sabato 17 novembre 2018

Questionario di poesia di Mario Fresa (N° 62 Paolo Rabissi)

Mario Fresa

Questionario di poesia

(62)

Paolo Rabissi

 
Albert Ohelen, Ziggy Stargast (2001)





Qual è il segreto progetto a cui tende la tua scrittura?

Non è più segreto da qualche anno in qua, da quando ho definitivamente portato a coscienza che il mio scrivere versi  (pre)tende a qualcosa che assomiglia alla poesia epica. In realtà era già matura negli anni settanta. Un mio poemetto dattiloscritto girava nel movimento a Milano e aveva una sua identità epico-lirica che un po’ ingenuamente ritenevo potesse vivere solo in quella dimensione di movimento antagonista, quando questo si è disperso in mille rivoli su percorsi che non condividevo ho smesso di scrivere per riprendere solo vent’anni dopo. Oggi (nei ‘miei’ anni settanta)  recupero il progetto perché è la modalità di scrivere che sento mia e perché le origini e i contenuti stessi di quei movimenti degli anni sessanta e settanta offrono un materiale inesauribile alla memoria. Necessariamente ciò mi impone anche lo  sforzo critico di chiarire cosa intendo per poesia epica, in che modo può essere attuale (qualche recente tentativo non è stato in grado di attivarla davvero), in cosa può paragonarsi all’epica tradizionale e in cosa se ne deve per forza differenziare. Da un paio d’anni ho aperto un blog con Franco Romanò, in esso affrontiamo appunto questi problemi: www.diepicanuova.blogspot.it


Come nasce, in te, una poesia?

Ascolto e registro emozioni e riflessioni. Poi arriva il momento della parola scritta.
Non amo giocare con le parole, tendo a semplificare il più possibile il mio linguaggio tuttavia il suo comporsi slitta su modi suoi di cui non governo la fonte ma che mi attrae con assoluta necessità: in quel momento – che magari succede solo in un verso – avverto che l’emozione iniziale si è perfettamente fusa con la riflessione che l’accompagna. Un verso può portare solo carico emotivo e un altro solo il mandato del presente o della memoria ma insieme prima o poi devono fare corona a un verso in cui carico emotivo e mandato narrativo precipitano in una dimensione unitaria originale che in qualche modo li trascende.


Un poeta parla di ciò che realmente vive o di ciò che vorrebbe ricevere, e che sempre gli sfugge?

Credo che il poeta non faccia che parlare di ciò che realmente vive, lo fa anche se scrive di Orfeo e Euridice, dal suo linguaggio si può sempre risalire a lui stesso e al suo presente ma è vero anche che dice come diversamente le cose potevano andare . Quello è il momento dei propri sogni e delle proprie visioni , delle realtà fantasmatiche, delle utopie domestiche e/o universali che lui racconta anzitutto a se stesso ma che restano sempre in attesa di un riconoscimento universale e infinito.



A quale gioco della tua infanzia vorresti paragonare la tua poesia?
Ho scritto recentemente un capitolo della mia infanzia in un lavoro lungo e complesso che non so quando finirà, nel capitolo descrivo il tipo di ‘gioco’ che maggiormente interessava la piccola banda di cui ero parte, io triestino sfollato nel dopoguerra da Trieste in un paesino vicino a Bari:
"Quando le ore di libertà scattavano per tutti insieme allora la lotta era l’obiettivo più frequente. Il corpo a corpo era il metodo più sicuro per capire di che pasta eravamo fatti, era un modo apparentemente neutro per misurarci ma stabiliva gerarchie e leadership. Alto e magro com’ero, oltre ad essere straniero, attiravo attenzione più di quanto i locali fossero disposti ad accettare, per cui in un modo o nell’altro dovetti imparare alla svelta a menare le mani. Ero abbastanza forte e mi succedeva di vincere qualche combattimento con il leader riconosciuto del momento, solo che del ruolo di capobanda non sapevo proprio cosa fare e me ne sottraevo ottenendo consensi. Il teatro più importante per i nostri corpo a corpo era La Rotonda. Uno stabilimento balneare che d’inverno era chiuso ma che noi espugnavamo facilmente. Sull’ampia terrazza conquistata era il momento. Battevano le tempie, qualche labbro sanguinava, un ginocchio. L’afrore del sudore, l’insistenza del ventre a schiacciare quello avversario. Gli assalti tra noi si ripetevano all’infinito finché cadevamo sfiniti, allora intonavamo qualche nenia di vittoria perché eravamo tutti vittoriosi.
Eros governava felicemente le ore, la sospensione del tempo, il godimento dell’energia dei muscoli di braccia e gambe, la destrezza dello sguardo per anticipare la mossa, l’uso addestrato del gomito per spingere, del grugnito per spaventare. Nessuno colpiva mai i genitali. Qualcuno ogni tanto orinava nel mare sottostante e poi si ributtava nella mischia. Se i miei compagni di lotta avevano, come è verosimile, erezioni durante gli scontri alla Rotonda non lo so, io non ricordo di averne avuti né di averli notati negli altri ma non ero addestrato fin lì ad averne consapevolezza. Che quei corpo a corpo fossero un esorcismo inconsapevole contro l’omosessualità o un esercizio per misurarla non so, ricordo che stavo bene in quelle occasioni, godevamo tutti di una dura tenerezza non sentimentale calda di sudore. Ma subliminalmente c’era dell’altro. E’ indubbio che alla fine della giornata una gerarchia tra i più e i meno forti si era resa automaticamente visibile e più stabile".
Insomma un paragone improponibile. Impossibile trovare una Rotonda dove misurarsi a colpi di versi all’infinito fino a cadere sfiniti tutti vittoriosi (!).  Più verososimile semmai pensare a quella che Leopardi chiamava ‘società stretta’ e che lui auspicava  a Bologna quando faceva il direttore di una delle collane dell’editore Stella di Milano. Partecipò alle riunioni di una sorta di concilio di poeti, vi lesse un poemetto (quello dedicato a Pepoli) che fu accolto gelidamente e così lui poi se ne scappò via. Ma in qualche modo ci credeva a un consesso di uomini e donne, letterati e scienziati che stringessero un sodalizio per godere di arti e scienze.


Che cosa ti ha insegnato la frequentazione della scrittura poetica?

Che apre una strada diversa al riconoscimento di sé e che la poesia è anche, soprattutto per me, memoria e Storia. Il mio amore per la poesia e quello per la Storia (ho avuto formazione universitaria di storico anche se sono rimato solo un insegnante di storia) negli ultimi lustri hanno trovato modo finalmente di intrecciarsi. Fino ad allora i miei versi calcavano e/o inseguivano i canoni novecenteschi. Da quando ho deciso di pubblicare (all’età di sessanta anni) ho fatto velocemente i conti con me stesso. Già le mie prime pubblicazioni avevano una dimensione epico-lirica legata alla memoria del quotidiano e quindi più individuale (così in Città altaLa ruggine, il sale e I contorni delle cose). Poi con La solitudine di Schenk (che fa parte del poemetto Inverno a Coloniaancora da pubblicare) ho definitivamente scoperto che storia e poesia potevano stare insieme. Da allora mi sento finalmente a casa.


Qual è il grado di finzione e di mascheramento di un poeta?

Credo che sia il critico ad avere questo compito, quello di rilevare dove e quanto il poeta finge e si maschera, se questa operazione è consapevole o meno, se essa è necessaria, se ha come esito la riuscita poetica. Dante e Petrarca fingono, assumono maschere e sia per l’uno che per l’altro era operazione consapevole. Ma le loro finzioni e maschere hanno solo contribuito al capolavoro non sono il capolavoro, il quale invece si sostanzia di linguaggio, stile e contenuti. Credo che ogni poeta debba tenere d’occhio costantemente il proprio grado di finzione, credo che lo debba  fare perché non occorre essere un lettore particolarmente smagato per rendersi conto se lui sta imbrogliando le carte e quanto doveva essere solo un mezzo è divenuto un fine. Ho conosciuto sedicenti poeti del genere che le carte le imbrogliano, perlopiù sono condannati alla mediocrità anche se sanno sedurre e conquistare, soprattutto perché sanno dire bene il non senso. Non sempre il lettore è abbastanza smagato per prenderne le distanze, qui appunto il lavoro del critico libero – difficile – dovrebbe avere ascolto. Anche se penso che ormai si è affermata la necessità che ogni scrittore di versi sia anche portatore di un proprio discorso critico.

Vorresti citare un poeta da ricordare e da rivalutare?

Ugo Foscolo  
(e magari anche Carducci)


Qual è il dono che augureresti a un poeta, oggi?

