sabato 30 gennaio 2016

E una bella manifestazione?



L'articolo di Stefano Levi Della Torre, che mi è giunto attraverso facebook in un post di Lea Melandri e che tratta dei fatti di Colonia e che ripropongo qui per un poco ancora di riflessione, ha una sua tragica terribilità perché constata, a mio parere con ragione, che l'unica unità culturale che è in atto attualmente in Europa è quella che unisce non pochi europei e non pochi musulmani nel maschilismo e nel razzismo. La crisi economica nonché quella politica stimolano gli 'strati bassi della nostra stessa antropologia maschilista' che negli uni e negli altri libera prima di tutto la
manifestazione del dominio assoluto sulla donna e sul suo corpo per farsi subito dopo razzista per escludere gli ultimi arrivati. E la connessione che Della Torre fa tra ciò e lo spirito che anima il turbocapitalismo globale è legittima, le libertà tanto decantate del sistema occidentale assomigliano sempre più al canto del pifferaio magico. Ma non c'è nemmeno più una cultura di sinistra a fare da barriera, dissipata come si è nelle sue rincorse suicide. Nè si può contare su una cultura borghese tradizionalista ma non priva di intelligenza critica, in Italia ce n'è stata una breve stagione nel dopoguerra. Eppure non mi tornano i conti. Sui social network e non solo gira molta intelligenza critica. E l'impressione è che la distinzione tra destra e sinistra lì dentro sia decisamente inattuale. In tutti costoro, tra i quali mi colloco, la mia impressione è che lo sdegno sia pari al sentimento d'impotenza. Credo che perlopiù abbiamo un sano senso di autonomia e che la critica ai partiti e ai loro dispositivi mediatici è solo una parte del pensiero che ci accomuna, ma ci sforziamo di tenere a bada quel sostrato profondo che alligna nel patriarcato dal quale tutti proveniamo e ci sforziamo di mantere lucida la critica alle leggi distruttive del capitalismo. Ma non abbiamo neanche più i cortei. Eppure quelli erano decisamente importanti perché almeno connotavano d'allegria la disperazione. Una volta dicevamo: ok, passa parola, è per domani alle 11 in piazza del Duomo. Forse bisognerebbe riprovarci.


Così scrive Stefano Levi Della Torre:

"Declinano le libertà occidentali ponendosi in sintonia col loro limo maschilista, che è l'aspetto che sentono più famigliare. Se ne sentono incoraggiati, e incoraggiano i nostri stati culturali più bassi a riemergere. La questione è decisiva. La lotta per la libertà delle donne ha due fronti, verso il nostro maschilismo e verso quello degli altri."
Gli spunti interessanti che si possono trarre dall'articolo di Donatella Di Cesare (“Corriere delle sera”, 11/1/16) sono che i crimini di massa a Colonia e altrove dipendono da un clima generale "culturalmente" favorevole allo spontaneismo e dunque all'affioramento spontaneo del limo antropologico del maschilismo. (Da qui, sembra, l'imbarazzo e la passività della polizia).

Non dico affatto che “loro” sono come “noi”, come se fosse politicamente corretto non fare distinzioni ed anzi risolvere tutto in auto-accusa: tutta colpa dell’Occidente, come se l’“altro” non avesse alcuna responsabilità, fosse al disotto della responsabilità (il che è una forma mascherata di razzismo). Qui si sono fatti decisivi passi avanti nella mentalità e nelle leggi. Penso che il senso comune nei paesi islamici e l'islam stesso, specie nella sua affermazione integralistica, è fortemente oppressivo nei confroni delle donne.

Dico però che quei fatti sollecitano il riemergere in Europa e in Italia mentalità antiche, così come sollecitano il riaffermarsi delle identità nazional religiose e fascistoidi in Europa. Un umorista ha detto: sono favorevole agli immigrati che rubano, perché sono i più integrati nella cultura italiana. Una battuta, certo, che però mi fa pensare che, analogamente, l'insulto e l'aggressione alle donne possa essere anche una forma di integrazione a partire dagli strati bassi della nostra stessa antropologia maschilista.

