Sul suo
blog intitolato Poliscritture, laboratorio di cultura critica,
www.poliscritture.it, Ennio Abate ha pubblicato una memoria sul '68 che riporto
anche qui, riporto anche il commento mio e quello di Franco Romanò.
Ennio
Abate
1. Che
fatica dopo cinquant’anni! Cancellato un futuro possibile, appena intravisto, è
– ahimé – ancora:
uno sputo catarroso/ il
sessantotto/ non la calamita onniprensile/ che emergeva/ attraeva/ oggi si
delira/ sotto puteolenti compromessi/ e su una montagna di surrealistica
spazzatura/ famelici nouveaux philosophes/ rivendicano/ saccheggiano/
impacchettano/ quel nostro facile operaismo da pop-artisti della politica/
dimostratosi sterile lievito nelle fabbrichette di periferia/ e che ora in vaghi
ghirigori viene offerto/ strenna drogata/ in mezzo a macerie/ recenti macerie
E a ben
poco sono serviti studi e rituali celebrazioni allo scoccare dei precedenti
decennali. Sarebbe forse meglio dimenticarlo il ’68 invece di continuare
con il suo vilipendio, cominciato purtroppo con Pasolini e proseguito da troppi
suoi sputazzanti nipotini. Una burletta di rivoluzione? Un dannoso arrembaggio
di “semicolti” distruttori dell’università, della cultura, della stessa
tradizione marxista? Una rivolta dei “figli di papà”? Nessun assalto al
cielo o contestazione dei saperi di Das Kapital ma solo
fisiologica modernizzazione americanizzante? Basta. Non ne posso più.
Fatemi invecchiare scavando nel mio ’68.
2. Avevo
27 anni allora. Alle spalle «un passato/ orecchiato sommerso/ sprofondato
assieme/ alla gente magramente contadina». E un contorto percorso che, nel
’62, mi aveva portato, interrompendo gli studi universitari a Napoli (primo
anno di Lingue e letterature straniere), da Salerno alla Milano del boom economico;
e poi a Cologno Monzese (la «Milano, Corea» degli immigrati di Danilo
Montaldi o, per me, «il guanto rovesciato del Sud», «Colognom»).
Altre contorsioni subito dopo.
Licenziatomi
nel ’63 dal Comune di Milano dove ero stato assunto come impiegato, tornai per
breve tempo studente di liceo artistico per inseguire una mia soffocata
passione. («Vissi d’arte, vissi d’amore,/non feci mai male ad anima viva!»).
Ottenni, nel ’65, l’abilitazione in disegno e poi l’ammissione all’accademia di
Brera nel corso di scultura di Marino Marini. Ma l’anno prima ero già sposato.
Avemmo subito un bimbo (1966) e una bimba (1967); e disponevamo soltanto del
magro stipendio della mia giovanissima moglie, anche lei immigrata da Taranto.
Che feci allora? Troncai pure gli studi artistici appena cominciati; e
accettai, per la seconda volta, il primo lavoro che mi capitò: operaio
notturnista alla SIP di Milano (poi Telecom). Qui altra contorsione. Incitato
da colleghi studenti lavoratori, dal ’66 ripresi l’università riscrivendomi alla
Statale di Milano, però a Lettere con indirizzo storico. Nel frattempo – tra il
’67 (morte di mio padre) e il ’68 (morte di mia madre) – la mia famiglia
d’origine si disfaceva e l’unico mio fratello di qualche anno più giovane,
saliva a Milano pure lui in cerca di lavoro. Venduto l’appartamento dei
genitori veniva meno anche il legame materiale più solido con la Salerno della
mia prima giovinezza.
3. Nel
’68 dunque, più anziano di moltissimi studenti, riapprodavo in
un’università che stava diventando di massa. Lavoratore studente (o
studente lavoratore) alla SIP, conobbi Francesco Forcolini. Si occupava del
sindacato, praticava una strana cosa per me – l’entrismo nella CGIL – ma presto
fu il fondatore di uno dei primi CUB, quello della SIP appunto. Le riunioni sul
contratto dei postelegrafonici, alle quali m’invitò, non mi attiravano. Ci
capivo poco o niente. Sempre lui mi introdusse, quasi come in una Carboneria ai
suoi inizi, nel giro dei futuri fondatori di «Avanguardia Operaia». In
Via Ausonio, dalle parti di Sant’Ambrogio, dove allora c’era la sede di una
rivista che si chiamava «Falce e Martello», si tenevano un po’ di
riunioni. Ad una si affacciò anche Giangiacomo Feltrinelli in compagnia di una
donna elegantissima che portava al guinzaglio un levriero ancora più elegante.
Quel clima da Carboneria che si respirava in quegli incontri un po’ mi attirava
ma ero a disagio. Certi operai sindacalizzati, che rispettavo e un po’ temevo
perché sapevo bene di essere un ignorante sulle questioni sindacali ed economiche,
diffidavano di me. Sì, ero un lavoratore, un proletario, ma studente, e cioè un
po’ una pecora nera nel loro ambiente. E così non legai molto. Fui, invece,
immediatamente attratto dalle prime iniziative studentesche che portarono poi
all’occupazione della Statale. L’occupazione, l’occupazione! Controllo
sul Web: alla Statale iniziò il 23 febbraio 1968, mentre, tra
gennaio e marzo ’67, a Milano c’era stata già quella di Architettura; e il 17
novembre, sempre del ’67, quella della Cattolica .