Che riesca con i suoi versi a farsi testimone efficace del suo tempo. Nell’era della diffusione globale dei mezzi di comunicazione e della loro decadenza, nell’era della guerra civile mondiale, la poesia può divenire fonte non compromessa di storia, di umanità e di postumanità, di scienza, di informazione stessa.


Puoi citare un verso che ti è particolarmente caro?


Carla Dondi fu Ambrogio di anni
diciassette primo impiego stenodattilo
all'ombra del Duomo.

E.Pagliarani, La ragazza Carla

martedì 16 ottobre 2018

Dal blog diepicanuova qui ospite un articolo su poesia e musica

Sentiamo affini al nostro interrogarci sull’epica tutti i linguaggi che dicono il mondo reale con la parola semplice. Dico semplice, non la più semplice. Quanto al mondo reale è complesso di suo e quello che mette in mostra spesso è meno importante di quello che nasconde. Se poi si mettono in tensione parola e musica, come fa Umberto Fiori in questo articolo, lui che di buona poesia e buona musica s’intende, ne viene fuori quasi un beneficio. Del resto la metrica dà ritmo musicale al verso ma deve anche esserci una corrispondenza tra ‘tono’ e senso. Se questo avviene, dice Fiori, come nel lavoro di un paroliere come Umberto Simonetta, autore di testi per canzoni, allora siamo fuori da banalità, semplificazioni, artigianato spicciolo. Il problema nel suo caso, continua Fiori, non era solo “…quello di creare dei testi “alternativi” ai modi della canzonetta: si trattava di trovare un punto d’incontro fra testo e musica. Per farlo, non basta che il testo di partenza sia di buona qualità: occorre una solida sintonia tra paroliere e musicista”, tra quanto la musica vuole che la parola dica e quanto la parola vuole che la musica comunichi. Così come il poeta s’impegna nel creare corrispondenza tra parola e verso, tra il suono dei significanti e il ‘tono’ del significato. (P.R.)



Umberto Simonetta: un paroliere di lusso
di Umberto Fiori

Parlando con un amico, faccio il nome di Umberto Simonetta. Dallo sguardo, capisco che non gli dice molto. “Sai chi è, no? Lo scrittore, quello di Tirar mattina, Lo sbarbato, Il giovane normale…”. Niente. “Ma la ballata del Cerutti Gino la conoscerai…” “Eh! Certo! Giorgio Gaber!” “La musica è di Gaber, ma le parole sono di Simonetta. Come anche quelle di Una fetta di limone, Trani a gogò, Porta romana, Le nostre serate, Il Riccardo…”. Le accenno una dopo l’altra. “Belle! Pensavo fossero di Gaber…” “Te l’ho detto: musica di Gaber, testo di Simonetta” “Ah però, bravissimo! Mica male!”.

Oltre che scrittore e autore teatrale di successo, Umberto Simonetta (Milano, 1926-1998) è stato un paroliere tra i più originali e innovativi dell’epoca in cui nasceva in Italia quella che si sarebbe poi chiamata canzone “d’autore”.



Tra gli anni ’50 e i ’60 del secolo scorso diversi poeti e scrittori, da Calvino a Fortini a Pasolini e altri, si misuravano con la canzone (allora canzonetta). L’intento era quello di dar vita a un prodotto popolare “di qualità”, da contrapporre ai prodotti di consumo (o “di evasione”, come si diceva in quegli anni). Nel caso di Calvino e Fortini, la proposta veniva dal gruppo torinese di Cantacronache; Pasolini, invece, si improvvisò paroliere su invito della sua amica Laura Betti. Le strategie in vista di una riqualificazione della canzone erano differenti da un autore all’altro, naturalmente, ma una cosa avevano in comune: il tentativo di far riaffiorare, nei testi, quel mondo “reale” che nella canzonetta veniva rimosso, o avvolto nel marzapane di una poeticità di maniera. L’esperimento purtroppo durò poco e non ebbe seguito: messi alla prova come parolieri, gli scrittori italiani faticavano a adattare la loro scrittura alle esigenze della parola cantata. I loro testi -nati sulla pagina- messi in musica rivelavano una ruvidezza letteraria che a tratti era quasi più stridente di quella della pseudopoesia canzonettistica.



Nelle canzoni di Calvino (penso a Canzone triste, Oltre il ponte, Dove vola l’avvoltoio) la versificazione stentava a star dietro al metro musicale; in quelle di Fortini (anche la bellissima Quella cosa in Lombardia, musica di Fiorenzo Carpi) si incontravano frasi come “vanno a coppie i nostri simili quest’oggi”, che nessun parlante italiano avrebbe mai pronunciato in quella famosa realtà che doveva essere il punto d’arrivo della canzone “riformata”.

Nemmeno questi generosi tentativi riuscivano a eliminare l’effetto di innaturalezza che – in una pagina de Il giovane normale di Umberto Simonetta (1967) – l’intellettuale Nelson riscontra nella canzonetta cantata dal protagonista, Giordano:



Tic tic tic,

nell’auto c’è un tic tic tic.

Che cosa sarà?

L’accensione?

La frizione?

Il cassetto?

Lo specchietto?

(…)

O che ira ti dà

questo tic che prosegue insolente…



“Tutte quelle parole in un italiano vecchio, scolastico…” – sghignazza Nelson. Sono sicurissimo che tu Giordano non dici mai, per dire che sei incazzato: o che ira mi dà…”



Nei testi scritti da Pasolini per Laura Betti, la letterarietà della canzonetta (di cui nemmeno la canzone “d’autore” riusciva a liberarsi) viene decisamente travolta: nel testo di Macrì Teresa detta Pazzia, l’uso del romanesco produce un effetto bruciante di realtà, di genuinità. Purtroppo, la musica (il jazz di Piero Umiliani) annulla e anzi distorce questo effetto, dando alla canzone un imbarazzante sapore da telefilm americano. Il problema, insomma, non è solo quello di creare dei testi “alternativi” ai modi della canzonetta: si tratta di trovare un punto d’incontro fra testo e musica. Per farlo, non basta che il testo di partenza sia di buona qualità: occorre una solida sintonia tra paroliere e musicista, che può nascere solo da una lunga collaborazione. I poeti e gli scrittori italiani che in quegli anni accettano di misurarsi con la canzone si limitano a fornire i loro versi al compositore, senza che tra autore della musica e autore del testo ci sia un vero confronto.

Nelle canzoni che Simonetta scrive per Gaber, invece, non si avverte nessun contrasto tra musica e parole. Simonetta è tutt’altro che un paroliere mestierante: è uno scrittore, un letterato, un intellettuale; ma riesce – senza sforzi apparenti – a evitare quegli effetti di legnosa letterarietà che gravano tanto sulla canzonetta quanto sulla canzone “d’autore”.



Per capire la qualità del suo lavoro, è utile confrontare il testo di una delle prime canzoni scritte per “I due corsari” (Gaber e Jannacci), Una fetta di limone (1959), con quelli di due pezzi dello stesso periodo, Geneviève, di Gaber, e Ciao ti dirò, di Gaber Tenco e Reverberi. Ecco qualche verso di Geneviève (1959): “Quando tu/eri ancor/l’amor/Geneviève/solo allor/ la mia vita/ ignorava il dolor”. Ed ecco un saggio di Ciao ti dirò (1958): “Giurami che tu/ ami solo me/ pupa non scherzar/ voglio il tuo amore solo per me/ se no ciao ti dirò/ pupa ciao ti dirò…”. Infine, leggiamo qualche verso da Una fetta di limone, di Simonetta:



Non voglio cento sacchi

né il grano per gli intappi,

né i regalini a mucchi.

Sei ricca ma sei racchia,

per me sei troppo vecchia,

per questo non mi cucchi.

Dimmi che vuoi da me.



In Geneviève ritroviamo gli amor, i dolor, gli allor della canzonetta;  Ciao ti dirò si dà arie più “moderne” (la musica è un rock), ma il suo linguaggio, che vorrebbe essere aggiornato e “giovanile”, non ha mai circolato fra i ragazzi dell’epoca: “pupa” è un termine che solo in qualche film di gangster poteva trovare spazio. Ben più credibile è il gergo con cui Simonetta gioca nei suoi settenari martellanti, inventando la contro-serenata di un ragazzotto a una “tardona”: grano, intappi, racchia, cuccare… Una fetta di limone è un crepitare leggero di rime, assonanze, allitterazioni, uno scherzo (un po’ nello spirito del rock di Boris Vian), ma le sue radici affondano nella realtà della Milano di quegli anni, la stessa descritta vivissimamente nei romanzi dell’autore.