Dicono che all'October Fest, in Germania, erano già successe cose analoghe in anni passati, anche se forse non così gravi. L' integrazione spontaneista e incolta è forse analoga all'islamizzazione incolta. Anni fa mi aveva colpito l'osservazione di un sociologo francese che diceva che l'integralismo islamista poggiava su un'istruzione a metà, si diffondeva cioè per la maggior diffusione dell'istruzione che faceva uscire, sì, dall'analfabetismo in modo che più gente potesse leggere il Corano, ma poi si leggeva il Corano senza cultura. E lo si assumeva alla lettera senza senso critico né elaborazione. Lo si assumeva in forma confessionale e fondamentalistica. Lo si assumeva come rispecchiamento e giustificazione delle proprie pulsioni. Così giovani maschi immigrati possono leggere le libertà europee nello stesso modo incolto con cui acquisiscono il Corano: libertà come libero affioramento e manifestazione delle proprie pulsioni impregnate della propria mentalità sedimentata come tradizione: si valgono delle libertà occidentali non per un complotto contro l'occidente, ma contro le donne e contro la libertà delle donne. Declinano le libertà occidentali ponendosi in sintonia col loro limo maschilista, che è l'aspetto che sentono più familiare. Se ne sentono incoraggiati, e incoraggiano i nostri strati culturali più bassi a riemergere. La questione è decisiva. La lotta per la libertà delle donne ha due fronti, verso il nostro maschilismo e verso quello degli altri.

Congiungerei quanto sopra con quello che ho già scritto circa la "la libertà assoluta di satira" di cui ho già scritto circa Charlie Hebdo. (Vedi sotto: “Satira e terrorismo”).
Una guerra mondiale contro le donne mi sembra in corso. Come scrivevo, Colonia fa vedere come ci sia un' "integrazione" che si connette e rilancia gli strati più bassi delle nostre mentalità. Ubriachezze non propriamente "islamiche" e branchi di giovani maschi che ripropongono ( "in cervogia veritas", cioè spontaneità pulsionali), repellenti sostrati, vivi tra loro e e tutt'altro che estinti tra noi, incoraggiando ogni spirito reazionario, politico e di genere.
Nel caso di Colonia, l'idea del complotto, non provato, mi sembra una forma di riparo, rispetto alla realtà ancora più grave: il fatto che certi strati dell'immigrazione si alleino spontaneamente con gli spiriti reazionari in Europa. Non solo ne fanno evidentemente il gioco politico, ma li confermino antropologicamente.

Come nota Vicky Franzinetti, certi ruoli tradizionali femminili, contro cui il femminismo si è battuto, sono rilanciati, in forza della necessità loro e nostre, dal fenomeno sociale delle badanti, che magari "liberano" le stesse donne occidentali, relativamente benestanti, da quelle funzioni, ma riconfermando ruoli in quanto “femminili”. Più gravemente, fatti come quelli in Germania, istigano alla difesa delle "nostre" donne, dove il "nostre", ribadisce una concezione proprietaria. A parole comunque, perché a Colonia è brutto non aver notizia di nessuna difesa delle donne da parte di alcuno. (Certo, io non so come mi sarei comportato in una simile situazione, magari con la scusa di essere piccolo e vecchio).
Mi sembra da approfondire il rapporto tra neo-liberismo e maschilismo, tra liberismo e sostrato antropologico e tradizionale. Il nesso a me sembra l'esaltazione della forza, della gerarchia del più forte, della sottomissione del più debole. Del carattere selvaggio dell'istinto capitalistico che è di tipo animalesco, da jungla. Del tipo anche che "dietro a un grande uomo c'è magari una grande donna", dietro appunto, a servirlo e ad approfittare dei suoi successi. Della donna che presiede con i suoi servizi al successo maschile, per valersi dei vantaggi che ricadono su di lei e sui suoi figli, come accade alle donne di mafia.