4. Ricordo
non la data esatta ma alcuni particolari della prima manifestazione a cui
partecipai nell’autunno del ’67: una veglia per il Vietnam, allora sotto i
bombardamenti degli Stati Uniti. Di sera e fino a tarda notte in una
cinquantina di studenti o più occupammo simbolicamente la Statale. Mentre si
svolgevano trattative col rettore, rimanemmo tra i corridoi, l’atrio e il bar
interno, che era in un sottoscala. Per la prima volta mi fu facile
chiacchierare con studenti che prima mi erano del tutto estranei. Un piacentino,
rimasto per me senza nome, aveva con sé Verifica dei poteri di
Franco Fortini e mi consigliò di leggerlo. Un altro mi parlò de L’uomo
a una dimensione di Marcuse. Conobbi anche Giuseppe Manenti, studente
pure lui di Piacenza. Era dello Psiup e mi prestò la copia di una rivista a me
ignota: il numero speciale sull’America latina che i «Quaderni Piacentini»
avevano fatto insieme alla redazione di «Quaderni Rossi».
5.
Franco Fortini – lo scrittore italiano di cui ho poi letto, credo, tutti i
libri finora editi, che ho conosciuto di persona negli anni Ottanta e che molto
ha influito sul mio orientamento politico e culturale – lo vidi per la prima
volta proprio alla Statale occupata da pochi giorni. Doveva essere il 29
febbraio. Al pomeriggio c’erano stati attorno a via Festa del perdono scontri
tra studenti e fascisti con l’intervento della polizia. Mi accostai a un
capannello di studenti che all’ingresso dell’università commentavano le
aggressioni. C’era un adulto che discuteva con loro e colsi al volo una sua
frase:«Non bisogna strusciarsi addosso ai giovani». Mi parve una
raccomandazione rivolta ad altri ma anche a se stesso. Seppi più tardi che era
Fortini.
6. Nei
mesi dell’occupazione mi sentii un meridionale Renzo Tramaglino Marx alle prese
con un tumulto che gli era piovuto addosso inaspettato e che sconvolgeva le
regole – innanzitutto quella del rispetto per le autorità – a cui era stato
educato fin da ragazzo. In una delle prime assemblee in aula magna, quando fu
votata l’occupazione, venne il rettore in persona per rabbonire e dissuadere.
Appena cominciò a parlare e pronunciò la frase: «Noi spezziamo per voi il
pane del sapere», fu sommerso da ululati e fischi e dovette allontanarsi.
Ero incredulo. Non fischiai né urlai, ma provai un improvviso e ambivalente
sentimento di forza e di rivalsa. Sempre durante l’occupazione, qualche mese
dopo, quando a uno dei baroni più in vista, il terribile Cazzaniga, professore
di latino, che prima del ’68 durante gli esami si concedeva ampie libertà
specie con le studentesse (me lo raccontò un’amica), fu imposto di tenere gli
esami di gruppo alla presenza degli studenti del movimento, provai di nuovo
quel sentimento. Ragionandoci adesso, quella mobilitazione collettiva veniva
incontro alle mie difficoltà materiali di studente costretto a lavorare e a
partecipare alla gara universitaria portando addosso un fardello che gli altri
studenti non avevano. E tuttavia allora ero combattuto tra la vecchia e la
nuova morale che pareva delinearsi. E così mi trascinai a lungo un senso di
colpa per quell’esame di latino “agevolato”, tanto che anni dopo, agli
esami di abilitazione all’insegnamento, rifiutai di concorrere alla prova di
latino, proprio perché l’avevo studiato in modo insufficiente. Non so, dunque,
quanto sentissi giuste tutte le azioni dissacratorie e comunque di forza del
movimento studentesco. Eppure partecipavo convinto alle sue iniziative.
7. Fui
soprattutto un volenteroso apprendista politico. Ero incuriosito ma impacciato.
Prima non avevo avuto quasi nessun interesse esplicito per la politica. A
Milano, attraverso gli esami che davo, m’ero avvicinato alle questioni di
storia in generale e di storia del movimento operaio e, dunque, un po’ anche
all’opera di Marx e di vari marxisti, ma ora sentivo l’urgenza di esplorare al
più presto un continente ignoto o censurato (al liceo classico di Salerno il
professore di filosofia ci aveva fatto saltare Marx, perché “non importante”).
E perciò bazzicavo spesso nelle due librerie milanesi della Feltrinelli e
cominciai a comprare opuscoli politici e soprattutto riviste. Il loro
linguaggio era oscuro e complicatissimo, ma non desistevo. Così, sotto
l’influsso dei discorsi che ascoltavo, mi spostavo dai miei precedenti
interessi letterari e artistici. Le nuove letture non avevano quasi più nulla a
che fare con le mie precedenti di letteratura e arte, che nell’immediato
passarono in secondo piano. Partecipavo poi a quasi tutte le assemblee e a
diversi controcorsi. E riassumevo puntualmente con la stilografica prendevo
appunto dei principali interventi degli oratori. Quasi fossi un cronista. Lo
facevo per me, ma qualcuno, vedendomi così intento a scrivere, mi chiese una
volta se fossi un giornalista. A casa poi li trascrivevo a macchina con la mia
Olivetti lettera 42 aggiungendovi qualche mia impressione.
