Così l'American Cancer Society: 'Fatigue' is one of the most common and distressing side effects of cancer. Cancer itself can cause fatigue directly by spreading to the bone marrow, causing anemia. Or it can cause fatigue indirectly, by forming toxic substances in the body that change the way normal cells work.
Ciò sembrerebbe spiegare la mia leggera anemia (del tutto irrilevante) dopo l'operazione, ma soprattutto potrebbe spiegare quel disagio fisico e mentale che accusavo da tempo, e che perdura, una disposizione fisica e mentale a concedermi più del solito al riposo, una maggiore facilità alle dimenticanze e, in particolare dopo l'operazione, maggiore difficoltà a concentrarmi. Epperò tutto ciò non mi ha mai portato a pensare che avevo in corpo da qualche tempo cellule anomale che stavano silenziosamente ulcerando l'intestino, riferivo il tutto all'età e ad altre patologie anch'esse legate all'usura. Quest'ultime mi restano, quei sintomi legati al cancro invece, considerando che è stato tranciato via da una sforbiciata all'intestino e che l'assenza di metastesi mi mette al riparo da ogni ulteriore terapia, sono destinati a rientrare, magari con un po' di tempo.
Gli otto giorni di degenza in ospedale li ho passati in una stanza con un altro paziente. Luigi. Gli ho detto subito che la nobiltà del nome che portava non era stata sufficiente a risparmiargli l'ospedale, pertanto tutto sommato poteva anche sbarazzarsene per scongiurare la fine di quella dinastia che non era stata capace nemmeno di contare fino a venti. Ha riso di cuore ma la sua sofferenza, evidente sin da primo momento, aveva bisogno di ben altre cure, era la terza volta che tornava in ospedale per vari problemi all'addome, all'intestino. Siamo scesi insieme in sala operatoria, lo stesso giorno, a me sarebbe toccato subito dopo di lui. Ma le porte dell'antro dove era scomparso non si riaprivano mai. A lui invece hanno aperto e ricucito la pancia due volte di seguito nella giornata. Bravissimi chirurghi ma nemmeno dopo ho avuto modo di capire il motivo del doppio intervento. Perché in definitiva non è che stai lì a chiederti tanto il perché e il percome. Non sei nemmeno più di tanto preoccupato dall'idea della morte. Sei piuttosto rivolto a gestire i dolori e la relazione con dottori/e e infermieri/e dai quali dipendi. Lo stato di dipendenza soprattutto ti impegna. Ti chiedi se uno stato del genere potrai in seguito risparmiarlo ai tuoi cari. Te lo chiedi soprattutto quando, dopo l'operazione, nel tuo letto, gradevolissimo spazio simbiotico, non puoi muoverti più di tanto: sul fianco sinistro scende fino a terra un catetere, da un buco nell'alto ventre, che spurga in una specie di scatoletta ( 'i cagnolini' li chiamano le infermiere), a destra ce n'è un secondo da un altro buco nell'alto ventre e fa il paio con un terzo catetere che parte dal tuo membro e finisce in una sacca di plastica dove si raccoglie l'urina. Da una vena del braccio destro, nel mio caso, sulla quale è innestata quella che io chiamavo ciabatta, perché simile appunto alle ciabatte con tante prese che sostano di solito sotto il PC, due cavetti di plastica che succhiano bilanciatori degli antidolorifici da due ampolle sistemate su una specie di attaccapanni. Da un catetere infine che parte dalla schiena un'altra cannuccia succhia invece da un'altra ampolla gli antidolorifici necessari a non farti dare i numeri: nel senso che il dolore fisico non possono e non vogliono eliminarlo del tutto perché resta ancora la fonte migliore per sapere come stai.
Con tutto ciò, quando dopo un paio di giorni senti arrivato il momento di scendere a terra da quella trappola benefica, dovrai portarti dietro la piantana con le ampolle legate alle tue vene, la sacca dell'urina, e infine a strascico i due cagnolini, le due scatolette che raccolgono secrezioni seriose e sangue.
