L'irruzione è sul piazzale delle passioni, la squadra
di operai non tende un agguato, tutto il deciso è esibito.
Colpiscono al corpo risparmiano il viso.
Il giovane sardo, amante della greca,
si affloscia sull'erba, umida nel crepuscolo.
Quella squadra di greci contende in fabbrica ai capi
il comando del lavoro, nel campo difendono antichi diritti,
sanciti dall'uso patriarcale, alla proprietà del corpo
e del cuore delle proprie donne.
Diario in rete di Paolo Rabissi iniziato nel settembre del 2011. Fino al giugno del 2012 ho scritto qui, con riflessioni anche in righe, il poemetto: Inverno a Colonia. Col tempo è diventato parte di un progetto più vasto concluso nel 2017 e che comprende altri tre poemetti. Il tutto verrà pubblicato conservando il titolo generale di Inverno a Colonia. Il diario si è nel frattempo arricchito di saggi critici, recensioni, discussioni nonché presentazioni di iniziative pubbliche.
mercoledì 30 novembre 2011
martedì 29 novembre 2011
Il maschio latino, dice Claudio, misura
il necessario col disponibile, come scambio
naturale tra cacciatore e preda.
La ripetizione per lui è un atto d'amore
ma è solo performance del genio,
raramente la preda piegata al bisogno
conosce attrazione e desiderio.
Se accade si liberano voci
per favole, racconti e incontri d'amore.
il necessario col disponibile, come scambio
naturale tra cacciatore e preda.
La ripetizione per lui è un atto d'amore
ma è solo performance del genio,
raramente la preda piegata al bisogno
conosce attrazione e desiderio.
Se accade si liberano voci
per favole, racconti e incontri d'amore.
lunedì 28 novembre 2011
Se nostalgia lo preme Orlando
ti porta in città, nella latteria italiana
che apre sul retro stanze riservate.
Lo salutano con deferenza
ma si vede che il posto migliore
è destinato ad altri, al boss in tweed,
col solitario al mignolo.
Racconta di sé. Ma è la mano a disegnare
nell'aria tempi inenarrabili a parole.
Di regine di strada. Di battute di caccia.
ti porta in città, nella latteria italiana
che apre sul retro stanze riservate.
Lo salutano con deferenza
ma si vede che il posto migliore
è destinato ad altri, al boss in tweed,
col solitario al mignolo.
Racconta di sé. Ma è la mano a disegnare
nell'aria tempi inenarrabili a parole.
Di regine di strada. Di battute di caccia.
domenica 27 novembre 2011
A volte la memoria si attarda su spazi pieni
incurante che il vuoto e il nulla
sono solo apparenti. La rete invisibile
delle passioni tiene in tensione i due campi.
Anche a sera quando la cantina è deserta.
L'alcool sgrava dalla solitudine
che il juke box non addomestica.
I dormitori sono tutti al buio,
solo i due cuochi amanti
rompono a tratti il silenzio.
incurante che il vuoto e il nulla
sono solo apparenti. La rete invisibile
delle passioni tiene in tensione i due campi.
Anche a sera quando la cantina è deserta.
L'alcool sgrava dalla solitudine
che il juke box non addomestica.
I dormitori sono tutti al buio,
solo i due cuochi amanti
rompono a tratti il silenzio.
sabato 26 novembre 2011
La seconda parte, che avrei in animo di chiamare 'La nostalgia di Orlando', ha ora la sua prima stanza. La mappa, pretesto per l'incipit della prima parte, 'La solitudine di Schenk', qui è diventata una carta geografica. Ma la mappa era metonimica alla memoria, era un invito astratto, come una sosta della coscienza all'operazione voluta di una ricognizione a volo di uccello sui due campi. Qui invece la carta geografica è proprio riferimento toponomastico alla posizione di Colonia, sulla sponda sinistra del Reno.
***
***
***
La carta geografica segnala confini,
fiumi, laghi, lo sguardo forza la memoria
penetra in basso fino al reticolo di strade,
vede parchi sotto la neve, il Reno
che lima le sponde, sente stridere i gabbiani.
La neve sulle guglie del Duomo
di Colonia vela marmi tagliati
di Colonia vela marmi tagliati
in stile italiano. Gli spazi vuoti fanno
geometrie verticali,
nella neve di febbraio la sosta all'interno
è su note di Johann Sebastian Bach.