Perché
tanto zelo? Ero d’un tratto di fronte a una miniera disordinata di temi –
sociali, politici, economici, filosofici – trattati da persone in carne ed
ossa, studenti o docenti attivi nell’occupazione e dai più diversi e spesso
contrapposti punti di vista. In parte riuscivo ancora a collegarli ai miei
nuovi studi storici. In parte debordavano anche da quelli. Infatti, la lettura
quasi d’obbligo tra i partecipanti all’occupazione di vari quotidiani – dal «Corriere
della sera» a «L’Unità» al neonato «il manifesto» – mi
trascinava verso l’attualità più ribollente delle vicende nazionali e
internazionali (Vietnam, Berkley, Pantere nere, il ’68 a Parigi o a Berlino).
Almeno con la mente ero io pure scaraventato di forza, sempre sotto il pungolo
dell’occupazione, nel villaggio globale. Però restavo sconcertato dalle
contrapposizioni tra i vari gruppi studenteschi (del PCI, dello Psiup, dei
marxisti-leninisti, dei situazionisti, dei “capanniani”) che in teoria
avrebbero dovuto orientare uno come me. E non me la sentii mai di parlare nelle
affollatissime e spesso burrascose assemblee. Di rado lo feci nei controcorsi.
E spesso goffamente.
Una
volta m’infilai in un’aula non sapendo che c’era una riunione riservata a
studenti psiuppini o simpatizzanti. Aprii la porta e mi affacciai mentre lo
storico Stefano Merli aveva già cominciato a parlare; e mi trovai addosso gli
sguardi diffidenti, suoi e dei presenti. Dall’imbarazzo mi salvò Manenti,
dichiarando di conoscermi. Un’altra volta, durante un controcorso sulla
questione dell’università, mi azzardai a suggerire la lettura di un saggio
appena letto su «Quaderni Piacentini» (forse «Contro l’università»
di Viale); e fui fulminato da un’occhiata di sprezzo di Cafiero, che
presiedeva, e bloccato dal silenzio dei presenti. Provai comunque immediata
antipatia per le posizioni sostenute dal rappresentante del PCI e distanza
crescente dallo Psiup, malgrado la mia amicizia con Manenti. Poco mi convinsero
pure i situazionisti. Maggiore attenzione diedi all’unico, pacatissimo,
rappresentante dei «Quaderni Rossi». (Si chiamava Banfi, non ne ricordo
più il nome, ma lessi anni dopo che aveva scelto di fare l’operaio all’Alfa
Romeo di Arese). E ricordo con simpatia SalvatoreToscano, meridionale pure lui
e tra i leader della Statale sicuramente il più cordiale e alla mano, col quale
andai una volta insieme ad altri a incontrare dei delegati in una fabbrica di
Milano (non so più dove).
In
altri momenti cercai approcci più individuali a caccia di suggerimenti. Ne chiesi
a Stefano Levi Della Torre, che avevo ascoltato con interesse in una conferenza
nazionale in aula magna, dove erano convenuti leaderstudenteschi da
tutta Italia. Poi a Franco Della Peruta. Prima dell’occupazione avevo in mente
di dare con lui, che insegnava Storia del Risorgimento, la tesi su Gramsci e
gli intellettuali. In un colloquio gli confidai il mio interesse per un libro
di Gorz appena uscito, Il socialismo difficile, e ne ricavai una
delusione: non solo mi diceva di lasciar perdere quell’autore ma mi
raccomandava la lettura di uno scritto di Stalin sulla questione della lingua.
8. In
quell’anno ogni studio approfondito che potesse risolvere in un senso o
nell’altro le mie incerte simpatie, che ora andavano ai discorsi sul potere
operaio ora a quello sul potere studentesco, era intralciato e impossibile. A
causa dell’incalzare degli eventi, degli scontri coi fascisti e la polizia,
delle numerose manifestazioni per le vie centrali di Milano e della tensione e
euforia che respiravo ovunque. Malgrado il lavoro di notturnista, gli esami e
la tesi da preparare, la cura dei bambini, le rimostranze di mia moglie che si
sentiva trascurata, fui presente in alcune fluviali manifestazioni di piazza.
Ricordo
un enorme corteo di operai che partendo dalla Magneti Marelli di Sesto San
Giovanni si spinse a piedi fino a piazza Duomo; e che, dopo il comizio,
Pizzinato, uno dei dirigenti della CGIL, si affannò a dirottare lontano dalla
Statale occupata. Diversi operai però disobbedirono e alla fine, in aula magna,
si tenne una improvvisata ma sparuta assemblea di studenti e operai. Partecipai
pure ad alcuni picchettaggi in appoggio ai primi scioperi operai. Ho
dimenticato le date ma una volta mi alzai alla 5 del mattino per andare sul mio
motom da Cologno Monzese a fare picchetto davanti a una fabbrica milanese
(forse la Ferro Tubi?) vicina al Parco Solari. Un’altra mattina, sempre con
altri studenti della Statale, andai alla Innocenti di Lambrate per rinforzare
un picchetto che doveva impedire agli impiegati, che si rifiutavano di
scioperare, di entrare nella loro palazzina separata dallo stabilimento. I
picchetti erano un’occasione di sfida e di scontro, ma paradossalmente anche di
confronto. Fui presente anche in un’occupazione del rettorato della Statale, da
cui i poliziotti ci sgombrarono trascinandoci di peso fuori uno ad uno; e nella
protesta del 7 giugno – la data la desumo oggi ancora dal Web –
quando il movimento degli studenti di Milano bloccò l’uscita del «Corriere
della sera» dalla tipografia vicino via Solferino. Si volle denunciare la
faziosità di quel giornale nel dare la notizia dell’attentato di un estremista
di destra contro Rudy Dutskhe, il leaderdel SdS a Berlino (11
aprile 1968). E accadde che, uscendo con amici a mezzanotte dalla sede della
SIP in Piazza Affari alla fine del nostro turno di lavoro, vedemmo una marea di
studenti che bloccavano il traffico in piazza Cordusio e nelle vie adiacenti.