Ho sentito di donne e non solo di uomini, che hanno detto "se la sono cercata", come avviene abitualmente in casi di stupro. Un nodo particolarmente complicato sta appunto nell'alleanza frequente tra molte donne e il maschilismo, quando prevale il bisogno di essere accettate e protette da una comunità tradizionalmente gerarchica, quando prevale il bisogno di un'identità prefissata e c'è la paura e la difficoltà di costruirsene una nuova e non protetta. Un'identità necessariamente trasgressiva. La decadenza della sinistra sta anche in questo: partita dalla positività e necessità del trasgredire gli stereotipi di tradizioni retrive, si è poi fissata nel culto quasi idolatrico del "diverso"; infine del diverso codificato, cioè delle identità culturali e religiose tradizionali, ossia auto-conservatrici e reazionarie. Sicché il "diverso" ha sostituito e soffocato il “trasgressivo”, la comunità del diverso è stata favorita rispetto alla singolarità di chi trasgredisce le tradizioni, i loro ruoli e gerarchie, abbandonandola/lo alla sua debolezza individuale.

Questo è l'equivoco tragico del multiculturalismo: identità comunitaria contro libertà e auto- determinazione della persona.
Quanto al multiculturalismo, è questione di intendersi: chiamo multiculturalismo l'accettazione delle "diversità" ciascuna per sé. L'alternativa non è ovviamente il monoculturalismo, ma un'interazione tra culture che implica, più che dialogo, confronto, polemica, lotta culturale interna ed esterna, ed anche leggi repressive di usi che sono per noi giustamente inaccettabili, che riguardano segnatamente le donne, nonché la laicità. Deteriore l'idea del nuovo dirigente del Labour, Jeremy Corbin, di sinistra, di istituire vagoni per sole donne per proteggerle. Ma questo ribadisce il negativo, quando è il momento dello scontro culturale.







Stefano Levi Della Torre"

giovedì 21 gennaio 2016

La poesia e il linguaggio di tutti i giorni con l'aiuto di Brodskij

Ho sempre sentito un po' di disagio di fronte a quelle affermazioni che tendono a dare al linguaggio una importanza primaria, quasi una supremazia una egemonia sulla psiche (intesa come insieme di intelletto e emozioni). Ho sempre pensato il contrario a dire il vero ma aiuta moltissimo sentirlo dire da Iosif Brodskij.
Dice così, che meglio non sarei mai stato in grado di dire:
'...nonostante la versatilità di questo strumento, nonostante la sua preziosa capacità di esplorare e approfondire le percezioni - per cui a volte esso rivela più di quanto fosse nelle intenzioni originarie e così arriva, nei casi più felici, a fondersi con le percezioni - ogni poeta più o meno esperto sa quante cose restino fuori o siano dolorosamente modificate passando attraverso questo strumento.' 
Ora, ogni poeta crea per sé un proprio linguaggio, quello cioè che più compiutamente traduce quanto sta nella psiche, si tratta di un lavoro eccezionale che non ha quasi mai fine e che attraversa territori pieni di insidie. Credo che quella più drammatica stia nelle voci del mondo che in genere dissuadono da questa ricerca e anzi la indirizzano verso mete più semplici, quelle che generalmente confermano l'esistente (tra tv e frigorifero, direbbe Pasolini). Il poeta per lo più quelle insidie impara a evitarle, talvolta nel farlo il suo linguaggio diventa oscuro o comunque difficile. E' inevitabile, ma fino a un certo punto. E' inevitabile tanto più se lo scrittore di versi tenta di tradurre in parole una complessità interiore fin lì inespressa e se la connessione di immagini e pensieri è  insolita e composta in una visione sorprendente. Credo che lo scrittore abbia il compito di tradurre la propria interiorità senza concedere nulla alle semplificazioni ma rinunciando, fino a un ulteriore momento più favorevole, a una complessità che non comunica. La ricerca del linguaggio più proprio non può insomma essere disgiunta da una comunicabilità del verso, cosa che del resto mi sembra orami acquisita tra gli scrittori più giovani. I quali verosimilmente hanno da temere l'insidia opposta, ossia quello di semplificare troppo e rinunciare alle connessioni più profonde.
Perché comunque, come bene dice B., tra quanto comunica la psiche e quanto lo scrittore riesce a tradurre in parole c'è uno scarto più o meno doloroso del quale lo scrittore stesso si deve far carico per via delle insufficienze del linguaggio, anche se resta lo strumento migliore,  e per via dei condizionamenti e comandi culturali riduttivi cui è sottoposto il linguaggio quotidiano.
Così il poeta e critico conclude la sua riflessione:
"Viene fatto di pensare che la poesia sia in qualche modo estranea o refrattaria al linguaggio - italiano, inglese, o swahili che sia - e che la psiche umana, per la sua capacità di sintesi, sia infinitamente superiore a tutte le lingue che possiamo usare. A dir poco, se la psiche avesse una lingua sua propria, la distanza tra questa e il linguaggio della poesia sarebbe approssimativamente la stessa che divide il linguaggio della poesia, appunto, dall'italiano di tutti i giorni." (Sta in Il canto del Pendolo, Adelphi, 1987)

