Una questione di metodo. Buona anche in questo tempo di coronavirus.
Mi arriva dalla citazione che Raffaele Sciortino fa a un certo punto nel suo ultimo libro -I dieci anni che sconvolsero il mondo (Asterios, 2018) – tratta dalle Glosse marginali di critica all’articolo “Il re di Prussia e la riforma sociale, firmato: un Prussiano” di Karl Marx del 1844.
Scrive Sciortino:
Prima di procedere all’ultima parte di questo lavoro è bene tenere presente, senza nasconderci la quasi abissale distanza di contesto storico, un’avvertenza di metodo ovvero di sostanza formulata da un giovane tedesco a metà ottocento:
L’unico compito di una mente pensante amante della verità di fronte ad una prima esplosione della rivolta degli operai salesiani, non consisteva nel sostenere il ruolo del pedagogo di questo avvenimento, ma piuttosto nello studiarne il peculiare carattere. A ciò si richiede soprattutto una certa perspicacia scientifica e un certo amore per l’umanità, mentre per l’altra operazione è più che sufficiente una fraseologia spedita intinta in una vuota compiacenza.
La chiave di questo passo sta a mio parere nell’uso ripetuto di Marx dell’aggettivo ‘certo/a’. Quello che Marx ritiene necessario di fronte ad un evento, una ricerca, un'esperienza, è non una generica perspicacia scientifica, ma una ‘certa’ perspicacia scientifica, ‘certa’, cioè sicura, vera, accertata.
Credo di possedere una perspicacia scientifica però niente affatto sicura, accertata. Mi basta però. Riesco a cogliere, in superficie, la qualità scientifica di materiale filosofico, matematico, antropologico, ecc. Seguo ‘certe’ regole però quando parlo di Storia e di Poesia (scrivo Storia con la maiuscola perché la Storia non è la mia storia, scrivo Poesia perché non parlo della mia poesia). L’uso attento delle fonti per la Storia e la conoscenza dei caratteri specifici della scrittura poetica mi fa sentire a posto.
Quando a scuola mi trovavo a fare incursioni in discipline scientifiche con le quali avevo una familiarità per l’appunto solo scolastica, curavo di avvisare che quanto andavo affermando sulle loro caratteristiche era sicuramente parziale, quello che volevo era suscitare in loro solo qualche curiosità in più e che quanto dicevo poteva bastare solo a farsi un’idea generica, insomma li invitavo ad andare oltre me. Fermo restando che nelle due discipline di cui ero diretto responsabile dovevano seguire le mie indicazioni di percorso.
Il mio materiale specifico da dover studiare per coglierne i caratteri peculiari erano di fatto i miei allievi e cambiava tutti gli anni, ogni anno avevo nel triennio finale dell’Istituto in cui insegnavo una nuova terza classe che avrei condotto fino alla maturità.
La mia ‘perspicacia scientifica’, con l’andare degli anni, divenne sempre più certa. Ma di fronte a quell’evento il mio impegno che poteva contare sull’esperienza passata era ugualmente tesissima perché sapevo che quegli allievi erano comunque diversi dai precedenti e avrebbero messo all’inizio un po’ in crisi le forme di una relazione ancora una volta tutta da scoprire.
Ho sempre avuto una decisa attenzione a non farmi pedagogo in quel nuovo evento della relazione che stava nascendo. Allievi e allieve hanno un fiuto speciale – nulla di scientifico ma di cui tenere conto – che li/e mette in grado da subito di capire di che pasta è il prof. Mettermi a fare il pedagogo significava partire col piede sbagliato, con conseguenze durature. Occorreva dare giusta importanza a quella situazione mescolando il facile col difficile. Ma soprattutto rinunciare a qualsiasi compiacimento narcisistico, una delle cadute di stile di un prof più frequenti. Allievi e allieve sanno come impostare la loro relazione dalla quantità di narcisismo che il prof esibisce nella prima ora di lezione di un nuovo ciclo scolastico approfittando della sua posizione di potere, della sua padronanza del linguaggio.
Ma poi Marx avverte appunto, la tensione scientifica senza un sicuro amore per l’umanità non va molto lontana. Osservazione di metodo quanto mai opportuna in tempo di pandemia.
Che ne sarebbe stato del mio piacere nell’insegnamento se non avessi amato senza riserve il primo giorno di scuola di una serie infinita di anni scolastici con quell’incontro di così profonda emozione e di tensione della ragione?