***
Ce l'ho qui davanti a me, in un'altra finestra aperta nel browser, la cartina geografica di Colonia e dintorni, per verificare quanto la città disti dal confine con la Francia. A dar retta alla memoria liceale la città doveva confinare direttamente con la Gallia. In realtà Colonia è in pieno territorio germanico. Nonostante sia sul Reno, antico limes romano, occorre procedere verso Ovest per almeno un centinaio di chilometri per incontrare un confine, che è poi quello dell'Olanda. Ma la lettura di Cesare, e del suo De bello Gallico, ha lasciato segni indelebili. Sconfitti gli Elvezi, Cesare scatena le sue legioni contro Ariovisto che ha invaso la Gallia oltrepassando il Reno. Che dunque in effetti faceva da confine tra Galli e Germani. Tuttavia popolazioni germaniche si erano da tempo stabilite qua e là sulla sinistra del Reno e al tempo della guerra portata da Cesare erano già più di centomila, forse centocinquantamila. La battaglia avvenuta in Alsazia, nella quale Ariovisto viene sconfitto, costò, a sentire Appiano, la morte di più di ottantamila soldati tedeschi. Anche se l'Alsazia si stende in un territorio molto a sud rispetto a Colonia, anche questo episodio mostra che il Reno funzionava da confine, forse un po' meno 'naturale' di quanto sostiene Cesare al quale tornava più di conto che lo fosse contro l'evidenza degli stanziamenti, a causa della sua maggiore difendibilità. Anche il territorio di Colonia conosceva tratti non superficiali di cultura e vita germaniche. Del resto in esso si stabilì definitivamente, intorno al 40 a.c., la tribù degli Ubi, popolazione germanica che al di là del Reno non aveva pace per la guerra continua che gli Svevi, potente tribù della Germania più centrale, portava loro. Da quel momento romani e germani diedero vita a un'importante base militare che fu innalzata al rango di 'colonia' da Agrippina, figlia dell'imperatore Claudio, dalla quale prese il nome appunto di Colonia Agrippina.
Ho chiesto al browser una mappa di Colonia come è oggi. Zoomando nel centro ho ritrovato Hohe strasse, la strada che allora colpì oltremodo la mia fantasia. Il traffico automobilistico era vietato, le vetrine dei negozi si protendevano fin sulla strada in cubi e parallelepipedi di vetro. Un fluire di persone su e giù in un'atmosfera molto tranquilla. Ho rintracciato la lunga strada che saliva verso la periferia di nord est e sulla quale, uno dietro l'altro a distanza dovute, ancora in quel 1963, erano stanziati campi militari, ciascuno in rappresentanza di una delle forze armate alleate della guerra mondiale. Nell'ultimo di essi, quello inglese (diviso in due campi, uno riservato alla RAF, l'altro al personale di servizio per lo più tedesco), fui assunto come kitchen boy e lì rimasi fino al mio rientro.lunedì 21 novembre 2011
La ripetizione è un atto d'amore.
Una frase, anzi un verso, che ho conosciuto circa dieci anni fa. Uno di quegli incontri che hanno il potere di modificare non la realtà ma la percezione che hai di essa. Ancora oggi serbo riconoscenza verso l'autore presso cui l'ho conosciuta, un noto poeta milanese (conservo almeno per ora la scelta di non dichiarare i nomi interi, o di nominare solo le iniziali, di amici, poete e poeti viventi, al contrario dei non più viventi), e questo indipendentemente dal fatto che anche altri possano averla detta.
Ci rifletto oggi perché mi sono imbattuto nella sua negazione.
E anche questa volta è stata una sorta di folgorazione. Andiamo con ordine.
A giudicare dall'accoglienza istintiva che ho riservato a suo tempo a quell'espressione direi che l'assunto sottinteso, che la ripetizione non ha nulla a che vedere con l'amore, doveva avere in me radici superficiali. Tuttavia c'erano, ma alimentavano più un atteggiamento, contratto in circostanze poco interessanti, una postura d'imitazione, un certo rifiuto snob, come se il rifuggire dalla ripetizione di gesti, situazioni, incontri contribuisse a garantirmi l'immagine di afflitto da ennui de l'existence, che negli anni cinquanta affascinava, un po' confusamente, i giovani come me. Relegato quell'atteggiamento nella memoria e con quella disposizione d'animo dell'uomo adulto pronta a spostarsi sui margini simmetricamente opposti a un vissuto giovanile, superficiale o meno che fosse, quando mi sono imbattuto in quel verso l'ho riconosciuto come mio e l'ho pronunciato in tante occasioni. Con la stessa determinazione che si ha quando si è mossi dal ritenere che nominare una cosa significhi comprovarne l'esistenza.