giovedì 14 gennaio 2016

Espressionismo

Ernst Ludwig Kirchner, Cinque donne per strada, 1913
Ai margini di Grunewald, la foresta nel sud-ovest di Berlino, c’è, appartato e silenzioso, il Brücke-Museum, dedicato al gruppo di artisti espressionisti "Brücke" (fondato nel 1905 a Dresda) dei quali possiede circa 400 dipinti (insieme a migliaia di disegni a mano libera, acquarelli e opere grafiche originali). La collezione comprende soprattutto le opere dei fondatori (a memoria mia Ernst Ludwig Kirchner, Erich Heckel, Fritz Bleyl, Max Pechstein, Karl Schmidt-Rottluff, Otto Mueller, Emil Nolde).  Sembra un risarcimento. I nazisti tolsero di mezzo la maggior parte delle opere degli artisti tedeschi che facevano riferimento al dadaismo, cubismo, espressionismo, fauvismo, impressionismo, surrealismo e forse ne dimentico qualcuno ma comunque tutta Entartete Kunst, arte degenerata. Non ricordo di preciso ma sembra che ammontassero a qualche migliaio le opere degli espressionisti tolte di mezzo. Insieme a quelle di tanti altri pittori furono poi presentate per il pubblico ludibrio nella mostra diffamatoria itinerante del ’37 appunto come arte degenerata. 

Max Pechstein, portatori di pietre italiani, 1924
Gli espressionisti, che di molti di quegli ismi sono direttamente e indirettamente fratelli maggiori, si presentano sulla scena europea intorno al 1905 e il loro movimento artistico culturale e politico resta vivo fino alla metà degli anni 20 quando il movimento si scioglie e ciascuno prende la sua strada anche se in pratica ben presto quasi per tutti si trattò della fuga verso Ovest.

Joanne Memmen, Revuegirls, 1928
Chi come me si trova nel bisogno di interrogare ancora le avanguardie storiche, quelle a cavallo tra belle époque e seconda guerra mondiale, ha qui un’occasione per fare il punto.  A vedere tutte insieme queste opere di un’unica corrente artistica le domande giuste vengono subito. Così a me, che non sono un critico d’arte e dipendo dalle mostre e da qualche libro, hanno acceso un po' più di luce ad esempio sulla differenza tra espressionisti e impressionisti. E ho dovuto dare una sistemata alla cronologia. Storicizzare troppo non va bene ma talvolta è necessario. L’Urlo di Munch, che è norvegese, è annoverato tra le opere espressioniste ma è del 1892. Il campo di grano con corvi di Vincent Van Gogh, che è olandese, è del 1890. Entrambi dunque, insieme a Gauguin, sono considerati solo precursori dell’espressionismo (più indietro ancora si può arrivare alle acqueforti di Goya sulle atrocità della guerra napoleonica in Spagna e addirittura a El Greco nel ‘600). E allora si capisce che l’espressionismo, che per molti aspetti è il contrario dell’impressionismo, in realtà nasce dalle sue costole, ne è un’evoluzione.