La strategia di Simonetta, come quella degli scrittori e dei poeti suoi contemporanei che si misurano con la canzone, è quella di contrapporre la cruda realtà quotidiana alle melensaggini della canzonetta. Ma mentre nelle canzoni di Calvino, Fortini, Pasolini, la realtà si presenta nei suoi aspetti più seri, la “contro-canzonetta” del paroliere di Gaber ha una speciale predilezione per la banalità più grigia, per il terra-terra. Così, il termine whisky a-go-go, in voga in quegli anni per definire i locali notturni alla moda, diventa Trani a gogò (trani si chiamavano le osterie più squallide della Milano di allora):



C’è un vecchio barista

dall’aria un po’ triste

che si gratta in testa

poi serve un caffè

e un toast a me,

nel trani a gogò.



Ci son quattro dischi,

due tanghi una polka,

un’antica mazurka,

due mosci fox-trot,

e il twist non c’è,

nel trani a gogò.



Quello che caratterizza i primi testi di Simonetta per Gaber è innanzitutto che non si parla d’amore, com’era quasi d’obbligo nella canzonetta di quegli anni. D’altra parte, ciò che li differenzia dalle canzoni “d’autore” degli stessi anni è che non si fa nemmeno denuncia sociale. La realtà non viene sottoposta a uno sguardo critico, dall’alto: viene osservata da dentro, con un sorriso malinconico e sottilmente complice (in Trani a gogò, a parlare è uno degli avventori).



Anche nel suo testo forse più famoso, La ballata del Cerutti (1961), Simonetta gioca al ribasso. La canzone – come risulta fin dal parlato iniziale – è una parodia delle ballate folk americane allora in voga in Italia (Tom Dooley del Kingston Trio, La ballata di Davy Crockett, evocate nell’arrangiamento dal banjo), ma anche – senza dichiararlo – delle “canzoni della mala” lanciate da Ornella Vanoni e altri in quegli anni. Il nostro eroe non vive in Oklahoma ma al Giambellino, periferia di Milano e, prima che col suo titolo da bulletto (“Drago”), viene presentato molto prosaicamente col cognome e nome, Cerutti Gino.



Il suo nome era

Cerutti Gino,

ma lo chiamavan Drago.

Gli amici, al bar del Giambellino,

dicevan ch’era un mago.



Come in altre sue canzoni e nei suoi romanzi, anche qui Simonetta utilizza un linguaggio molto vicino al parlato, con sprazzi di gergo. E qui apro una piccola parentesi “filologica”. Nelle versioni in circolazione, la strofa che racconta l’arresto del Gino dopo il tentato furto della Lambretta recita così:



Ma che rogna nera quella sera,

qualcuno vede e chiama.

Veloce arriva la pantera,

e lo vede la madama.



Nella versione che ho in testa io, l’ultimo verso dice “se lo beve la madama”. La madama, naturalmente, è la polizia, e il verbo bere (utilizzato in questo senso anche in Tirar mattina: “Si sono bevuti il Berti”) significa, in gergo, arrestare. La mia versione “a orecchio” mi sembra corroborata anche dal fatto che nella strofa in circolazione il verbo vedere viene ripetuto due volte (“qualcuno vede… e lo vede…”), con un effetto di sciatteria stilistica, ma soprattutto dal senso dell’evento descritto: la madama non si limita a “vedere” il Gino (e poi andarsene, magari), ma lo arresta, come si apprende nelle strofe seguenti. All’autore non si può chiedere più nulla, purtroppo, e in mancanza di alternative il testo ufficiale rimane com’è. Pazienza. Chiusa la parentesi.



La ballata del Cerutti non è solo una parodia: anche qui, come in Trani a gogò, a prevalere sulle punte del comico è un sorriso benevolo che “salva” il Gino prendendo bonariamente in giro lui e il suo ambiente. L’umorismo di Simonetta non è mai moralistico, aggressivo: nella sua vena c’è sempre una malinconia di fondo, che emerge pienamente in canzoni come Porta Romana (1963) o Le nostre serate(1963):



Molti mi dicono

“Sei fortunato

tu che hai trovato

un lavoro sicuro,

bello, tranquillo,

interessante

e che ti rende

decentemente”.



Io penso alle nostre serate

stupide e vuote.

“Ti passo a prendere?

Cosa facciamo?

Che film vediamo?

No, l’ho già visto.

Tutto previsto.



Quello che colpisce, in canzoni come questa, non è solo l’originalità e la delicatezza nello svolgimento del tema d’amore, ma anche l’eleganza metrica. Simonetta paroliere riesce a scrivere – grazie anche alla sensibilità musicale di Gaber – un’intera canzone senza nemmeno una tronca, un amor, un dolor. I suoi versi scorrono con la naturalezza del parlato, con un effetto di genuinità, di grazia (non esibita), che a distanza di tanti anni continua a emozionarci.



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giovedì 16 agosto 2018

Giorgio Caproni per Genova

Litania
Genova mia città intera.
Geranio. Polveriera.
Genova di ferro e aria,
mia lavagna, arenaria.
Genova città pulita.

Brezza e luce in salita.
Genova verticale,
vertigine, aria scale.
Genova nera e bianca.
Cacumine. Distanza.
Genova dove non vivo,
mio nome, sostantivo.
Genova mio rimario.
Puerizia. Sillabario.
Genova mia tradita,
rimorso di tutta la vita.
Genova in comitiva.
Giubilo. Anima viva.
Genova in solitudine,
straducole, ebrietudine.
Genova di limone.
Di specchio. Di cannone.
Genova da intravedere,
mattoni, ghiaia, scogliere.
Genova grigia e celeste.
Ragazze. Bottiglie. Ceste.
Genova di tufo e sole,
rincorse, sassaiole.
Genova tutta tetto.
Macerie. Castelletto.
Genova d’aerei fatti,
Albaro, Borgoratti.
Genova che mi struggi.
Intestini. Caruggi.
Genova e così sia,
mare in un’osteria.
Genova illividita.
Inverno nelle dita.
Genova mercantile,
industriale, civile.
Genova d’uomini destri.
Ansaldo. San Giorgio. Sestri.
Genova in banchina,
transatlantico, trina.
Genova tutta cantiere.
Bisagno. Belvedere.
Genova di canarino,
persiana verde, zecchino.
Genova di torri bianche.
Di lucri. Di palanche.
Genova in salamoia,
acqua morta di noia.
Genova di mala voce.
Mia delizia. Mia croce.
Genova d’Oregina,
lamiera, vento, brina.
Genova nome barbaro.
Campana. Montale, Sbarbaro.
Genova dei casamenti
lunghi, miei tormenti.
Genova di sentina.
Di lavatoio. Latrina.
Genova di petroliera,
struggimento, scogliera.
Genova di tramontana.
Di tanfo. Sottana.
Genova d’acquamarina,
area, turchina.
Genova di luci ladre.
Figlioli. Padre. Madre.
Genova vecchia e ragazza,
pazzia, vaso, terrazza.
Genova di Soziglia.
Cunicolo. Pollame. Trilia.
Genova d’aglio e di rose,
di Pré, di Fontane Masrose.
Genova di Caricamento.
Di Voltri. Di sgomento.
Genova dell’Acquasola,
dolcissima, usignuola.
Genova tutta colore.
Bandiera. Rimorchiatore.
Genova viva e diletta,
salino, orto, spalletta.
Genova di Barile.
Cattolica. Acqua d’Aprile.
Genova comunista,
bocciofila, tempista.
Genova di Corso Oddone.
Mareggiata. Spintone.
Genova di piovasco,
follia, Paganini, Magnasco.
Genova che non mi lascia.
Mia fidanzata. Bagascia.
Genova ch’è tutto dire,
sospiro da non finire.
Genova quarta corda.
Sirena che non si scorda.
Genova d’ascensore,
paterna, stretta al cuore.
Genova mio pettorale.
Mio falsetto. Crinale.
Genova illuminata,
notturna, umida, alzata.
Genova di mio fratello.
Cattedrale. Bordello.
Genova di violino,
di topo, di casino.
Genova di mia sorella.
Sospiro. Maris Stella.
Genova portuale,
cinese, gutturale.
Genova di Sottoripa.
Emporio. Sesso. Stipa.
Genova di Porta Soprana,
d’angelo e di puttana.
Genova di coltello.
Di pesce. Di mantello.
Genova di lampione
a gas, costernazione.
Genova di Raibetta.
Di Gatta Mora. Infetta.
Genova della Strega,
strapiombo che i denti allega.
Genova che non si dice.
Di barche. Di vernice.
Genova balneare,
d’urti da non scordare.
Genova di “Paolo & Lele”.
Di scogli. Furibondo. Vele.
Genova di Villa Quartara,
dove l’amore s’impara.
Genova di caserma.
Di latteria. Di sperma.
Genova mia di Sturla,
che ancora nel sangue mi urla.
Genova d’argento e stagno.
Di zanzara. Di scagno.
Genova di magro fieno,
canile, Marassi, Staglieno.
Genova di grige mura.
Distretto. La paura.
Genova dell’entroterra,
sassi rossi, la guerra.
Genova di cose trite.
La morte. La nefrite.
Genova bianca e a vela,
speranza, tenda, tela.
Genova che si riscatta.
Tettoia. Azzurro. Latta.
Genova sempre umana,
presente, partigiana.
Genova della mia Rina.
Valtrebbia. Aria fina.
Genova paese di foglie
fresche, dove ho preso moglie.
Genova sempre nuova.
Vita che si ritrova.
Genova lunga e lontana,
patria della mia Silvana.
Genova palpitante.
Mio cuore. Mio brillante.
Genova mio domicilio,
dove m’è nato Attilio.
Genova dell’Acquaverde.
Mio padre che vi si perde.
Genova di singhiozzi,
mia madre, Via Bernardo Strozzi.
Genova di lamenti.
Enea. Bombardamenti.
Genova disperata,
invano da me implorata.
Genova della Spezia.
Infanzia che si screzia.
Genova di Livorno,
Partenza senza ritorno.
Genova di tutta la vita.
Mia litania infinita.
Genova di stocafisso
e di garofano, fisso
bersaglio dove inclina
la rondine: la rima.
Giorgio Caproni
(da Il passaggio d’Enea, 1956)