Quando, più o meno sveglio, dopo l'operazione mi hanno riportato nel letto, Luigi si lamentava debolmente. La mia operazione era durata circa quattro ore, la sua sette. Anche lui aveva tutti gli ammennicoli del caso. C'è un momento di interregno tra immediato risveglio e le ore successive in cui tutto sembra disporsi per il meglio, ti dici che ormai il peggio è passato e che qualche giorno di ospedale serviranno per rimetterti in sesto. Si tratta degli effetti dell'anestesia e degli antidolorifici insieme. Ti senti euforico. Luigi mi ha sorriso appena svegliato e io l'ho ricambiato, insomma avevamo l'aria di quelli che ce l'avevano fatta. Su di me l'anestesia ha avuto strani effetti. L'euforia, per adoperare l'espressione che uno dei chirurghi ha usato con mia moglie, mi ha 'delatentizzato', mi sono insomma lasciato andare a battute più o meno spiritose verso i chirurghi, sul loro modo di parlare, sul loro problema di dosare gli antidolorifici, e persino sulla mise sexy di una di loro.
Insomma uno stato che è durato circa ventiquattrore, poi i dolori hanno cominciato ad avere la meglio. Già la seconda notte Luigi l'ha passata, tenendo sveglio anche me, a lamentarsi fortemente. Quello che colpiva era che lui non aveva certo l'aria di un piagnone, se si lamentava era perché i dolori erano intollerabili. A tratti lo erano anche i miei, ma paradossalmente la sofferenza di Luigi mi inibiva un po'. Anche perché quando il terzo giorno l'hanno lavato, con cura, nel letto, la sua nudità mi ha impressionato per via dei tagli operati in verticale e in diagonale, quasi una ragnatela. Non ho mai chiesto dosi ulteriori di antidolorifici, avevo una sorta di pudore. Luigi infatti li chiedeva in continuazione. Per i primi due, tre giorni la storia è andata avanti così. Un'ampolla di antidorifici faceva effetto per un'ora e mezzo circa durante la quale Luigi cadeva quasi in trance, sbuffando e singhiozzando. Al risveglio, che fosse giorno o notte, chiedeva un'altra dose. C'erano delle resistenze ma poi infermiere o dottori cedevano. La mattina credo del quarto giorno la visita del primario con tutta la corte dei suoi chirurghi e dei dottorandi fu un evento particolare. Il primario dosò con cautela ma con fermezza una sorta di rimprovero: a me Luigi sembra trascurato, bisogna rivitalizzarlo, l'operazione è andata bene e tutto questo dolore non lo capisco. E' stata una sferzata per tutti, dottori e infermiere, ma non è che le cose per Luigi siano tanto cambiate nei giorni successivi. Quanto a me il primario mi ha dato un'occhiata severa e ha aggiunto: lei sta bene. Non si capì se era un ordine, un invito, una domanda, una verità. Non gli ho risposto ma in definitiva in qualche modo la feci mia.
Al terzo giorno ho avuto anch'io una crisi. Era domenica e c'era mia moglie, e un caro amico di allora. Reggevo a fatica la posizione a letto ma la conversazione mi distraeva. Nel pomeriggio uno dei chirurghi con fare molto friendly mi ha ridotto gli antidolorifici che scendevano direttamente nella schiena. Con un semplice gesto, sul monitor ha abbassato il valore di due gradi. In pochi minuti un freddo totale mi ha attanagliato dai piedi alla testa, tra brividi e dolore ho spaventato un po' tutti i presenti. I medici hanno lasciato che trascorresse una mezz'ora durante la quale un paio di coperte hanno diminuito il freddo, e poi hanno riportato il valore degli antidolorifici a quello precedente. Sono stato subito meglio. Ma ho avuto un attimo di smarrimento quando verso le dieci di sera un altro dottore, altrettanto friendly, è venuto non ad abbassare il valore dell'antidolorifico ma a staccare del tutto la spina. Solo, con la notte davanti, senza antidolorifici? Le infermiere mi hanno tranquillizzato, loro erano lì se avevo bisogno. Mi sono tranquillizzato, ho pensato che se facevano così avevano le loro ragioni: in ogni caso bisognava avere fiducia dei medici. La notte non ho dormito, ma più che altro perché rimanevo all'erta in attesa dell' insorgenza dei dolori! Non è successo nulla, i dolori erano sopportabili. Ho capito lì che l'episodio del pomeriggio era stato causato apposta: era come se al fisico in quel modo avessero dato una sferzata per fargli capire che la normalità non era quella sotto antidolorifico!