Ieri sera stavo addormentandomi sulle pagine di 'Empirismo eretico' di Pier Paolo Pasolini. E ho perso completamente il sonno quando nella sua disamina sulla lingua nazionale italiana si sofferma sul carattere dello slogan pubblicitario.
Che abbia una sua carica di espressività potente lo sappiamo tutti da tanto tempo. Non a caso, dicevo qualche giorno fa in uno di questi post, usavo gli slogans pubblicitari con i ragazzi a scuola per fargli capire qualcuna delle figure retoriche più usate nella scrittura. La potenza espressiva degli slogans, dice però Pasolini, viene completamente annullata dalla sua ripetitività soprattutto nella televisione: '...attraverso la ripetizione la sua espressività perde ogni carattere proprio, si fossilizza, e diventa totalmente comunicativa, comunicativa fino al più brutale finalismo'. Che ovviamente è quello di fissare nella testa di chi ascolta e guarda la necessità di possedere l'oggetto reclamizzato.
Non sempre la ripetizione è un atto d'amore.
Una frase, anzi un verso, che ho conosciuto circa dieci anni fa. Uno di quegli incontri che hanno il potere di modificare non la realtà ma la percezione che hai di essa. Ancora oggi serbo riconoscenza verso l'autore presso cui l'ho conosciuta, un noto poeta milanese (conservo almeno per ora la scelta di non dichiarare i nomi interi, o di nominare solo le iniziali, di amici, poete e poeti viventi, al contrario dei non più viventi), e questo indipendentemente dal fatto che anche altri possano averla detta.
Ci rifletto oggi perché mi sono imbattuto nella sua negazione.
E anche questa volta è stata una sorta di folgorazione. Andiamo con ordine.
A giudicare dall'accoglienza istintiva che ho riservato a suo tempo a quell'espressione direi che l'assunto sottinteso, che la ripetizione non ha nulla a che vedere con l'amore, doveva avere in me radici superficiali. Tuttavia c'erano, ma alimentavano più un atteggiamento, contratto in circostanze poco interessanti, una postura d'imitazione, un certo rifiuto snob, come se il rifuggire dalla ripetizione di gesti, situazioni, incontri contribuisse a garantirmi l'immagine di afflitto da ennui de l'existence, che negli anni cinquanta affascinava, un po' confusamente, i giovani come me. Relegato quell'atteggiamento nella memoria e con quella disposizione d'animo dell'uomo adulto pronta a spostarsi sui margini simmetricamente opposti a un vissuto giovanile, superficiale o meno che fosse, quando mi sono imbattuto in quel verso l'ho riconosciuto come mio e l'ho pronunciato in tante occasioni. Con la stessa determinazione che si ha quando si è mossi dal ritenere che nominare una cosa significhi comprovarne l'esistenza.
Ieri sera stavo addormentandomi sulle pagine di 'Empirismo eretico' di Pier Paolo Pasolini. E ho perso completamente il sonno quando nella sua disamina sulla lingua nazionale italiana si sofferma sul carattere dello slogan pubblicitario.
Che abbia una sua carica di espressività potente lo sappiamo tutti da tanto tempo. Non a caso, dicevo qualche giorno fa in uno di questi post, usavo gli slogans pubblicitari con i ragazzi a scuola per fargli capire qualcuna delle figure retoriche più usate nella scrittura. La potenza espressiva degli slogans, dice però Pasolini, viene completamente annullata dalla sua ripetitività soprattutto nella televisione: '...attraverso la ripetizione la sua espressività perde ogni carattere proprio, si fossilizza, e diventa totalmente comunicativa, comunicativa fino al più brutale finalismo'. Che ovviamente è quello di fissare nella testa di chi ascolta e guarda la necessità di possedere l'oggetto reclamizzato.