martedì 29 maggio 2018

Memoria sul '68 di Ennio Abate


Sul suo blog intitolato Poliscritture, laboratorio di cultura critica, www.poliscritture.it, Ennio Abate ha pubblicato una memoria sul '68 che riporto anche qui, riporto anche il commento mio e quello di Franco Romanò. 

Ennio Abate
1. Che fatica dopo cinquant’anni! Cancellato un futuro possibile, appena intravisto, è – ahimé – ancora:

uno sputo catarroso/ il sessantotto/ non la calamita onniprensile/ che emergeva/ attraeva/ oggi si delira/ sotto puteolenti compromessi/ e su una montagna di surrealistica spazzatura/ famelici nouveaux philosophes/ rivendicano/ saccheggiano/ impacchettano/ quel nostro facile operaismo da pop-artisti della politica/ dimostratosi sterile lievito nelle fabbrichette di periferia/ e che ora in vaghi ghirigori viene offerto/ strenna drogata/ in mezzo a macerie/ recenti macerie

E a ben poco sono serviti studi e rituali celebrazioni allo scoccare dei precedenti decennali. Sarebbe forse meglio dimenticarlo il ’68 invece di continuare con il suo vilipendio, cominciato purtroppo con Pasolini e proseguito da troppi suoi sputazzanti nipotini. Una burletta di rivoluzione? Un dannoso arrembaggio di “semicolti” distruttori dell’università, della cultura, della stessa tradizione marxista? Una rivolta dei “figli di papà”? Nessun assalto al cielo o contestazione dei saperi di Das Kapital ma solo fisiologica modernizzazione americanizzante? Basta. Non ne posso più. Fatemi invecchiare scavando nel mio ’68.

2. Avevo 27 anni allora. Alle spalle «un passato/ orecchiato sommerso/ sprofondato assieme/ alla gente magramente contadina». E un contorto percorso che, nel ’62, mi aveva portato, interrompendo gli studi universitari a Napoli (primo anno di Lingue e letterature straniere), da Salerno alla Milano del boom economico; e poi a Cologno Monzese (la «Milano, Corea» degli immigrati di Danilo Montaldi o, per me, «il guanto rovesciato del Sud», «Colognom»). Altre contorsioni subito dopo.
Licenziatomi nel ’63 dal Comune di Milano dove ero stato assunto come impiegato, tornai per breve tempo studente di liceo artistico per inseguire una mia soffocata passione. («Vissi d’arte, vissi d’amore,/non feci mai male ad anima viva!»). Ottenni, nel ’65, l’abilitazione in disegno e poi l’ammissione all’accademia di Brera nel corso di scultura di Marino Marini. Ma l’anno prima ero già sposato. Avemmo subito un bimbo (1966) e una bimba (1967); e disponevamo soltanto del magro stipendio della mia giovanissima moglie, anche lei immigrata da Taranto. Che feci allora? Troncai pure gli studi artistici appena cominciati; e accettai, per la seconda volta, il primo lavoro che mi capitò: operaio notturnista alla SIP di Milano (poi Telecom). Qui altra contorsione. Incitato da colleghi studenti lavoratori, dal ’66 ripresi l’università riscrivendomi alla Statale di Milano, però a Lettere con indirizzo storico. Nel frattempo – tra il ’67 (morte di mio padre) e il ’68 (morte di mia madre) – la mia famiglia d’origine si disfaceva e l’unico mio fratello di qualche anno più giovane, saliva a Milano pure lui in cerca di lavoro. Venduto l’appartamento dei genitori veniva meno anche il legame materiale più solido con la Salerno della mia prima giovinezza.

3. Nel ’68 dunque, più anziano di moltissimi studenti, riapprodavo in un’università che stava diventando di massa. Lavoratore studente (o studente lavoratore) alla SIP, conobbi Francesco Forcolini. Si occupava del sindacato, praticava una strana cosa per me – l’entrismo nella CGIL – ma presto fu il fondatore di uno dei primi CUB, quello della SIP appunto. Le riunioni sul contratto dei postelegrafonici, alle quali m’invitò, non mi attiravano. Ci capivo poco o niente. Sempre lui mi introdusse, quasi come in una Carboneria ai suoi inizi, nel giro dei futuri fondatori di «Avanguardia Operaia». In Via Ausonio, dalle parti di Sant’Ambrogio, dove allora c’era la sede di una rivista che si chiamava «Falce e Martello», si tenevano un po’ di riunioni. Ad una si affacciò anche Giangiacomo Feltrinelli in compagnia di una donna elegantissima che portava al guinzaglio un levriero ancora più elegante. Quel clima da Carboneria che si respirava in quegli incontri un po’ mi attirava ma ero a disagio. Certi operai sindacalizzati, che rispettavo e un po’ temevo perché sapevo bene di essere un ignorante sulle questioni sindacali ed economiche, diffidavano di me. Sì, ero un lavoratore, un proletario, ma studente, e cioè un po’ una pecora nera nel loro ambiente. E così non legai molto. Fui, invece, immediatamente attratto dalle prime iniziative studentesche che portarono poi all’occupazione della Statale. L’occupazione, l’occupazione! Controllo sul Web: alla Statale iniziò il 23 febbraio 1968, mentre, tra gennaio e marzo ’67, a Milano c’era stata già quella di Architettura; e il 17 novembre, sempre del ’67, quella della Cattolica .
4. Ricordo non la data esatta ma alcuni particolari della prima manifestazione a cui partecipai nell’autunno del ’67: una veglia per il Vietnam, allora sotto i bombardamenti degli Stati Uniti. Di sera e fino a tarda notte in una cinquantina di studenti o più occupammo simbolicamente la Statale. Mentre si svolgevano trattative col rettore, rimanemmo tra i corridoi, l’atrio e il bar interno, che era in un sottoscala. Per la prima volta mi fu facile chiacchierare con studenti che prima mi erano del tutto estranei. Un piacentino, rimasto per me senza nome, aveva con sé Verifica dei poteri di Franco Fortini e mi consigliò di leggerlo. Un altro mi parlò de L’uomo a una dimensione di Marcuse. Conobbi anche Giuseppe Manenti, studente pure lui di Piacenza. Era dello Psiup e mi prestò la copia di una rivista a me ignota: il numero speciale sull’America latina che i «Quaderni Piacentini» avevano fatto insieme alla redazione di «Quaderni Rossi».

5. Franco Fortini – lo scrittore italiano di cui ho poi letto, credo, tutti i libri finora editi, che ho conosciuto di persona negli anni Ottanta e che molto ha influito sul mio orientamento politico e culturale – lo vidi per la prima volta proprio alla Statale occupata da pochi giorni. Doveva essere il 29 febbraio. Al pomeriggio c’erano stati attorno a via Festa del perdono scontri tra studenti e fascisti con l’intervento della polizia. Mi accostai a un capannello di studenti che all’ingresso dell’università commentavano le aggressioni. C’era un adulto che discuteva con loro e colsi al volo una sua frase:«Non bisogna strusciarsi addosso ai giovani». Mi parve una raccomandazione rivolta ad altri ma anche a se stesso. Seppi più tardi che era Fortini.