La fase più dura è stata quella successiva. L'intestino bloccato che tenta di liberarsi causa dolori atroci. La storia si risolverà solo col tempo. Alla visita di controllo in ospedale, l'oncologo mi ha confermato che non c'è bisogno di terapie tipo chemio o radio, ma che la mia attuale irregolarità intestinale resterà la mia normalità per un bel po'. Ne ho approfittato per visitare Luigi. Era ancora lì. Ci siamo scambiati auguri. Soffriva di meno ed era fiducioso.
Uscito dall'ospedale le meditazioni d'obbligo. Esiste una percezione soggettiva del dolore, ma non significa nulla perché siamo fatti ciascuno in maniera diversa e i medici calibrano i farmaci sulla tua resistenza. Mi lasciavo alle spalle un palazzo nel quale le tecnologie in uso oggi sono più avanti di quanto io sia in grado di comprendere. Bisogna avere fiducia nei medici, nella maggior parte dei casi sanno quello che fanno anche se c'è sempre una zona d'ombra nella quale procedono a tentoni. Il cancro anche quando ce l'hai e non lo sai, altera in modi diversi il tuo stato psicofisico e quei modi non siamo ancora educati a monitorarli. Dal cancro al colon infine si può guarire, se lo prendiamo in tempo. E anche dalla 'fatigue' che ti resta addosso, prima o poi, riusciremo a liberarci.
Diario in rete di Paolo Rabissi iniziato nel settembre del 2011. Fino al giugno del 2012 ho scritto qui, con riflessioni anche in righe, il poemetto: Inverno a Colonia. Col tempo è diventato parte di un progetto più vasto concluso nel 2017 e che comprende altri tre poemetti. Il tutto verrà pubblicato conservando il titolo generale di Inverno a Colonia. Il diario si è nel frattempo arricchito di saggi critici, recensioni, discussioni nonché presentazioni di iniziative pubbliche.
domenica 18 novembre 2012
sabato 17 novembre 2012
Elsa Morante nasceva cento anni fa
Stralcio questi pochi versi da Il mondo salvato dai ragazzini, 1968, una delle opere più belle del Novecento.
...
Dal luogo illune del tuo silenzio
mi riscuote ogni giorno l'urlo del mattino.
O notte celeste senza resurrezione
perdonami se torno ancora a queste voci
Io premo l'orecchio sulla terra
a un'eco assurda dei battiti sepolti.
Dietro la belva in fuga irraggiungibile
mi butto sulla traccia del sangue.
Voglio salvarti dalla strage che ti ruba
e riportarti nel tuo lettuccio a dormire.
Ma tu vergognoso delle tue ferite
mascheri i cammini della tua tana.
Io fingo e rido in un ballo disperato
per distrarti dall'orrenda mestizia
ma i tuoi occhi scolorati di sotto le palpebre
non ammiccano più ai miei trucchi d'amore.
Alla ricerca dei tuoi colori del tuo sorriso
io corro le città lungo una pista confusa.
Ogni ragazzo che passa è una morgana.
Io credo di riconoscerti, per un momento.
E mendicando rincorro lo sventolio di un ciuffetto
o una maglietta rossa che scantona...
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