1) Mario Martone ha amato e ama Leopardi, ce lo dice con passione in questo suo ultimo film. E anche Recanati e a maggior ragione Napoli e Torre del Greco sono rivisitati con garbo ed emozione. La scelta delle musiche (da Rossini alla musica elettronica) l’ho trovata molto godibile e convincente. A ciò bisogna aggiungere l’indiscutibile bravura degli attori, in particolare di Elio Germano nella parte del poeta. Un film destinato al successo credo, capace di affascinare.
2) Martone tocca la maggior parte dei punti critici della biografia e del pensiero del poeta e, se qualcosa manca, per rispetto a un regista di valore e a questa sua opera che ha molti pregi, credo sia giusto chiedersi se le omissioni sono gravi o meno. Possiamo tentare di vederne qualcuna e ragionarci sopra.
2.1) Monaldo scopre (il film non dice come ma è noto) il tentativo di fuga di Giacomo nel 19: è una scena a dire il vero molto cinematografica, con un effettaccio: Leopardi sale emozionato e di nascosto sulla carrozza e il cocchiere volta lentamente il suo viso verso il giovane svelando di essere Monaldo. Leopardi prima di partire aveva scritto una lettera al padre molto interessante per capire i suoi rapporti con la famiglia che non voleva spendere niente per dargli qualche opportunità di studio fuori da Recanati. E’una lettera che è un vero e proprio atto di accusa contro una famiglia avara e che, a finanze dissestate, badava comunque solo al proprio decoro mantenendo servitù, carrozze e palchi in teatro. Essa non aggiunge nulla alla disperata volontà di fuga di Leopardi ben descritta nel film ma conoscerla forse restituisce una concretezza più eloquente a quanto si finisce, come sempre accade con Leopardi, per addebitare solo alla sua inquietudine esistenziale. Il film non manca di mettere in rilievo la figura di una madre del tutto disinteressata alle sorti del poeta, al padre tuttavia a più riprese Leopardi si rivolge nel film con devozione e tenerezza. Che ci stanno tutte, solo che il suo giudizio su di lui proprio in quella lettera si svela bel altrimenti accusatorio. Gli imputa drammaticamente di aver applicato rigide «norme geometriche» nel valutare l'ingegno di un figlio che mostrava di avere «alquanto più che un barlume d'ingegno» e di aver concluso che questo non meritava alcun sacrificio dei piani familiari: l’accusa più bruciante infatti è di non aver nemmeno preso sul serio la richiesta («Fui accolto colle risa ...») di adoperare le conoscenze di famiglia per trovargli un impiego fuori Recanati.
2.2) L’antiutilitarismo di Leopardi viene accennato nel film quando il poeta frequenta il gabinetto Viesseux a Firenze: qualcuno chiede a Leopardi notizia del carattere di quella sua iniziativa editoriale di un periodico letterario e lui risponde brevemente che carattere precipuo della rivista sarebbe stato il rifiuto programmatico di essere utile a qualcosa. Ha fatto bene Martone a mettere sulla bocca del poeta le parole che compaiono nel Preambolo, scritto di proprio pugno dal poeta e arrivato a noi. In esso, dopo aver giocato ironicamente sulla natura del giornale nel quale non si volevano "letterati" per redattori ma neanche scienziati, né statistici né economisti, Leopardi chiariva, prendendo garbatamente d'infilata tutta l'ideologia utilitaristica del secolo, della quale il gabinetto Viesseux era la punta di diamante italiana, lo scopo dell'impresa: «Noi non miriamo né all’ aumento dell'industria, né al miglioramento degli ordini sociali, né al perfezionamento dell'uomo [...]. Confessiamo schiettamente che il nostro Giornale non avrà nessuna utilità. E crediamo ragionevole che in un secolo in cui tutti i libri, tutti i pezzi di carta stampata, tutti i fogliolini di visita sono utili, venga fuori finalmente un Giornale che faccia professione d'essere inutile». E subito dopo aggiunge: «II nostro scopo dunque non è giovare al mondo, ma dilettare quei pochi che leggeranno. Lasciamo stare che lo scopo finale d'ogni cosa utile essendo il piacere, il quale poi all’ultimo si ottiene rarissime volte, la nostra privata opinione è che il dilettevole sia più utile che l'utile». Chi voleva dunque leggere per diletto e consolazione dalle calamità, era invitato a sottoscrivere all'impresa; con questa speranza: che a sottoscrivere fossero soprattutto le donne:«perché è verisimile che le donne, come meno severe, usino più degnazione alla nostra inutilità». Forse una citazione più estesa dal Preambolo avrebbe dato una sostanza diversa alla garbata ironia che Leopardi usa nel film e che fa dell’episodio una occasionale battuta. Ma soprattutto avrebbe piegato la lettura dell’insieme verso la considerazione che Leopardi, in mezzo agli economisti e sociologi e scienziati del Gabinetto, non è che ci stesse male e si sentisse fuor d’acqua a causa della sua infelicità e delle sue inquietudini personali ma per diversità di opinioni sul mondo e per la quasi nulla importanza che si dava alla poesia. Così dice al Giordani in quella nota lettera con la quale Leopardi praticamente si congeda nel ’31 da Firenze: «[...] mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica». (G. L., Epistolario, a cura di F. Moroncini, Le Monnier, Firenze 1934, vol. V, lettera a P. Giordani n° 1293).