6. Nei mesi dell’occupazione mi sentii un meridionale Renzo Tramaglino Marx alle prese con un tumulto che gli era piovuto addosso inaspettato e che sconvolgeva le regole – innanzitutto quella del rispetto per le autorità – a cui era stato educato fin da ragazzo. In una delle prime assemblee in aula magna, quando fu votata l’occupazione, venne il rettore in persona per rabbonire e dissuadere. Appena cominciò a parlare e pronunciò la frase: «Noi spezziamo per voi il pane del sapere», fu sommerso da ululati e fischi e dovette allontanarsi. Ero incredulo. Non fischiai né urlai, ma provai un improvviso e ambivalente sentimento di forza e di rivalsa. Sempre durante l’occupazione, qualche mese dopo, quando a uno dei baroni più in vista, il terribile Cazzaniga, professore di latino, che prima del ’68 durante gli esami si concedeva ampie libertà specie con le studentesse (me lo raccontò un’amica), fu imposto di tenere gli esami di gruppo alla presenza degli studenti del movimento, provai di nuovo quel sentimento. Ragionandoci adesso, quella mobilitazione collettiva veniva incontro alle mie difficoltà materiali di studente costretto a lavorare e a partecipare alla gara universitaria portando addosso un fardello che gli altri studenti non avevano. E tuttavia allora ero combattuto tra la vecchia e la nuova morale che pareva delinearsi. E così mi trascinai a lungo un senso di colpa per quell’esame di latino “agevolato”, tanto che anni dopo, agli esami di abilitazione all’insegnamento, rifiutai di concorrere alla prova di latino, proprio perché l’avevo studiato in modo insufficiente. Non so, dunque, quanto sentissi giuste tutte le azioni dissacratorie e comunque di forza del movimento studentesco. Eppure partecipavo convinto alle sue iniziative.

7. Fui soprattutto un volenteroso apprendista politico. Ero incuriosito ma impacciato. Prima non avevo avuto quasi nessun interesse esplicito per la politica. A Milano, attraverso gli esami che davo, m’ero avvicinato alle questioni di storia in generale e di storia del movimento operaio e, dunque, un po’ anche all’opera di Marx e di vari marxisti, ma ora sentivo l’urgenza di esplorare al più presto un continente ignoto o censurato (al liceo classico di Salerno il professore di filosofia ci aveva fatto saltare Marx, perché “non importante”). E perciò bazzicavo spesso nelle due librerie milanesi della Feltrinelli e cominciai a comprare opuscoli politici e soprattutto riviste. Il loro linguaggio era oscuro e complicatissimo, ma non desistevo. Così, sotto l’influsso dei discorsi che ascoltavo, mi spostavo dai miei precedenti interessi letterari e artistici. Le nuove letture non avevano quasi più nulla a che fare con le mie precedenti di letteratura e arte, che nell’immediato passarono in secondo piano. Partecipavo poi a quasi tutte le assemblee e a diversi controcorsi. E riassumevo puntualmente con la stilografica prendevo appunto dei principali interventi degli oratori. Quasi fossi un cronista. Lo facevo per me, ma qualcuno, vedendomi così intento a scrivere, mi chiese una volta se fossi un giornalista. A casa poi li trascrivevo a macchina con la mia Olivetti lettera 42 aggiungendovi qualche mia impressione.
Perché tanto zelo? Ero d’un tratto di fronte a una miniera disordinata di temi – sociali, politici, economici, filosofici – trattati da persone in carne ed ossa, studenti o docenti attivi nell’occupazione e dai più diversi e spesso contrapposti punti di vista. In parte riuscivo ancora a collegarli ai miei nuovi studi storici. In parte debordavano anche da quelli. Infatti, la lettura quasi d’obbligo tra i partecipanti all’occupazione di vari quotidiani – dal «Corriere della sera» a «L’Unità» al neonato «il manifesto» – mi trascinava verso l’attualità più ribollente delle vicende nazionali e internazionali (Vietnam, Berkley, Pantere nere, il ’68 a Parigi o a Berlino). Almeno con la mente ero io pure scaraventato di forza, sempre sotto il pungolo dell’occupazione, nel villaggio globale. Però restavo sconcertato dalle contrapposizioni tra i vari gruppi studenteschi (del PCI, dello Psiup, dei marxisti-leninisti, dei situazionisti, dei “capanniani”) che in teoria avrebbero dovuto orientare uno come me. E non me la sentii mai di parlare nelle affollatissime e spesso burrascose assemblee. Di rado lo feci nei controcorsi. E spesso goffamente.
Una volta m’infilai in un’aula non sapendo che c’era una riunione riservata a studenti psiuppini o simpatizzanti. Aprii la porta e mi affacciai mentre lo storico Stefano Merli aveva già cominciato a parlare; e mi trovai addosso gli sguardi diffidenti, suoi e dei presenti. Dall’imbarazzo mi salvò Manenti, dichiarando di conoscermi. Un’altra volta, durante un controcorso sulla questione dell’università, mi azzardai a suggerire la lettura di un saggio appena letto su «Quaderni Piacentini» (forse «Contro l’università» di Viale); e fui fulminato da un’occhiata di sprezzo di Cafiero, che presiedeva, e bloccato dal silenzio dei presenti. Provai comunque immediata antipatia per le posizioni sostenute dal rappresentante del PCI e distanza crescente dallo Psiup, malgrado la mia amicizia con Manenti. Poco mi convinsero pure i situazionisti. Maggiore attenzione diedi all’unico, pacatissimo, rappresentante dei «Quaderni Rossi». (Si chiamava Banfi, non ne ricordo più il nome, ma lessi anni dopo che aveva scelto di fare l’operaio all’Alfa Romeo di Arese). E ricordo con simpatia SalvatoreToscano, meridionale pure lui e tra i leader della Statale sicuramente il più cordiale e alla mano, col quale andai una volta insieme ad altri a incontrare dei delegati in una fabbrica di Milano (non so più dove).
In altri momenti cercai approcci più individuali a caccia di suggerimenti. Ne chiesi a Stefano Levi Della Torre, che avevo ascoltato con interesse in una conferenza nazionale in aula magna, dove erano convenuti leaderstudenteschi da tutta Italia. Poi a Franco Della Peruta. Prima dell’occupazione avevo in mente di dare con lui, che insegnava Storia del Risorgimento, la tesi su Gramsci e gli intellettuali. In un colloquio gli confidai il mio interesse per un libro di Gorz appena uscito, Il socialismo difficile, e ne ricavai una delusione: non solo mi diceva di lasciar perdere quell’autore ma mi raccomandava la lettura di uno scritto di Stalin sulla questione della lingua.

8. In quell’anno ogni studio approfondito che potesse risolvere in un senso o nell’altro le mie incerte simpatie, che ora andavano ai discorsi sul potere operaio ora a quello sul potere studentesco, era intralciato e impossibile. A causa dell’incalzare degli eventi, degli scontri coi fascisti e la polizia, delle numerose manifestazioni per le vie centrali di Milano e della tensione e euforia che respiravo ovunque. Malgrado il lavoro di notturnista, gli esami e la tesi da preparare, la cura dei bambini, le rimostranze di mia moglie che si sentiva trascurata, fui presente in alcune fluviali manifestazioni di piazza.
Ricordo un enorme corteo di operai che partendo dalla Magneti Marelli di Sesto San Giovanni si spinse a piedi fino a piazza Duomo; e che, dopo il comizio, Pizzinato, uno dei dirigenti della CGIL, si affannò a dirottare lontano dalla Statale occupata. Diversi operai però disobbedirono e alla fine, in aula magna, si tenne una improvvisata ma sparuta assemblea di studenti e operai. Partecipai pure ad alcuni picchettaggi in appoggio ai primi scioperi operai. Ho dimenticato le date ma una volta mi alzai alla 5 del mattino per andare sul mio motom da Cologno Monzese a fare picchetto davanti a una fabbrica milanese (forse la Ferro Tubi?) vicina al Parco Solari. Un’altra mattina, sempre con altri studenti della Statale, andai alla Innocenti di Lambrate per rinforzare un picchetto che doveva impedire agli impiegati, che si rifiutavano di scioperare, di entrare nella loro palazzina separata dallo stabilimento. I picchetti erano un’occasione di sfida e di scontro, ma paradossalmente anche di confronto. Fui presente anche in un’occupazione del rettorato della Statale, da cui i poliziotti ci sgombrarono trascinandoci di peso fuori uno ad uno; e nella protesta del 7 giugno – la data la desumo oggi ancora dal Web – quando il movimento degli studenti di Milano bloccò l’uscita del «Corriere della sera» dalla tipografia vicino via Solferino. Si volle denunciare la faziosità di quel giornale nel dare la notizia dell’attentato di un estremista di destra contro Rudy Dutskhe, il leaderdel SdS a Berlino (11 aprile 1968). E accadde che, uscendo con amici a mezzanotte dalla sede della SIP in Piazza Affari alla fine del nostro turno di lavoro, vedemmo una marea di studenti che bloccavano il traffico in piazza Cordusio e nelle vie adiacenti. Il corteo si dirigeva lentamente verso la sede del «Corriere della Sera» per duplicare in Italia la protesta fatta dagli studenti di Berlino contro il giornale di Springer. Dopo un po’ iniziarono gli scontri. Una fila di poliziotti avanzava verso l’incrocio tra via Pontaccio e Corso Garibaldi picchiando ritmicamente i manganelli sugli scudi, che allora erano ancora metallici. Sbandamento della folla. Persi di vista i miei amici, mi ritrovai in mezzo a un gruppetto organizzato. Seppi che erano di «Potere Operaio» e venivano da Roma. Uno di loro, per evitare che i poliziotti ci localizzassero, centrò con mira formidabile la lampada del lampione che illuminava la stradina in cui, inseguiti, ci eravamo rifugiati. Per la prima volta tirai anch’io qualche sasso.
Comunque mi andò bene. Non mi trovai mai coinvolto in scontri fisici diretti né con la polizia né coi fascisti, anche se ne fui sfiorato almeno in tre occasioni: la sera dell’accerchiamento del «Corriere della sera»; il pomeriggio in cui ero all’interno della Statale al momento in cui i fascisti l’assaltarono dall’esterno (probabilmente doveva essere in quel 29 febbraio che ho già nominato); e ricordo che accompagnai un’amica che doveva telefonare all’apparecchio a gettoni posto nell’atrio della Statale vicinissimo all’ingresso mentre sul pavimento arrivano i sassi scagliati da fuori, ma riuscimmo a uscire in un momento di tregua; una mattina presto quando per i corridoi della Statale erano in giro ancora pochi studenti favorevoli all’occupazione e un gruppo di fascisti penetrò dal cortile del Filarete; ma fu respinto nell’atrio davanti l’aula magna, grazie alla prontezza di Cafiero, che ci fece disporre in cordone.