Il corteo si dirigeva lentamente verso la sede del «Corriere della Sera»
per duplicare in Italia la protesta fatta dagli studenti di Berlino contro il
giornale di Springer. Dopo un po’ iniziarono gli scontri. Una fila di
poliziotti avanzava verso l’incrocio tra via Pontaccio e Corso Garibaldi
picchiando ritmicamente i manganelli sugli scudi, che allora erano ancora
metallici. Sbandamento della folla. Persi di vista i miei amici, mi ritrovai in
mezzo a un gruppetto organizzato. Seppi che erano di «Potere Operaio» e
venivano da Roma. Uno di loro, per evitare che i poliziotti ci localizzassero,
centrò con mira formidabile la lampada del lampione che illuminava la stradina
in cui, inseguiti, ci eravamo rifugiati. Per la prima volta tirai anch’io qualche
sasso.
Comunque
mi andò bene. Non mi trovai mai coinvolto in scontri fisici diretti né con la
polizia né coi fascisti, anche se ne fui sfiorato almeno in tre occasioni: la
sera dell’accerchiamento del «Corriere della sera»; il pomeriggio in cui
ero all’interno della Statale al momento in cui i fascisti l’assaltarono
dall’esterno (probabilmente doveva essere in quel 29 febbraio che ho già
nominato); e ricordo che accompagnai un’amica che doveva telefonare
all’apparecchio a gettoni posto nell’atrio della Statale vicinissimo
all’ingresso mentre sul pavimento arrivano i sassi scagliati da fuori, ma
riuscimmo a uscire in un momento di tregua; una mattina presto quando per i
corridoi della Statale erano in giro ancora pochi studenti favorevoli
all’occupazione e un gruppo di fascisti penetrò dal cortile del Filarete; ma fu
respinto nell’atrio davanti l’aula magna, grazie alla prontezza di Cafiero, che
ci fece disporre in cordone.
9. Tra
legami coi dissidenti del PCI che poi confluiranno in «Avanguardia Operaia»,
assemblee e controcorsi nella Statale occupata e manifestazioni di piazza,
imboccai senza troppe teorizzazioni una traiettoria, che oggi mi è
chiarissima: da un atteggiamento a-politico o impolitico alla militanza
politica; dalle suggestioni del potere studentesco a quelle del potere operaio;
dalle intenzioni di scrivere la mia tesi di laurea su Gramsci e gli
intellettuali con Della Peruta alla scelta di farne una in storia contemporanea
con Franco Catalano sulla vicenda recentissima dei «Quaderni Rossi». La
preparai alla svelta e con affanno, come tante cose che allora si potevano fare
solo così; e in una università ancora in subbuglio. La discussi davanti a
Catalano e ad un distrattissimo Carlo Salinari che, ascoltandomi, non si
risparmiò una battuta contro l’”oscurità” del linguaggio di Raniero
Panzieri.
In
fondo su quelle mie scelte molto influirono i legami con le personefrequentate
quotidianamente. E forse la mia “svolta” operaista maturata proprio
durante l’occupazione mi rese più pronto a cogliere una richiesta che stavolta
mi venne proprio da Cologno Monzese. Degli operai che conoscevano mio suocero,
lui pure operaio in una piccola fabbrica di plastica, gli chiesero di
incontrarsi con qualche studente che avesse partecipato alle occupazioni delle università
a Milano. Misi su così un «Gruppo operai-studenti». E, dato che di
contratti, di salario o di cottimo, come già detto, capivo poco, mi rivolsi a
Luigi Vinci (di lì a poco diventerà uno dei principali dirigenti «Avanguardia
Operaia»), che ci aiutò a fare un’analisi meticolosa delle buste paga degli
operai metalmeccanici della Bravetti e della Panigalli, due piccole fabbriche
metalmeccaniche di Cologno Monzese, coi quali avevamo cominciato a riunirci. Un
altro milanese, Roberto Cerasoli, cominciò a tenere lezioni sul Manifesto di
Marx e il Che fare di Lenin. Ci riunivamo nel sottoscala di un
bar. E così diventai il tessitore di rapporti tra questi giovani operai di
piccole fabbriche, alcuni studenti delle scuole superiori di Milano (VII ITIS,
Molinari), che abitavano a Cologno, e «Avanguardia Operaia». Ma questa è
già storia del ’69.
10. Su
questo mucchietto di ricordi del ’68 torno spesso un po’ da storico e un po’ da
narratore:
Dal
fiume erano usciti nuotando in due, lo storico e Samizdat. Lo storico si era
asciugato e poi se n’era andato in disparte sotto un albero. Aveva inforcato
gli occhiali e, aperta la borsa ancora gocciolante, aveva cominciato a
riordinarne il contenuto: volantini, giornali, documenti, cassette con le
registrazioni delle voci di quegli anni. La sua mente ora lavorava, non del
tutto insensibile al fluire che continuava; ma ormai sopportava senza
preoccupazione la separazione dall’elemento acquoso e torbido nel quale fino a
pochi attimi prima era immerso.
Samizdat
invece era rimasto sotto un’arcata in ombra, che immetteva in una grande sala
illuminata dal neon. Temeva il convegno. Appena ascoltò le prime voci al
microfono che cominciavano a rievocare i fatti tremendi di quegli anni, fu
preso dal desiderio di ritirarsi in un cerchio di solitudine.
