-go, in voga in quegli anni per definire i locali notturni alla moda, diventa Trani a gogò (trani si chiamavano le osterie più squallide della Milano di allora):



C’è un vecchio barista

dall’aria un po’ triste

che si gratta in testa

poi serve un caffè

e un toast a me,

nel trani a gogò.



Ci son quattro dischi,

due tanghi una polka,

un’antica mazurka,

due mosci fox-trot,

e il twist non c’è,

nel trani a gogò.



Quello che caratterizza i primi testi di Simonetta per Gaber è innanzitutto che non si parla d’amore, com’era quasi d’obbligo nella canzonetta di quegli anni. D’altra parte, ciò che li differenzia dalle canzoni “d’autore” degli stessi anni è che non si fa nemmeno denuncia sociale. La realtà non viene sottoposta a uno sguardo critico, dall’alto: viene osservata da dentro, con un sorriso malinconico e sottilmente complice (in Trani a gogò, a parlare è uno degli avventori).



Anche nel suo testo forse più famoso, La ballata del Cerutti (1961), Simonetta gioca al ribasso. La canzone – come risulta fin dal parlato iniziale – è una parodia delle ballate folk americane allora in voga in Italia (Tom Dooley del Kingston Trio, La ballata di Davy Crockett, evocate nell’arrangiamento dal banjo), ma anche – senza dichiararlo – delle “canzoni della mala” lanciate da Ornella Vanoni e altri in quegli anni. Il nostro eroe non vive in Oklahoma ma al Giambellino, periferia di Milano e, prima che col suo titolo da bulletto (“Drago”), viene presentato molto prosaicamente col cognome e nome, Cerutti Gino.



Il suo nome era

Cerutti Gino,

ma lo chiamavan Drago.

Gli amici, al bar del Giambellino,

dicevan ch’era un mago.



Come in altre sue canzoni e nei suoi romanzi, anche qui Simonetta utilizza un linguaggio molto vicino al parlato, con sprazzi di gergo. E qui apro una piccola parentesi “filologica”. Nelle versioni in circolazione, la strofa che racconta l’arresto del Gino dopo il tentato furto della Lambretta recita così:



Ma che rogna nera quella sera,

qualcuno vede e chiama.

Veloce arriva la pantera,

e lo vede la madama.



Nella versione che ho in testa io, l’ultimo verso dice “se lo beve la madama”. La madama, naturalmente, è la polizia, e il verbo bere (utilizzato in questo senso anche in Tirar mattina: “Si sono bevuti il Berti”) significa, in gergo, arrestare. La mia versione “a orecchio” mi sembra corroborata anche dal fatto che nella strofa in circolazione il verbo vedere viene ripetuto due volte (“qualcuno vede… e lo vede…”), con un effetto di sciatteria stilistica, ma soprattutto dal senso dell’evento descritto: la madama non si limita a “vedere” il Gino (e poi andarsene, magari), ma lo arresta, come si apprende nelle strofe seguenti. All’autore non si può chiedere più nulla, purtroppo, e in mancanza di alternative il testo ufficiale rimane com’è. Pazienza. Chiusa la parentesi.



La ballata del Cerutti non è solo una parodia: anche qui, come in Trani a gogò, a prevalere sulle punte del comico è un sorriso benevolo che “salva” il Gino prendendo bonariamente in giro lui e il suo ambiente. L’umorismo di Simonetta non è mai moralistico, aggressivo: nella sua vena c’è sempre una malinconia di fondo, che emerge pienamente in canzoni come Porta Romana (1963) o Le nostre serate(1963):



Molti mi dicono

“Sei fortunato

tu che hai trovato

un lavoro sicuro,

bello, tranquillo,

interessante

e che ti rende

decentemente”.



Io penso alle nostre serate

stupide e vuote.

“Ti passo a prendere?

Cosa facciamo?

Che film vediamo?

No, l’ho già visto.

Tutto previsto.



Quello che colpisce, in canzoni come questa, non è solo l’originalità e la delicatezza nello svolgimento del tema d’amore, ma anche l’eleganza metrica. Simonetta paroliere riesce a scrivere – grazie anche alla sensibilità musicale di Gaber – un’intera canzone senza nemmeno una tronca, un amor, un dolor. I suoi versi scorrono con la naturalezza del parlato, con un effetto di genuinità, di grazia (non esibita), che a distanza di tanti anni continua a emozionarci.



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