9. Tra legami coi dissidenti del PCI che poi confluiranno in «Avanguardia Operaia», assemblee e controcorsi nella Statale occupata e manifestazioni di piazza, imboccai senza troppe teorizzazioni una traiettoria, che oggi mi è chiarissima: da un atteggiamento a-politico o impolitico alla militanza politica; dalle suggestioni del potere studentesco a quelle del potere operaio; dalle intenzioni di scrivere la mia tesi di laurea su Gramsci e gli intellettuali con Della Peruta alla scelta di farne una in storia contemporanea con Franco Catalano sulla vicenda recentissima dei «Quaderni Rossi». La preparai alla svelta e con affanno, come tante cose che allora si potevano fare solo così; e in una università ancora in subbuglio. La discussi davanti a Catalano e ad un distrattissimo Carlo Salinari che, ascoltandomi, non si risparmiò una battuta contro l’”oscurità” del linguaggio di Raniero Panzieri.
In fondo su quelle mie scelte molto influirono i legami con le personefrequentate quotidianamente. E forse la mia “svolta” operaista maturata proprio durante l’occupazione mi rese più pronto a cogliere una richiesta che stavolta mi venne proprio da Cologno Monzese. Degli operai che conoscevano mio suocero, lui pure operaio in una piccola fabbrica di plastica, gli chiesero di incontrarsi con qualche studente che avesse partecipato alle occupazioni delle università a Milano. Misi su così un «Gruppo operai-studenti». E, dato che di contratti, di salario o di cottimo, come già detto, capivo poco, mi rivolsi a Luigi Vinci (di lì a poco diventerà uno dei principali dirigenti «Avanguardia Operaia»), che ci aiutò a fare un’analisi meticolosa delle buste paga degli operai metalmeccanici della Bravetti e della Panigalli, due piccole fabbriche metalmeccaniche di Cologno Monzese, coi quali avevamo cominciato a riunirci. Un altro milanese, Roberto Cerasoli, cominciò a tenere lezioni sul Manifesto di Marx e il Che fare di Lenin. Ci riunivamo nel sottoscala di un bar. E così diventai il tessitore di rapporti tra questi giovani operai di piccole fabbriche, alcuni studenti delle scuole superiori di Milano (VII ITIS, Molinari), che abitavano a Cologno, e «Avanguardia Operaia». Ma questa è già storia del ’69.

10. Su questo mucchietto di ricordi del ’68 torno spesso un po’ da storico e un po’ da narratore:
Dal fiume erano usciti nuotando in due, lo storico e Samizdat. Lo storico si era asciugato e poi se n’era andato in disparte sotto un albero. Aveva inforcato gli occhiali e, aperta la borsa ancora gocciolante, aveva cominciato a riordinarne il contenuto: volantini, giornali, documenti, cassette con le registrazioni delle voci di quegli anni. La sua mente ora lavorava, non del tutto insensibile al fluire che continuava; ma ormai sopportava senza preoccupazione la separazione dall’elemento acquoso e torbido nel quale fino a pochi attimi prima era immerso.
Samizdat invece era rimasto sotto un’arcata in ombra, che immetteva in una grande sala illuminata dal neon. Temeva il convegno. Appena ascoltò le prime voci al microfono che cominciavano a rievocare i fatti tremendi di quegli anni, fu preso dal desiderio di ritirarsi in un cerchio di solitudine.
Ma, vista l’aria che tira oggi, a cinquant’anni dal ‘68, non so più se parlarne possa servire a qualcosa o a qualcuno. E allora, come il mio personaggio, sono tentato io pure di ritirarmi «in un cerchio di solitudine» a riflettere e a farmi domande per conto mio: feci bene a partecipare a quella rivolta di studenti? feci bene a orientarmi verso l’operaismo? perché non avvenne una vera saldatura tra noi in basso e i leader del movimento, i fratelli politici (a volte maggiori di età e a volte minori) ai quali mi accompagnai? perché non arrivai a prendere la parola in quei luoghi (assemblee, controcorsi) che venivano presentati – ed in effetti furono – più liberi e democratici delle istituzioni partitiche o degli organismi studenteschi pre-‘68? soltanto per limiti miei e resistenze legate alla mia precedente educazione o alla mia condizione di periferico? o troppe idee e cose “straniere” entrarono di botto nella mia mente e nel mio cuore in quell’anno eccezionale e quell’accelerato apprendistato politico non bastava? ci fu un limite effettivo di democrazia nelle nuove forme di organizzazione (assemblee, controcorsi, manifestazioni di piazza) che non erano in grado di reggere all’urto di bisogni e desideri insoddisfatti e tendevano a chiudersi (come sostenne Elvio Fachinelli in Gruppo aperto e gruppo chiuso? e come dimostrò pure l’esperienza del femminismo subito dopo)? erano di gran lunga più potenti e insidiose le sotterranee manovre dei partiti di destra ma anche di quelli di sinistra per bloccare la rivolta e non si fu in grado di respingerle? ci fu un limite di autorità, come sostenne Fortini ne Il dissenso e l’autorità? e perché buona parte di quelle élites, i nostri compagni, che sembravano i nuovi portavoce di noi intellettuali di massa e degli operai, si riciclarono così presto nei posti di potere mentre tanti di noi si dispersero rassegnati e delusi nelle filiere dell’insegnamento medio o superiore o nel basso lavoro impiegatizio o altrove? Eccetera, eccetera.

11. Queste domande le lascio a un eventuale lettore vecchio come me, che avesse capito meglio di me il significato di quell’anno, in cui a me parve che «l’azzurro respirato dai padri» nella Resistenza o nell’ Ottobre del 1917 potesse ricomparire tra la nuvolaglia buia e opprimente della storia. Invece, a un meno probabile giovane lettore di queste mie note, che voglio immaginare precario o disoccupato e non “figlio di papà”, oltre a ricordare i famosi versi di Brecht: «pensate a noi/ con indulgenza.», vorrei dire di come cambiò il mio modo di sentire in quell’anno. Ero rientrato all’Università dalla porta di servizio e prima dell’occupazione della Statale, quando a volte uscivo al mattino dal turno di notte alla SIP e andavo ad ascoltare qualche lezione, lasciando il motom incatenato a un palo della segnaletica vicino al muro di via Festa del perdono, non sopportavo gli studenti borghesi, impettiti ed eleganti che oziavano lì attorno; e lo stesso mi capitava quando a sera, sempre sul mio motom, andavo a lavorare alla SIP nel palazzone di Piazza Affari, passando davanti alla Scala illuminata per qualche concerto e sfiorando la dolce vita dei signori. Soffrivo solitudine e esclusione sociale. Con la partecipazione al ’68 un po’ ne uscii. Solo un poco. Perché mi accorsi presto – e ancora devo citare Brecht – che anche nel movimento degli studenti «Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe!» (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo!). Quando poi s’interruppe quel frenetico ma fecondo lavoro di contrabbando intellettuale tra università e esterno (bisognerebbe informarsi sull’ormai dimenticata esperienza delle «150 ore» partite nel 1973!), mi accorsi che dal ’68 avevo imparato comunque che è possibile lottare assieme agli altri; e che potevo continuare a cercare compagni con cui farlo. Sì, «sul fondo», anche scrivendo da solo i miei poverissimi samizdat ciclostilati in proprio e distribuiti a poche persone.