Ma, vista
l’aria che tira oggi, a cinquant’anni dal ‘68, non so più se parlarne possa
servire a qualcosa o a qualcuno. E allora, come il mio personaggio, sono
tentato io pure di ritirarmi «in un cerchio di solitudine» a riflettere
e a farmi domande per conto mio: feci bene a partecipare a quella rivolta di
studenti? feci bene a orientarmi verso l’operaismo? perché non avvenne una vera
saldatura tra noi in basso e i leader del movimento, i
fratelli politici (a volte maggiori di età e a volte minori) ai quali mi
accompagnai? perché non arrivai a prendere la parola in quei luoghi (assemblee,
controcorsi) che venivano presentati – ed in effetti furono – più liberi e
democratici delle istituzioni partitiche o degli organismi studenteschi pre-‘68?
soltanto per limiti miei e resistenze legate alla mia precedente educazione o
alla mia condizione di periferico? o troppe idee e cose “straniere”
entrarono di botto nella mia mente e nel mio cuore in quell’anno eccezionale e
quell’accelerato apprendistato politico non bastava? ci fu un limite effettivo
di democrazia nelle nuove forme di organizzazione (assemblee, controcorsi,
manifestazioni di piazza) che non erano in grado di reggere all’urto di bisogni
e desideri insoddisfatti e tendevano a chiudersi (come sostenne Elvio
Fachinelli in Gruppo aperto e gruppo chiuso? e come dimostrò
pure l’esperienza del femminismo subito dopo)? erano di gran lunga più potenti
e insidiose le sotterranee manovre dei partiti di destra ma anche di quelli di
sinistra per bloccare la rivolta e non si fu in grado di respingerle? ci fu un
limite di autorità, come sostenne Fortini ne Il dissenso e l’autorità?
e perché buona parte di quelle élites, i nostri compagni, che
sembravano i nuovi portavoce di noi intellettuali di massa e degli operai, si
riciclarono così presto nei posti di potere mentre tanti di noi si dispersero
rassegnati e delusi nelle filiere dell’insegnamento medio o superiore o nel
basso lavoro impiegatizio o altrove? Eccetera, eccetera.
11. Queste
domande le lascio a un eventuale lettore vecchio come me, che avesse
capito meglio di me il significato di quell’anno, in cui a me parve che «l’azzurro
respirato dai padri» nella Resistenza o nell’ Ottobre del 1917 potesse
ricomparire tra la nuvolaglia buia e opprimente della storia. Invece, a un meno
probabile giovane lettore di queste mie note, che voglio immaginare precario o
disoccupato e non “figlio di papà”, oltre a ricordare i famosi versi di
Brecht: «pensate a noi/ con indulgenza.», vorrei dire di come cambiò il
mio modo di sentire in quell’anno. Ero rientrato all’Università dalla porta di
servizio e prima dell’occupazione della Statale, quando a volte uscivo al
mattino dal turno di notte alla SIP e andavo ad ascoltare qualche lezione,
lasciando il motom incatenato a un palo della segnaletica vicino al muro di via
Festa del perdono, non sopportavo gli studenti borghesi, impettiti ed eleganti
che oziavano lì attorno; e lo stesso mi capitava quando a sera, sempre sul mio
motom, andavo a lavorare alla SIP nel palazzone di Piazza Affari, passando
davanti alla Scala illuminata per qualche concerto e sfiorando la dolce vita
dei signori. Soffrivo solitudine e esclusione sociale. Con la
partecipazione al ’68 un po’ ne uscii. Solo un poco. Perché mi accorsi presto –
e ancora devo citare Brecht – che anche nel movimento degli studenti «Anders
als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe!» (Diverse dalle lotte
sulle cime sono le lotte sul fondo!). Quando poi s’interruppe quel
frenetico ma fecondo lavoro di contrabbando intellettuale tra università e
esterno (bisognerebbe informarsi sull’ormai dimenticata esperienza delle «150
ore» partite nel 1973!), mi accorsi che dal ’68 avevo imparato comunque che
è possibile lottare assieme agli altri; e che potevo continuare a cercare
compagni con cui farlo. Sì, «sul fondo», anche scrivendo da solo i miei
poverissimi samizdat ciclostilati in proprio e distribuiti a
poche persone.
Caro
Ennio
non
sono uno dei vecchi cui poter passare le tue domande così cariche di problemi,
non ho capito meglio di te il significato di quell’anno. Di più, io festeggio
il ’68 tutti gli anni il 7 dicembre non perché a S. Ambrogio in quell’anno
Capanna strigliava i compagni poliziotti davanti a La Scala ma perché più
o meno nella stessa piazza (c’era un Motta) io e Adriana facevamo un piccolo
rinfresco dopo il matrimonio della mattina. Non voglio essere irriverente, è
che se riuscirò a parlare di quegli anni ( mi sono un po’ arenato nei miei
biograffiti) come fai tu (apprezzo il tono che dai alla tua narrazione) verrà
sicuramente fuori 1) che il mio ’68 era cominciato nel ’66 (perché ho
cominciato a insegnare da studente e che non aveva una lira in tasca, perché ho
conosciuto Adriana, perché ho conosciuto quelli di ‘Classe operaia’) e 2) che
in realtà per me non è mai finito. Anche a me interesserebbe un po’ di più
interloquire con un giovane, precario e disoccupato se proprio vuoi. Ma neanche
tanto. Quando arrivano in casa i giovani di Amazon o di altri servizi, postali
e non, mi confessano che amano il loro lavoro, durissimo ma pagato abbastanza e
non si preoccupano per niente di futuri e di pensioni e di cassa malattia.