Non sempre la ripetizione è un atto d'amore.
mercoledì 9 novembre 2011
Stato della manutenzione. Esondazioni, novembre 2011
c'è tempo tutto novembre perché cadano
tutte le foglie d'autunno e se ostruiscono
tombini e vie di sfogo sotterranee
l'incuria della città è pari a quella a monte
e a quella a valle, tutta una via di fuga
fino al mare dove prima o poi spurgano
tutte le civiltà e anche infine la nostra specie
che ha tempo tutto questo novembre e molti ancora
il tempo medio di sopravvivenza d'una specie
essendo abbastanza lungo
tranne per certune e per l'orso bruno marsicano
che ha solo una cinquantina di parenti vivi,
faremo di meglio, l'impegno nelle pianure
dello Yangtze e alla foce del Magra non manca,
siamo specie dissipativa imperfetta
ma faremo prima di scarafaggi e colibrì.
tutte le foglie d'autunno e se ostruiscono
tombini e vie di sfogo sotterranee
l'incuria della città è pari a quella a monte
e a quella a valle, tutta una via di fuga
fino al mare dove prima o poi spurgano
tutte le civiltà e anche infine la nostra specie
che ha tempo tutto questo novembre e molti ancora
il tempo medio di sopravvivenza d'una specie
essendo abbastanza lungo
tranne per certune e per l'orso bruno marsicano
che ha solo una cinquantina di parenti vivi,
faremo di meglio, l'impegno nelle pianure
dello Yangtze e alla foce del Magra non manca,
siamo specie dissipativa imperfetta
ma faremo prima di scarafaggi e colibrì.
giovedì 3 novembre 2011
Sbarazziamoci dell'autunno affrontiamo
l'inverno, dice Dieter, la giustizia non viene da Est,
nemmeno da Ovest gli fa eco Claudio.
Sul piazzale Claudio aggredisce Dieter
rientrante al dormitorio, lui prende servizio
nel pub per gli ufficiali proprio a quell'ora
verso le dieci di sera è bevuto, come tutti.
Tell me Italia, tell me Italia...
Claudio triestino ha un perfetto inglese
ma Saba e Svevo non fanno argomento.
l'inverno, dice Dieter, la giustizia non viene da Est,
nemmeno da Ovest gli fa eco Claudio.
Sul piazzale Claudio aggredisce Dieter
rientrante al dormitorio, lui prende servizio
nel pub per gli ufficiali proprio a quell'ora
verso le dieci di sera è bevuto, come tutti.
Tell me Italia, tell me Italia...
Claudio triestino ha un perfetto inglese
ma Saba e Svevo non fanno argomento.
martedì 1 novembre 2011
Certo l'abitudine. Basta non equivocare. Nulla a che vedere col vizio. La differenza è, per fare un esempio storico, tra chi conta le sillabe per fare endecasillabi e chi 'pensa' in endecasillabi. Quest'ultimo prima scrive e poi verifica. Al massimo gli sarà scivolata qualche zoppia in un verso, una sillaba strozzata o troppo allungata. E' la differenza che passa tra chi traduce da una lingua straniera vocabolario alla mano e chi 'pensa' in quella lingua. In tutti i casi alle spalle ci sono studio e preparazione infiniti. Che si acquistano quando?
Per riparare allo stato attuale della poesia occorrerebbe che poeti, laureati o no, si rinchiudessero per tempo indefinito in solitaria meditazione. Così sostiene l'amico G. mentre festeggiamo il suo compleanno. Ma non ci credo. Quanto hai da proporre in versi nasce dentro la vita attiva. L'isolamento non è per sé garanzia di nulla. A meno che non sia un bisogno concreto e personale: del resto, rispondere a un bisogno del corpo e della mente, è vita attiva. L'esperienza dei mistici, più ancora delle mistiche, lo dimostra. Prosit.
Per riparare allo stato attuale della poesia occorrerebbe che poeti, laureati o no, si rinchiudessero per tempo indefinito in solitaria meditazione. Così sostiene l'amico G. mentre festeggiamo il suo compleanno. Ma non ci credo. Quanto hai da proporre in versi nasce dentro la vita attiva. L'isolamento non è per sé garanzia di nulla. A meno che non sia un bisogno concreto e personale: del resto, rispondere a un bisogno del corpo e della mente, è vita attiva. L'esperienza dei mistici, più ancora delle mistiche, lo dimostra. Prosit.
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