Caro Ennio
non sono uno dei vecchi cui poter passare le tue domande così cariche di problemi, non ho capito meglio di te il significato di quell’anno. Di più, io festeggio il ’68 tutti gli anni il 7 dicembre non perché a S. Ambrogio in quell’anno Capanna strigliava i compagni poliziotti davanti a La Scala ma perché più o meno nella stessa piazza (c’era un Motta) io e Adriana facevamo un piccolo rinfresco dopo il matrimonio della mattina. Non voglio essere irriverente, è che se riuscirò a parlare di quegli anni ( mi sono un po’ arenato nei miei biograffiti) come fai tu (apprezzo il tono che dai alla tua narrazione) verrà sicuramente fuori 1) che il mio ’68 era cominciato nel ’66 (perché ho cominciato a insegnare da studente e che non aveva una lira in tasca, perché ho conosciuto Adriana, perché ho conosciuto quelli di ‘Classe operaia’) e 2) che in realtà per me non è mai finito. Anche a me interesserebbe un po’ di più interloquire con un giovane, precario e disoccupato se proprio vuoi. Ma neanche tanto. Quando arrivano in casa i giovani di Amazon o di altri servizi, postali e non, mi confessano che amano il loro lavoro, durissimo ma pagato abbastanza e non si preoccupano per niente di futuri e di pensioni e di cassa malattia. Tutti a dire poveretti come sono sfruttati e c’è un po’ di miserabilismo intorno a loro e invece poi scopri che fanno lotte non da poco. Ma un amico della logistica ci sta dentro bene, lavora come nessun operaio fordista avrebbe accettato di fare. Però nella logistica fanno lotte non da poco e scoprono daccapo il mutuo soccorso, la solidarietà di un tempo. Accidenti c’è tutto un mondo da cui ricominciare ma io non ho più la forza e interamente nemmeno la voglia, seguo qualche situazione ma bisogna essere disperati come cani randagi. Mi manca l’inchiesta sul campo collettiva, quella con la quale sono nato politicamente, ma era fine ’67 con La classe, operai e studenti uniti nella lotta. Poi c’è stato Potere Operaio (fino al 71 quando la deriva insurrezionalista fece allontanare quasi tutti noi milanesi con Sergio Bologna). Ma Sergio ci aveva già fatto fare il giro tra Pirelli, Alfa e Mirafiori, e dopo il 3 luglio del ’69 non c’era stata quasi più storia studentesca se non operaista: se proprio devo ‘circoscrivere’ (come mi ha insegnato lo Zibaldone) il ’68 finisce la sua grande ondata nell’80 con la passeggiata dei 40.000. Ma poi continua e oggi sono ancora qui che studio i Grundrisse e il frammento sulle macchine, perché tutto è cominciato da lì, per me ma non solo.

Ma ne sai qualcosa. Abbiamo vicende comuni. La mia tesi con Catalano, dopo avere tradito Della Peruta col quale avevo stabilito una bella amicizia, era come te sui Quaderni Rossi ma poi proseguiva con Classe operaia. Era pronta da tempo ma la militanza mi ha bruciato un paio di anni. Ero, come sempre, fuori tempo massimo con gli studi (come te ho lavorato, dopo la maturità afferrata per il collo, come impiegato contabile (!) per un anno e poi quasi un anno come sguattero a Colonia), ma in quegli anni casa mia, prima della sua sede ufficiale in G. Modena, di P.O. è stata per più di un anno la sede. Lì è successo di tutto. Poi poi. Non lo so se ci riuscirò a ricostruire quei miei anni. Ma credo che tutti dovrebbero farlo. Senza piangersi addosso. E recuperare anche alla memoria i nostri anni d’insegnamento perché la scuola come ci abbiamo insegnato noi è stata una bella scuola sul serio, il ’68, studentesco e operaista è andato avanti con noi nella scuola, non a caso abbiamo insegnato negli IPSIA, negli ITIS, ed è stata scuola di democrazia, di conflitto, di rifiuto della parte sclerotizzata del nostro umanesimo. Ma eravamo già da prima nella scuola: con il terzo anno di iscrizione alla Statale ho ottenuto appunto già nel ’66 il mio primo anno scolastico di supplenza, incredibile, era la scuola di massa che avanzava ed è stata prodromica al ’68. La scolarizzazione di massa faceva aprire scuole dappertutto. ll mio ’68, anche in questo senso, era già cominciato. Quella era per se stessa una spallata incredibile all’ancien regime, nelle scuole arrivarono a insegnare studenti che portavano con sé un’aria libertaria e anche un po’ libertina, che sbaraccavano in quattro e quattr’otto metodi e ritmi della scuola. Ma trasmettevamo cultura alternativa, più di quanta noi stessi credessimo. I ragazzi ci volevano bene. I presidi no. L’antiautoritarismo dispiegatosi in quegli anni per me fu quasi un naturale portato di rottura con certi padri, almeno i miei, silenziosi, fascisti, piccolo borghesi, con la verità in tasca, succubi e servi in una città dominata da una borghesia industriale nera, autoritaria e cattiva, che all’università governava come signori feudali. Da allora la scuola non poteva più essere come prima. Magari abbiamo residuato solo coscienza sindacale, beh buttala via oggi, e comunque le tessere sindacali le abbiamo a un certo punto stracciate.

Ma i figli degli operai ai quali abbiamo insegnato il pensiero critico non residuarono solo straccioneria. Molti hanno studiato. Roberto, figlio di un operaio dell’Alfa, mi disse un giorno: guarda le lotte pagano, mio padre non deve più tenere le braccia alzate alla catena e si stanca la metà, io però in fabbrica non ci vado, piuttosto faccio la fame ma non ci vado sotto padrone.
Non sono queste conquiste di libertà da tramandare? Beh, figli a parte, oggi spero nei miei nipotini (tre)!
Il deserto si è allargato in maniera inverosimile ma qualche oasi (WEB compreso) c’è ancora. Tutto il resto per ora è solo concepito.

SUL ’68 DI ENNIO
di Franco Romanò
Caro Ennio, viste le difficoltà crescenti con cui mi avvicino al mio ’68, alla fine ho letto il tuo, molto bello, anche se forse questo aggettivo può sembrare abusato. E invece lo uso con piena consapevolezza. Alla fine del tuo viaggio ho capito che l’approccio che avevo in mente è del tutto analogo e cambia poco se il mio treno non veniva dal sud ma dal profondo nord della Brianza, che è a sua volta – nel mio immaginario – un altro sud. Ho sempre pensato che la Brianza profonda abbia qualcosa che l’assimila antropologicamente all’Alabama e avendolo scritto prima che la Lega Lombarda nascesse penso di avere qualche ragione dalla mia parte. Inoltre, una cospicua parte narrativa di quello che è il mio ’68 è finito in un romanzo che nessun editore per il momento ha scelto di pubblicare, anche se non demordo.

La ricostruzione del tuo percorso è convincente perché non è solo il tuo ed è scritto in uno stile che permette a ciascuno di ritrovare il proprio ’68: questo mette in moto ricordi e anche un po’ di nostalgia, che non guasta. Infine c’è un passaggio che per me è un vero cammeo: l’eleganza del levriero al guinzaglio della occasionale compagna di Feltrinelli dice molto senza spiegare nulla. Alla fine, ho rinunciato a scrivere del mio ’68.
Però poi, a conclusione del tuo viaggio, poni delle domande politiche che vanno oltre la narrazione ed è su alcune di queste (le riporto qui sotto) che vale la pena invece di soffermarsi e tentare di rispondere ed è quello che cercherò di fare, avendo in testa una linea precisa di ricerca e cioè che il modo politicamente meno angusto di ricordare il ’68 è quello di collocarlo all’interno di un ciclo più lungo della storia italiana che parte dai fatti di Piazza Statuto del 1962 e finisce con la marcia dei 40.000 della Fiat nel 1980. Mi rendo conto che è materia da storici, ma lo è anche da militanti quali, con tutti i limiti e le differenze di ruolo e coinvolgimento personali, siamo entrambi stati. Ripercorrere questa storia significa anche farlo alla luce di quello che sono state le pagine nobili e le sue sconfitte. Queste ultime hanno le loro ragioni negli assetti politici che le potenze vincitrici imposero all’Italia alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Tali ragioni sono state quasi del tutto ignorate da parte di movimenti e forze politiche extra parlamentari che si formarono in quegli anni. La parola ignorate non va presa alla lettera, visto che non facevamo altro che parlar di Cia e del ruolo degli Usa. Ho condensato in un ossimoro di cui ho discusso anche con Paolo Rabissi il senso della parola ignorate: Avevamo ragione su tutto ma non ci abbiamo capito nulla.
Vengo ora alle tue domande, rispondendo alle quali mi auguro anche di sciogliere un po’ il significato dell’ossimoro.