Tutti a dire poveretti come sono sfruttati e c’è un po’ di miserabilismo
intorno a loro e invece poi scopri che fanno lotte non da poco. Ma un amico
della logistica ci sta dentro bene, lavora come nessun operaio fordista avrebbe
accettato di fare. Però nella logistica fanno lotte non da poco e scoprono
daccapo il mutuo soccorso, la solidarietà di un tempo. Accidenti c’è tutto un
mondo da cui ricominciare ma io non ho più la forza e interamente nemmeno la
voglia, seguo qualche situazione ma bisogna essere disperati come cani randagi.
Mi manca l’inchiesta sul campo collettiva, quella con la quale sono nato
politicamente, ma era fine ’67 con La classe, operai e studenti uniti nella
lotta. Poi c’è stato Potere Operaio (fino al 71 quando la deriva
insurrezionalista fece allontanare quasi tutti noi milanesi con Sergio
Bologna). Ma Sergio ci aveva già fatto fare il giro tra Pirelli, Alfa e
Mirafiori, e dopo il 3 luglio del ’69 non c’era stata quasi più storia
studentesca se non operaista: se proprio devo ‘circoscrivere’ (come mi ha
insegnato lo Zibaldone) il ’68 finisce la sua grande ondata nell’80 con la
passeggiata dei 40.000. Ma poi continua e oggi sono ancora qui che studio i
Grundrisse e il frammento sulle macchine, perché tutto è cominciato da lì, per
me ma non solo.
Ma ne
sai qualcosa. Abbiamo vicende comuni. La mia tesi con Catalano, dopo avere
tradito Della Peruta col quale avevo stabilito una bella amicizia, era come te
sui Quaderni Rossi ma poi proseguiva con Classe operaia. Era pronta da tempo ma
la militanza mi ha bruciato un paio di anni. Ero, come sempre, fuori tempo
massimo con gli studi (come te ho lavorato, dopo la maturità afferrata per il
collo, come impiegato contabile (!) per un anno e poi quasi un anno come
sguattero a Colonia), ma in quegli anni casa mia, prima della sua sede
ufficiale in G. Modena, di P.O. è stata per più di un anno la sede. Lì è
successo di tutto. Poi poi. Non lo so se ci riuscirò a ricostruire quei miei
anni. Ma credo che tutti dovrebbero farlo. Senza piangersi addosso. E
recuperare anche alla memoria i nostri anni d’insegnamento perché la scuola
come ci abbiamo insegnato noi è stata una bella scuola sul serio, il ’68,
studentesco e operaista è andato avanti con noi nella scuola, non a caso
abbiamo insegnato negli IPSIA, negli ITIS, ed è stata scuola di democrazia, di
conflitto, di rifiuto della parte sclerotizzata del nostro umanesimo. Ma
eravamo già da prima nella scuola: con il terzo anno di iscrizione alla Statale
ho ottenuto appunto già nel ’66 il mio primo anno scolastico di supplenza,
incredibile, era la scuola di massa che avanzava ed è stata prodromica al ’68.
La scolarizzazione di massa faceva aprire scuole dappertutto. ll mio ’68, anche
in questo senso, era già cominciato. Quella era per se stessa una spallata
incredibile all’ancien regime, nelle scuole arrivarono a insegnare studenti che
portavano con sé un’aria libertaria e anche un po’ libertina, che sbaraccavano
in quattro e quattr’otto metodi e ritmi della scuola. Ma trasmettevamo cultura
alternativa, più di quanta noi stessi credessimo. I ragazzi ci volevano bene. I
presidi no. L’antiautoritarismo dispiegatosi in quegli anni per me fu quasi un
naturale portato di rottura con certi padri, almeno i miei, silenziosi,
fascisti, piccolo borghesi, con la verità in tasca, succubi e servi in una
città dominata da una borghesia industriale nera, autoritaria e cattiva, che
all’università governava come signori feudali. Da allora la scuola non poteva
più essere come prima. Magari abbiamo residuato solo coscienza sindacale, beh
buttala via oggi, e comunque le tessere sindacali le abbiamo a un certo punto
stracciate.
Ma i
figli degli operai ai quali abbiamo insegnato il pensiero critico non
residuarono solo straccioneria. Molti hanno studiato. Roberto, figlio di un
operaio dell’Alfa, mi disse un giorno: guarda le lotte pagano, mio padre non
deve più tenere le braccia alzate alla catena e si stanca la metà, io però in
fabbrica non ci vado, piuttosto faccio la fame ma non ci vado sotto padrone.
Non
sono queste conquiste di libertà da tramandare? Beh, figli a parte, oggi spero
nei miei nipotini (tre)!
Il
deserto si è allargato in maniera inverosimile ma qualche oasi (WEB compreso)
c’è ancora. Tutto il resto per ora è solo concepito.
SUL ’68 DI ENNIO
di Franco Romanò
Caro
Ennio, viste le difficoltà crescenti con cui mi avvicino al mio ’68, alla fine
ho letto il tuo, molto bello, anche se forse questo aggettivo può sembrare
abusato. E invece lo uso con piena consapevolezza. Alla fine del tuo viaggio ho
capito che l’approccio che avevo in mente è del tutto analogo e cambia poco se
il mio treno non veniva dal sud ma dal profondo nord della Brianza, che è a sua
volta – nel mio immaginario – un altro sud. Ho sempre pensato che la Brianza
profonda abbia qualcosa che l’assimila antropologicamente all’Alabama e
avendolo scritto prima che la Lega Lombarda nascesse penso di avere qualche
ragione dalla mia parte. Inoltre, una cospicua parte narrativa di quello che è
il mio ’68 è finito in un romanzo che nessun editore per il momento ha scelto
di pubblicare, anche se non demordo.