Ernst L. Kirchner, Cocottes sul Kurfurstendamm
Ma a differenza del mondo salottiero e da middle class molto pacificato dell’impressionismo francese con tutto il fascino e la joie de vivre che emana dalle sue tele, l’espressionismo punta a rappresentare la sofferenza della condizione umana ed esalta la spontaneità dell’ispirazione deformando oggetti e corpi, usando colori violenti e linee dure e spezzate, abbandonando le leggi della prospettiva, rifuggendo dal dare illusione di volume e di profondità. Un linguaggio immediato ed essenziale dalle forti tinte che esalta contrasti e conflitti dentro e fuori l’individuo (il lavoro con i suoi corollari di fatica e alienazione) in una visione drammatica e pessimistica del mondo che non ha il bello come suo fine più importante. Una differenza decisiva dall’impressionismo. Del resto Germania ed Europa sono attraversate da una nuova ondata autodistruttiva che segue ovviamente le crisi e le depressioni della produzione e dei mercati governati dal capitalismo e da stati ora non più colonialisti ma imperialisti tout court che si spartiscono il resto del pianeta con l'occupazione militare. L'espressionismo vive tra la febbre delle grandi città in crescita caotica come Berlino e gli orrori della guerra mondiale e delle sue terribili conseguenze.


Max Pechstein






Naturalmente propensi alla diffusione di massa dell’opera d’arte, gli espressionisti diedero  origine ad un fenomeno tipico del XX secolo, cioè  la pubblicazione di riviste indipendenti e autoprodotte e dunque anche all’abbattimento della frattura tra pratiche e teorie dell’arte (Kandiskij scrive su Sturm le sue teorie). Le premesse ideologiche del movimento furono espresse dal pittore Ernst L. Kirchner nel manifesto ‘Il ponte’ (Die Brücke), poi organo del movimento divenne la rivista Der Sturm che animava anche un teatro, una galleria e delle serate di poesia espressionista, le Sturm-Abende. Peraltro l’espressionismo non riguardò appunto solo le arti figurative ma anche letteratura, musica, teatro, architettura.








George Grosz, nato a Berlino nel 1893, passò attraverso l'espressionismo e poi il futurismo, il dadaismo e infine la Neue Sachlichkeit. Scrisse anche in poesia. Per gli espressionisti il caffè era, come per dadaisti e futuristi, il luogo prediletto nella città. Riporto qui una sua lirica scritta nel 1916-17 nella quale filtra, attraverso le impressioni caotiche di un ubriaco, la vita movimentata della grande città.





Cognac, Whisky,  Punch svedese,
G. Grosz
vedo maschere orribili!!
Sono allacciato da collane coralline di teste rosse
- oh il cielo come è vicino -
E angeli incessanti sono scesi dal soffitto.
Suonano i pifferi
Ora - tanta nostalgia del negro -
Hanno denti verdi E quà e là han perso il bronzo.
I lampioni del gas sono palloni, gettati da qualcuno nell'aria
E pendono come scemi
- sempre negli stessi luoghi -
Sono come un bambino in migliaia di Luna Park
e come pellicole, il film
gira rosso e giallo
e i tavoli cambiano colore e forma
e se ne vanno a spasso
in mezzo alle grosse gambe delle signore e alle vesti bianche.
Uno gira in continuazione.
Il mio tavolo è un pezzo ovale di marmo
- i circoli diventano uova -
e le note fanno come una gragnuola di pallini piccoli buchi nel                                                                                                       mio cervello.
Gli angeli di gesso sono svaniti,
Dice che sono al primo piano a giocare a biliardo
 - un marco per un'ora!! -
Cameriere!! - per favore dell'acqua di selz -
Sono una macchina, con il manometro rotto -!
E tutti i cilindri giocano in tondo -
Vedi: siamo tutti quanti nevrastenici.
                                       (G. Grosz, Kaffeehaus, a cura di D. Schmidt)