Maestà di Duccio di Buoninsegna
a.d. MCCCXI
(sei strofe, 62 versi)
Siena è piena delle madonne di Duccio di Buoninsegna.
Il fatto è che o dipingeva madonne o non campava: né preti né banchieri, tutti devoti credenti naturalmente e già allora padroni della città, commissionavano altro.
La Maestà in trono cui faccio riferimento è una vasta composizione in legno con al centro una madonna circondata da angeli e santi: è splendidamente conservata nel museo dell’Opera del Duomo di Siena.
Le cronache raccontano che nel giorno, all’incirca dell’anno 1311, destinato all’esposizione, il piissimo e devotissimo a Maria popolo senese andasse in massa alla casa di Duccio per portare lui e la sua Maestà ancora fresca di colore in Duomo. Tra frati e popolino ci furono dispute per la testa del corteo (le cronache non dicono nulla della laicissima preoccupazione di Duccio che il suo dipinto arrivasse intatto a destinazione).
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L’insonnia degli archivolti centra cristalli
carichi del tannino dei secoli venti soffiano
aprendo le mani e congiungendo gli occhi
le sommità del giorno preferiscono
pavoneggiarsi nel buio
con la passione che non tarda.
Duccio assillato mutante dai laici potenti e del clero
mutante che agita e turba i convolvoli d’asce
ricamate che ingigantiscono le pietre:
reggendo l’increspatura ai clori e agli acidi,
solidamente il rimbombo di verdi e azzurri
ancorato in pieno centro,
la devozione sgrana perdite di sistemi
di animali in corsa e le grida stagnano
nell’ansa di un albero che preme sulle fronti
con la volontà dei frutti maturi.
Quanto simile possa essere la fatica
dentro un sepolcro d’alluminio esposto alla luna
quanto poco divino spetti a un creatore
ripulito e pantofolaio
sempre meglio che sterrare preamboli curiosi
spettegolare a imbuto su leccornie sfuggite a davanzali
signorili e non altrimenti perché chi ricalcitra
sollecita precisi azzeramenti o finisce col sognare
particolari inediti sui muschi
quando l’ermellino abbandona gli asfalti
e trascina con sé frecce e fantasmi
per le scalinate asserragliate dei centri di ristoro.
Accantonamento e deragliamento convincenti,
non per fregola d’arrivista ma solo sbriciolando il pretesto
mentendo quanto basta per rispondere all’intreccio
si instaurano concerto e l’intesa
e Duccio liberamente restaura sapidità di pecore corinzie
nel dramma battesimale di pochi eletti e tanti facenti funzione.
Forzando di metafora il potere si annulla
e le pareti sottili sfilano organi maestosi senza sussulti
né pesci istoriati, ci pensano gli angeli, con techne sicura,
a detestare sorgenti immobili,
lo scroscio d’oro dagli occhi il fenomeno critica
presentendo l’azzurro
sorpreso sul trono a spartire coralli d’impazienze
e prestiti d’ombre esauste.
Dai contorni svettano naiadi e dalle impronte
di mani sulle formelle il cruccio, ed è l’inizio,
consentendo balconate di annunciazioni possibili
e ballatoi di bocche spumeggianti
i gialli e i verdi via scivolano s’inoltrano nel fondo,
larghe s’accampano linee di profili elettricamente riposati
sguardi standardizzati da ironie
che alla memoria riattizzano
rivoli di salnitro e fosforo su rimasugli di stalle
laghi di stagnola ancorati ai gozzi di vitelli
improvvisazioni aventi come terminali
resurrezioni e giacigli senza fine.
E che tempo c'è dentro quella Maestà?
Fuori è lo scappellarsi indegno dell’inverno piovoso
statue inarcate sotto le ciglia
tondi percorsi di altalena sotto porticati
la lingua lastricata d’alabastro
pretende niente di più nientemeno
che l’assalto particolare della techne del verso
l’incerta, sulla carta, tecnologia.
Milano 2000