La
ricostruzione del tuo percorso è convincente perché non è solo il tuo ed è
scritto in uno stile che permette a ciascuno di ritrovare il proprio ’68:
questo mette in moto ricordi e anche un po’ di nostalgia, che non guasta.
Infine c’è un passaggio che per me è un vero cammeo: l’eleganza del levriero al
guinzaglio della occasionale compagna di Feltrinelli dice molto senza spiegare
nulla. Alla fine, ho rinunciato a scrivere del mio ’68.
Però
poi, a conclusione del tuo viaggio, poni delle domande politiche che vanno
oltre la narrazione ed è su alcune di queste (le riporto qui sotto) che vale la
pena invece di soffermarsi e tentare di rispondere ed è quello che cercherò di
fare, avendo in testa una linea precisa di ricerca e cioè che il modo
politicamente meno angusto di ricordare il ’68 è quello di collocarlo
all’interno di un ciclo più lungo della storia italiana che parte dai fatti di
Piazza Statuto del 1962 e finisce con la marcia dei 40.000 della Fiat nel 1980.
Mi rendo conto che è materia da storici, ma lo è anche da militanti quali, con
tutti i limiti e le differenze di ruolo e coinvolgimento personali, siamo
entrambi stati. Ripercorrere questa storia significa anche farlo alla luce di
quello che sono state le pagine nobili e le sue sconfitte. Queste ultime hanno
le loro ragioni negli assetti politici che le potenze vincitrici imposero
all’Italia alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Tali ragioni sono state
quasi del tutto ignorate da parte di movimenti e forze politiche extra
parlamentari che si formarono in quegli anni. La parola ignorate non
va presa alla lettera, visto che non facevamo altro che parlar di Cia e del
ruolo degli Usa. Ho condensato in un ossimoro di cui ho discusso anche con
Paolo Rabissi il senso della parola ignorate: Avevamo ragione su tutto
ma non ci abbiamo capito nulla.
Vengo
ora alle tue domande, rispondendo alle quali mi auguro anche di sciogliere un
po’ il significato dell’ossimoro.
… Ma,
vista l’aria che ira oggi, a cinquant’anni dal ‘68, non so più se parlarne
possa servire a qualcosa o a qualcuno. E allora, come il mio personaggio, sono
tentato io pure di ritirarmi «in un cerchio di solitudine» a riflettere e a
farmi domande per conto mio: feci bene a partecipare a quella rivolta di
studenti? feci bene a orientarmi verso l’operaismo? perché non avvenne una vera
saldatura tra noi in basso e i leader del movimento, i fratelli politici
(a volte maggiori di età e a volte minori) ai quali mi accompagnai?
Comincio
da queste per dire subito che secondo me facesti bene, come ognuno di noi fece,
a partire dal luogo (da non intendersi solo in senso fisico) in cui si trovava
quando fu trascinato dalla forza di quegli eventi a farne parte e a cercare di
capire. Io ebbi, dopo molte oscillazioni, una propensione verso il maoismo, ma
questo è ormai irrilevante. Rilevante è invece ricordare che da quell’ondata,
che iniziava da prima di noi e cioè proprio nel 1962, e che avremmo imparato
nel tempo scoprire, nacquero le più grandi conquiste civili di questo paese che
metto nell’ordine in cui le ricordo:
§
La
legge 180 voluta da Franco Basaglia e Franca Ongaro.
§
Lo
statuto dei lavoratori, grazie alla determinazione di molti e alla
cocciutaggine di un uomo che nessuno ricorda: Brodolini.
§
La
legge 194 sull’interruzione di gravidanza.
§
Una
copertura sanitaria per alcuni anni fu addirittura totale e sulle spalle delle
fiscalità generale.
§
L’unificazione
del punto unico di scala mobile.
§
Le 150
ore
§
Laura
Conti, Giulio Maccaccaro, Ercole Ferrario, per tutto quello che ci insegnarono
e fecero attivamente per denunciare la non neutralità della scienza, per dire
che sicurezza sul lavoro e salute non sono monetizzabili e nel concretizzare un
discorso ambientale che sapeva unire insieme sua nell’analisi sia nell’azione
concreta problemi ambientali e tensione anti capitalistica.
Questi
sono solo gli aspetti più istituzionali: ma come non ricordare quello che
nasceva e si sviluppava in un rapporto antagonista, a volte, altre volte con
accordi parziali, con le istituzioni: dal movimento di occupazione delle case,
la nascita dei consultori e dei centri anti violenza, l’autocoscienza che ebbe
un influsso forte anche sugli uomini, i gruppi di autocura e chissà quante cose
ho dimenticato. Lascio per ultimi consapevolmente i consigli operai, il vero
centro e nucleo delle lotte di quegli anni, sia per quello che rappresentavano
in sé, sia per quello che significavano per tutti gli altri lavoratori e
lavoratrici, non operai nel senso proprio del termine; a cominciare per gli insegnanti,
come eravamo noi.
