martedì 5 novembre 2024

Sulla schiavitù in Italia, di Sergio Fontegher Bologna

Sogno anch'io, come l'autore di questo articolo (sulla rivista on line L'ospite ingrato), la diffusione di massa di opposizione a quanto viviamo. L'umiliazione del lavoro anzitutto. A me basterebbe anche un clima come quello che c'era negli anni settanta quando, cito a memoria, gli addetti di un motel sull'autostrada  si rifiutarono di servire a tavola un noto fascista di allora e di oggi.


Il 17 giugno 2024 Satnam Singh, un bracciante indiano di 31 anni che lavorava senza contratto nei campi di un’azienda agricola nei dintorni di Latina, è rimasto incastrato in un macchinario che gli ha staccato un braccio e fratturato le gambe. Nessuno ha chiamato i soccorsi. Il datore di lavoro di Satnam Singh lo ha caricato su un furgone e lasciato davanti al cancello di casa sua, insieme al braccio tranciato appoggiato in una cassetta della frutta. Satnam Singh è morto mercoledì 19 giugno a causa delle ferite e del ritardo fatale con cui sono stati chiamati i soccorsi che avrebbero potuto salvarlo.


Vorrei riuscire a capire cosa manca nel discorso sulla schiavitù, cosa impedisce di cogliere la dimensione che va ben oltre una storia di “ordinario disordine”. Vorrei riuscire a capire cosa ci ha fatto pensare che si tratta di un caso estremo di sfruttamento, dove c’è sottovalutazione, complicità a tutti i livelli, ipocrisia, parole al vento, piagnistei ma anche volontariato, persone generose, coraggiose, che documentano e denunciano, una storia, come tante, fatta di 40% di complicità, 59% d’indifferenza e 1% di “bontà”. Una storia estrema quanto si vuole ma che rientra in quella categoria fin troppo conosciuta di “ordinario disordine”. Abbiamo parlato mille volte di conseguenze del neoliberalismo ma non basta, non bastano i discorsi che stiamo facendo dagli anni 80, quei discorsi che non ci stanchiamo di riformulare quando parliamo di precariato, di neet, di bassi salari, di contratti pirata, di false cooperative. C’è un’altra dimensione che non abbiamo ancora nominato.

E l’assenza di questa dimensione risulta particolarmente evidente quando si parla di accoglienza, salvataggi in mare, scafisti, Lampedusa, rotta balcanica. Com’è possibile che il discorso sull’accoglienza si fermi a metà, concentrando i riflettori solo sul viaggio dei disperati, sull’esodo e poi i riflettori si spengono? Com’è possibile che il Governatore della Banca d’Italia ci venga a ricordare che, data la crisi demografica, abbiamo bisogno di forza lavoro migrante, e non aggiunga una parola di più sulle condizioni in cui quella forza lavoro migrante, che già c’è, viene trattata? Com’è possibile che Mattarella non abbia mai fatto esplicito cenno alla schiavitù nei suoi discorsi, non rendendosi conto di rappresentare un paese che ha fatto un salto indietro nella storia di almeno un secolo e mezzo? La servitù della gleba in Russia è stata abolita nel 1861. La Guerra di Secessione negli USA è scoppiata nello stesso anno. Ma la Zivilisation europea, la rivoluzione borghese, erano cominciate ben prima. Lo sfruttamento capitalistico, le enclosures, si sono mosse in parallelo, d’accordo. Ma gli abitanti degli slums di Londra, quelli del “Popolo degli abissi” di Jack London, avevano però la carta d’identità. Non era schiavismo. Voglio dire che la condizione di schiavitù conserva una sua specificità, non basta dire che è il gradino estremo del supersfruttamento capitalistico. È un’altra categoria, un’altra species. Forse questa nostra incapacità di coglierne la dimensione specifica oggi è proprio dovuta al fatto che essa si è talmente integrata nel modello economico-produttivo, ne è diventata un elemento talmente essenziale e imprescindibile, da far abituare il nostro occhio a guardarla senza battere ciglio.

Eppure non può continuare così. Perché se continua così finiamo inevitabilmente per dire che per debellarla bastano inasprimento delle pene, maggiori controlli, formazione e bla, bla, bla, come dicono i partiti, il sindacato, Confindustria… cioè quelli che in un modo o nell’altro, chi più chi meno, in questi ultimi vent’anni hanno contribuito a far sì che la schiavitù s’integrasse sempre più con il modello produttivo o che poco o nulla hanno fatto per impedirlo. Invece quel che ci vuole è una sanzione sociale, la repressione non basta, non è all’altezza, ci vuole l’isolamento, l’emarginazione degli schiavisti. Ma che venga dal basso, dalla società, dalla vita quotidiana! Io sogno che un giorno un proprietario di un buon ristorante, vedendo entrare i titolari di un’impresa agricola che usa sistemi analoghi a quelli dei signori Rovato di Latina, prima che prendano posto si avvicini e dica: “Signori, qui i cani possono entrare, ma gli schiavisti no” e li accompagni gentilmente alla porta. E quando il tassista, chiamato a trasportare i suddetti imprenditori a un altro ristorante, farà la stessa cosa, rifiutando di farli salire a bordo… beh, a quel punto potremo dire che l’Italia ha cominciato a ridiventare un paese civile. Oggi non lo è, perché su ciascuna pizza che viene servita nel milione di pizzerie che invadono città e campagne, montagne e spiagge, c’è il segno di una cassetta di frutta che porta il braccio amputato di un essere umano.

Sergio Fontegher Bologna