martedì 17 marzo 2015

Il movimento dei versi

Il movimento dei versi
La questione della poesia epica nella contemporaneità, di cui si discute soprattutto qui, nasce, per quanto mi riguarda, dal poemetto scritto dentro questo blog - Inverno a Colonia - che si caratterizza diversamente dal tipo di versi delle mie raccolte precedenti, da Città alta a La ruggine, il sale a I contorni delle cose. Ma al di là di questo, il silenzio della scrittura che è seguita al poemetto, si sta risolvendo solo oggi, dopo quasi due anni, nel momento in cui cioè mi rendo conto che il linguaggio e i temi di fondo del poemetto li avverto ormai come definitivi dato che si sono ripresentati non appena ho individuato uno schema di scrittura possibile.
La spinta a riprendere la scrittura credo abbia la sua origine proprio nel tentativo di definizione della
Slava Polumin,  2012
poesia epica, tuttora lontana da una conclusione ma che ha aperto la consapevolezza che certi temi che nel poemetto sono presenti ma che vorrei amplificare, difficilmente possono rientrare nella poesia lirica. Il tema del Lavoro ad esempio, così come si è configurato nella seconda metà del '900 alla quale appartengo, unito a quello del clima rivoluzionario che ho vissuto, peraltro in un'età prossima alla maturità, dentro le lotte studentesche e operaie, dopo aver vissuto lunghe esperienze di lavoro di diversa natura e responsabilità. L'anno in Germania descritto in Inverno a Colonia infatti era stato preceduto da più di un anno di impiegato contabile in una grande   azienda milanese che aveva sede nella Torre Velasca.
Basta mettere insieme questi due temi, il Lavoro con tutte le sue implicazioni e l'orizzonte rivoluzionario della fine degli anni sessanta, per farmi sentire su un altro pianeta rispetto alle mie precedenti scritture poetiche che, a torto o a ragione, non potevano che rientrare dentro un filone di poesia lirica. Direi anche a causa del fatto che qui da noi chi scrive in versi è automaticamente arruolato nella poesia lirica, anche se a dire il vero pochi ormai si preoccupano di dare definizioni di cui tutti hanno paura ma che tutti poi cercano di dare inventandosi un nuovo canone ad ogni stagione.
Il fatto è che da quando lavoro alla messa a fuoco di una poesia epica nuova vado scoprendo autori ai quali mi sento affine, nonostante si tratti perlopiù di autori più giovani, che trattano temi partendo dalle loro esperienze di lavoro e di relazione con la Storia. Di questi autori ho dato ragione, insieme a Franco Romanò, nella rassegna di Poesia e Storia tenuta nell'autunno scorso alla libreria Franco Angeli in Bicocca  a Milano e nel blog diepicanuova citato all'inizio. Dato che per me è inevitabile anche una coscienza critica di quanto vivo e faccio non posso non tentare di definire in maniera meno indistinta la direzione dei miei stessi versi, per questo mi interrogo appunto sulla poesia epica, a patto di comprendere sin dall'inizio che il termine va sganciato quasi del tutto dai significati che la tradizione gli affida. Per questo per ora la chiamiamo epicanuova, di cui parlo anche nel numero nuovo di Overleft in uscita oggi stesso sulla rete qui.
In ogni caso, epica nuova o meno, la ripresa della mia scrittura in versi passa in questo momento attraverso la rivisitazione di quel momento particolare che fu per me nel 1977 a Bologna il convegno dei movimenti rivoluzionari.

Quel giorno era nell’aria la mutazione tra le torri
e gl’impiantiti di cotto terra di Siena bruciata
(dolce di memorie da Duccio al triste Federico)
cortei fanciulli, innamorati della strada,
di complesse narrazioni tra eros morte e galassie
lontane, quel giorno lo scontro tra fazioni divise
svelava controdipendenze, a respingere indietro
il passato la strada finiva nel baratro comune.

Perché quel giorno nel chiuso di muri, nella platea
divisa, lo scontro furente e uno intonava un canto
di unità che sembrava sotterrare un secolo intero?
Diceva Roberto al mio fianco ‘…che dire,
cambiare il segno alla Storia per loro è solo
sostituire al potere una classe con un’altra?’
Gli dissi che mio zio, specializzato con capolavoro
(cinquanta saldature su un dado di ferro)
dava la vita a Monfalcone, stava coi moderati
spaventato com’era dalla guerra.
Ma la paura centrava i nostri cuori, chi dominava
spiriti militanti non temeva la repressione, la sfidava,
com’era nelle carte e nella tradizione.

Ma quel giorno lo scontro svelava per strada di più,
laboratorio di sguardo sul futuro,
chi sopravanzava l’urlio del presente accennava un
passo di danza mai vista sul selciato tra rossi mattoni,
vedevi uomini e donne farsi cenni d’intesa e scatenare
poi risse autogestite, uno scenario angolare, cuspidato
non senza lacrime non senza abbracci.

... ah ora dici che il tempo di morire era antico,
che l’ansia di morte accompagnava i nostri giorni
già allora, quando era ora del pasto e della cialledda,
sgocciolavamo l’olio sul pane impomodorato da prima,
già moribonda l’ora della pesca, tra rocce limate.
Visibile rendiconto della storia della Magna Grecia
oggi assillata dai debiti, ma indiscutibile assaggio della sua
potenza, dato che dalle colonne d’Ercole fino al Bosforo
la cialledda è pasto da Dei, quando l’aggiunta è l’aglio
con l’origano selvatico.
Cosa credi che mangiavano i compagni di gioco del Sud
alla  catena di montaggio del Nord negli anni sessanta?
Quella che vorrebbero mangiare oggi i reduci di Siria
Libia ed Egitto, pane, olio, origano, aglio.



2 commenti:

  1. Mi scrive Nino Iacovella:
    Caro Paolo, ho finito adesso di leggere il tuo articolo. Bellissimo ‎il testo del '77 a Bologna. Per molti versi sei stato un uomo fortunato. Hai vissuto un periodo di grande slancio ideale e passione. Anche se all'interno degli anni di piombo, avete avuto una possibilità nel quale inarcarvi e scagliare la freccia dei sogni nel mondo.
    Grazie per le evocazioni.
    Un abbraccio e a presto.
    Nino

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  2. Scrive Franco Romanò:
    ...Accidenti Paolo, che ulteriore scatto in questi versi!
    Se li paragono a Inverno a Colonia, dico che qui cresce lo spessore su ogni verso. Se immagino quello che vedo come un quadro è come se i tratti leggeri, a volte persino da stampe giapponesi di Inverno a Colonia, abbiano messo su colore e spessore. la trama narrativa, coi suoi dialoghi inframmezzati è la medesima di inverno, ma su questi personaggi il peso dell'esperienza e della storia ha dato vestiti nuovi e corpi più visibili, forse perché la nebbia di inverno a Colonia (una nebbia che avvolgeva non solo le persone ma anche la storia che stava un po' in una via di mezzo e di stallo), qui diventa mossa e la memoria si salda con un passato che risale fino alle origini (Magna Grecia ecc.).
    Questi versi promettono davvero molto e sono già motivo di riflessione anche per me, visto anche la virata di alcuni testi e la cancellazione di altri avvenuta a Berlino.

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