Tutto
questo, intendiamoci, non è una risposta alla tua ultima domanda, quella forse
più pregnante, e cioè perché la saldatura fra i fratelli maggiori e minori non
ci fu o ci fu solo in parte. Tuttavia, questa domanda, cui cerco subito di
rispondere, non può cancellare a mio avviso tutto quello che ho ricordato in
precedenza.
La
saldatura in parte ci fu, per esempio con la generazione grazie alla quale
scoprimmo o riscoprimmo il valore della Resistenza Antifascista, solo che ci
trovammo ad affrontare un dilemma non da poco: un aspetto fondamentale
del ’68 fu anche quello di non riconoscersi nei padri e dei padri rifiutavamo
anche le tendenze autoritarie presenti nella generazione resistenziale, cui pur
guardavamo con sentimenti di riconoscenza. E poi Freud, che scoprivamo in
quegli anni, ci insegnava pure che i fratelli, una volta che si sono liberati
del padre, non è che sappiano bene cosa fare. Tuttavia, penso che tutto questo
sia vero ma che manchi qualcosa di decisivo e cioè che scoprivamo un po’
traumaticamente come uomini che il mondo non era fatto solo di fratelli ma anche
di sorelle e che queste ultime si ribellavano ai padri come noi ma anche ai
fratelli che noi eravamo.
…
erano di gran lunga più potenti e insidiose le sotterranee manovre dei partiti
di destra ma anche di quelli di sinistra per bloccare la rivolta e non si
fu in grado di respingerle?
Sì, nel breve e nel medio
tempo fu così e questa tua domanda mi dà modo di ritornare sull’ossimoro e
cercare di spiegarlo. Erano più potenti perché noi ci affacciavamo sulla grande
storia e non potevamo di certo conoscerla in partenza e non potevamo sapere in
quel momento dentro quali vincoli internazionali e quanti e quali non detti (da
entrambe le parti che combattevano la Guerra Fredda) agivano sotterraneamente.
Qualcosa intuivamo eccome, anzi molto di più e questo è il senso della prima
parte del mio ossimoro: avevamo ragione su tutto. Lo capivamo
però astrattamente – anche dopo la strage di Piazza Fontana – e non nella
concretezza fattuale e profondità e dunque non ci abbiamo capito
nulla. C’era in questo anche un atteggiamento positivo, cioè
dell’andare oltre un limite che, peraltro, nessuno veramente indicava perché
per opposte ragioni – che a sinistra talvolta erano anche nobili ma altre volte
no – tutti avevano la necessità di difendere ragioni indicibili. In particolare
ci mancò la capacità di capire in fretta che la definizione di Guerra Fredda
era un’ipocrita e tragica definizione che occultava la realtà dei fatti: una
guerra calda e senza esclusione di colpi ma combattuta con i metodi della
guerra asimmetrica e del terrorismo di stato; una guerra in cui l’Italia si
trovava al centro. La stessa narrazione sui cosiddetti servizi deviati,
avallata anche a sinistra, fu un altro strumento di occultamento della realtà.
Chi
pretese di capire di più e per questo scelse la lotta armata (cercando appoggi
più o meno consapevoli con il campo socialista) cercò una scorciatoia che si
rivelò la catastrofe che sappiamo, tutti gli altri furono presi nel mezzo, ma
non si riuscì a fare molto di più. Non credo però che possiamo essere mal
giudicati per questo: anzi a me sembra un miracolo che abbiamo contribuito nel
tempo a tenere comunque vive certe istanze.
Ora
sappiamo tutto e non sto usando un’iperbole, anzi mi prendo la responsabilità
di affermare che di misteri non ce ne sono più, dopo la pubblicazione
recente di alcuni libri – fra cui in primis quelli di Fasanella e Giannuli.
Ci sono
dei dettagli da chiarire, il ruolo di alcuni personaggi chiave può essere
ritenuto ambiguo, ma il perimetro politico in cui s’inscrivono e il senso complessivo
di certi fatti, a cominciare da Portella della Ginestra, poi dal Piano Solo del
1964, per passare dalle stragi e per finire con il rapimento e l’assassinio di
Aldo Moro, sono chiari ed evidenti. Il puzzle è finito e se qualche casella
rimane ancora vuota, oppure può essere riempita da attori e figurine diverse,
questo non impedisce di leggere bene la figura. Anzi, continuare nella
narrazione che avalla l’esistenza di misteri significa a questo punto non fare
i conti con la realtà, significa non voler vedere e non voler sentire che in
Italia non manca appunto lo scioglimento dei misteri, bensì un discorso
sulla verità che forse non verrà mai ma che trovo assurdo non chiedere
comunque. Penso a un gesto come quello che compì Willy Brandt davanti al monumento
di Auschwitz. Un establishment come quello italiano non è in grado di farlo, ma
penso sia legittimo pretenderlo o sollevare il problema.
Infine,
cito l’ultima parte del tuo scritto:
… mi
accorsi presto – e ancora devo citare Brecht – che anche nel movimento
degli studenti «Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der
Tiefe!» (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo!).[1] Quando
poi s’interruppe quel frenetico ma fecondo lavoro di contrabbando intellettuale
tra università e esterno (bisognerebbe informarsi sull’ormai
dimenticata esperienza delle «150 ore» partite nel 1973!), mi
accorsi che dal ’68 avevo imparato comunque che è possibile lottare
assieme agli altri; e che potevo continuare a cercare compagni con cui farlo.
Sì, «sul fondo», anche scrivendo da solo i miei poverissimi samizdat
ciclostilati in proprio e distribuiti a poche persone.
Ecco, e se fosse tempo di
ricominciare?
[1] Dal frammento La
bottega del fornaio.