… Ma, vista l’aria che ira oggi, a cinquant’anni dal ‘68, non so più se parlarne possa servire a qualcosa o a qualcuno. E allora, come il mio personaggio, sono tentato io pure di ritirarmi «in un cerchio di solitudine» a riflettere e a farmi domande per conto mio: feci bene a partecipare a quella rivolta di studenti? feci bene a orientarmi verso l’operaismo? perché non avvenne una vera saldatura tra noi in basso e i leader del movimento, i fratelli politici (a volte maggiori di età e  a volte minori)  ai quali mi accompagnai?

Comincio da queste per dire subito che secondo me facesti bene, come ognuno di noi fece, a partire dal luogo (da non intendersi solo in senso fisico) in cui si trovava quando fu trascinato dalla forza di quegli eventi a farne parte e a cercare di capire. Io ebbi, dopo molte oscillazioni, una propensione verso il maoismo, ma questo è ormai irrilevante. Rilevante è invece ricordare che da quell’ondata, che iniziava da prima di noi e cioè proprio nel 1962, e che avremmo imparato nel tempo scoprire, nacquero le più grandi conquiste civili di questo paese che metto nell’ordine in cui le ricordo:
§     La legge 180 voluta da Franco Basaglia e Franca Ongaro.
§     Lo statuto dei lavoratori, grazie alla determinazione di molti e alla cocciutaggine di un uomo che nessuno ricorda: Brodolini.
§     La legge 194 sull’interruzione di gravidanza.
§     Una copertura sanitaria per alcuni anni fu addirittura totale e sulle spalle delle fiscalità generale.
§     L’unificazione del punto unico di scala mobile.
§     Le 150 ore
§     Laura Conti, Giulio Maccaccaro, Ercole Ferrario, per tutto quello che ci insegnarono e fecero attivamente per denunciare la non neutralità della scienza, per dire che sicurezza sul lavoro e salute non sono monetizzabili e nel concretizzare un discorso ambientale che sapeva unire insieme sua nell’analisi sia nell’azione concreta problemi ambientali e tensione anti capitalistica.
Questi sono solo gli aspetti più istituzionali: ma come non ricordare quello che nasceva e si sviluppava in un rapporto antagonista, a volte, altre volte con accordi parziali, con le istituzioni: dal movimento di occupazione delle case, la nascita dei consultori e dei centri anti violenza, l’autocoscienza che ebbe un influsso forte anche sugli uomini, i gruppi di autocura e chissà quante cose ho dimenticato. Lascio per ultimi consapevolmente i consigli operai, il vero centro e nucleo delle lotte di quegli anni, sia per quello che rappresentavano in sé, sia per quello che significavano per tutti gli altri lavoratori e lavoratrici, non operai nel senso proprio del termine; a cominciare per gli insegnanti, come eravamo noi.
Tutto questo, intendiamoci, non è una risposta alla tua ultima domanda, quella forse più pregnante, e cioè perché la saldatura fra i fratelli maggiori e minori non ci fu o ci fu solo in parte. Tuttavia, questa domanda, cui cerco subito di rispondere, non può cancellare a mio avviso tutto quello che ho ricordato in precedenza.
La saldatura in parte ci fu, per esempio con la generazione grazie alla quale scoprimmo o riscoprimmo il valore della Resistenza Antifascista, solo che ci trovammo ad affrontare un dilemma non da poco:  un aspetto fondamentale del ’68 fu anche quello di non riconoscersi nei padri e dei padri rifiutavamo anche le tendenze autoritarie presenti nella generazione resistenziale, cui pur guardavamo con sentimenti di riconoscenza. E poi Freud, che scoprivamo in quegli anni, ci insegnava pure che i fratelli, una volta che si sono liberati del padre, non è che sappiano bene cosa fare. Tuttavia, penso che tutto questo sia vero ma che manchi qualcosa di decisivo e cioè che scoprivamo un po’ traumaticamente come uomini che il mondo non era fatto solo di fratelli ma anche di sorelle e che queste ultime si ribellavano ai padri come noi ma anche ai fratelli che noi eravamo.

 … erano di gran lunga più potenti e insidiose le sotterranee manovre dei partiti di destra ma anche di quelli di sinistra per bloccare  la rivolta e non si fu in grado di respingerle?

Sì, nel breve e nel medio tempo fu così e questa tua domanda mi dà modo di ritornare sull’ossimoro e cercare di spiegarlo. Erano più potenti perché noi ci affacciavamo sulla grande storia e non potevamo di certo conoscerla in partenza e non potevamo sapere in quel momento dentro quali vincoli internazionali e quanti e quali non detti (da entrambe le parti che combattevano la Guerra Fredda) agivano sotterraneamente. Qualcosa intuivamo eccome, anzi molto di più e questo è il senso della prima parte del mio ossimoro: avevamo ragione su tutto. Lo capivamo però astrattamente – anche dopo la strage di Piazza Fontana – e non nella concretezza fattuale e profondità e dunque non ci abbiamo capito nulla. C’era in questo anche un atteggiamento positivo, cioè dell’andare oltre un limite che, peraltro, nessuno veramente indicava perché per opposte ragioni – che a sinistra talvolta erano anche nobili ma altre volte no – tutti avevano la necessità di difendere ragioni indicibili. In particolare ci mancò la capacità di capire in fretta che la definizione di Guerra Fredda era un’ipocrita e tragica definizione che occultava la realtà dei fatti: una guerra calda e senza esclusione di colpi ma combattuta con i metodi della guerra asimmetrica e del terrorismo di stato; una guerra in cui l’Italia si trovava al centro. La stessa narrazione sui cosiddetti servizi deviati, avallata anche a sinistra, fu un altro strumento di occultamento della realtà.
Chi pretese di capire di più e per questo scelse la lotta armata (cercando appoggi più o meno consapevoli con il campo socialista) cercò una scorciatoia che si rivelò la catastrofe che sappiamo, tutti gli altri furono presi nel mezzo, ma non si riuscì a fare molto di più. Non credo però che possiamo essere mal giudicati per questo: anzi a me sembra un miracolo che abbiamo contribuito nel tempo a tenere comunque vive certe istanze.
Ora sappiamo tutto e non sto usando un’iperbole, anzi mi prendo la responsabilità di affermare che di misteri non ce ne sono più, dopo la pubblicazione  recente di alcuni libri – fra cui in primis quelli di Fasanella e Giannuli.
Ci sono dei dettagli da chiarire, il ruolo di alcuni personaggi chiave può essere ritenuto ambiguo, ma il perimetro politico in cui s’inscrivono e il senso complessivo di certi fatti, a cominciare da Portella della Ginestra, poi dal Piano Solo del 1964, per passare dalle stragi e per finire con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro, sono chiari ed evidenti. Il puzzle è finito e se qualche casella rimane ancora vuota, oppure può essere riempita da attori e figurine diverse, questo non impedisce di leggere bene la figura. Anzi, continuare nella narrazione che avalla l’esistenza di misteri significa a questo punto non fare i conti con la realtà, significa non voler vedere e non voler sentire che in Italia non manca appunto lo scioglimento dei misteri, bensì un discorso sulla verità che forse non verrà mai ma che trovo assurdo non chiedere comunque. Penso a un gesto come quello che compì Willy Brandt davanti al monumento di Auschwitz. Un establishment come quello italiano non è in grado di farlo, ma penso sia legittimo pretenderlo o sollevare il problema.
Infine, cito l’ultima parte del tuo scritto:

… mi accorsi presto – e ancora devo citare Brecht –  che anche nel movimento degli studenti «Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe!» (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo!).[1] Quando poi s’interruppe quel frenetico ma fecondo lavoro di contrabbando intellettuale tra università e  esterno (bisognerebbe informarsi sull’ormai dimenticata  esperienza delle «150 ore» partite nel 1973!),  mi accorsi che dal ’68  avevo imparato comunque che è possibile lottare assieme agli altri; e che potevo continuare a cercare compagni con cui farlo. Sì, «sul fondo», anche scrivendo da solo i miei poverissimi samizdat ciclostilati in proprio e distribuiti a poche persone.

 Ecco, e se fosse tempo di ricominciare?
[1] Dal frammento La bottega del fornaio.