2.3) Nelle sequenze dedicate allo stesso Gabinetto veniamo a sapere di un certo concorso cui Leopardi ha partecipato. Siamo nel 1830 e l’Accademia della Crusca decide di assegnare i mille scudi di premio all’opera dello storico Carlo Botta. A onore dell’Accademia occorre aggiungere che le Operette morali che erano in concorso (erano uscite nel 1827, l’anno miracoloso per le lettere italiane perché è anche l’anno de I promessi sposi) sono considerate degne di una menzione al terzo posto, al secondo c’è una Sacra Scrittura illustrata, di un certo Lanci. Appunto. Voglio dire che non c’è da stupirsi se le Operette morali non vincono niente: sono pregne di ateismo. Nel Gabinetto invece si mormora qualcosa solo su quel pessimismo così insistente del poeta. Certo che c’era il pessimismo - nella fattispecie la critica ha anche suggerito che almeno in parte lo si poteva anche considerare come una reazione all’eccesso di ottimismo dei toscani - ma i frequentatori del Gabinetto sono appunto i famosi moderati toscani perlopiù cattolici e, ripeto, sono il nerbo della nuova classe dirigente del Risorgimento, pragmatici antelitteram, utilitaristi, auspicanti mercati liberi ma sostenuti da riforme statali. In nuce il capitalismo nostrano. Nel quale la parola d’ordine è il progresso e la felicità futura delle masse. Mettere in bocca al garbato Leopardi ironico di Martone qualche allusione in più a tutto ciò forse avrebbe aggiunto qualcosa di interessante e più concretamente materiale alle inquietudini esistenziali del poeta. Ma soprattutto avrebbe dato un po’ più di luce e significato alla critica antiprogressista leopardiana. Di essa nel film si ha un breve cenno, anche qui in pratica una battuta isolata, quando viene recitata una parte di La ginestra: si sente risuonare il verso contro le ‘magnifiche sorti e progressive’ ma in un contesto che ovatta e ammorbidisce la sua valenza culturale e politica.
2.4) In una lettera famosa, che si legge in tutti i manuali di storia della letteratura per i licei, Leopardi invita i suoi detrattori a giudicare i suoi ragionamenti per quello che sono e non facendo riferimento alle sue sofferenze fisiche. Anche nel film il poeta pronuncia questa frase e Martone ha fatto bene a fargliela pronunciare estrapolandola dalla lettera. In effetti il succo è: smettetela di dire che l’infelicità cui dico essere condannata la specie umana dipenda dal fatto che sono gobbo, semicieco e quant’altro. Si tratta di una delle affermazioni topiche per capire il livello di autocoscienza di Leopardi sulla propria opera nonché sul senso della sua filosofia. Nel film il contesto nel quale un pensiero così importante viene espresso è davvero infelice, capisco voler perseguire la leggerezza, ma mettere Leopardi in una gelateria, seduto a un tavolino sul quale troneggia un gelato, cosa di cui era notoriamente goloso, e avendo come interlocutori due sconosciuti, riduce quel pensiero e la sua complessità alla battuta di un goloso compulsivo.
3) Il film si divide in due parti. Tra l’una e l’altra c’è uno stacco temporale di circa dieci anni. Lasciato Leopardi a Recanati dopo il suo infelice tentativo di fuga lo ritroviamo a Firenze nel 1830, già in contatto con Ranieri, innamorato di Fanny Targioni Tozzetti, frequentatore del Gabinetto Viesseux. E’ sempre più gobbo e cieco ma nell’insieme il suo aspetto è molto gradevole, ha un’aria quasi da gaudente, adopera l’ironia con grande freschezza e garbo e non si risparmia del vivere quanto è alla sua portata.
Importa, per una ricezione non superficiale da parte del pubblico, raccontare cosa è successo di Leopardi in questi dieci anni? Sembrerebbe di no. Leopardi a un certo punto della sua storia sarà pur diventato adulto. E nel film lo è diventato. L’impressione è che nonostante i dieci anni trascorsi egli sia rimasto nella sostanza quello di prima, un giovane favoloso. Ma nella realtà non è proprio così. Leopardi anzi è profondamente cambiato. Soprattutto perché le sue convinzioni, che avevano all’inizio un’origine letteraria e intuitiva e poco basata su dati di esperienza, ora si sono consolidate, articolate e approfondite proprio grazie a un’esperienza di vita concreta vissuta e fondamentale. Tra il 1825 e il 1828 (anno quest’ultimo della composizione dei grandi idilli, quasi il meglio della sua produzione poetica, che nel film vengono purtroppo sacrificati) Leopardi ha vissuto, in un rapporto di lavoro precarissimo e tuttavia quasi continuativo, una condizione per il tempo rara e privilegiata, ottenuta e conservata grazie alle sue competenze letterarie: egli infatti per la casa editrice di Antonio Fortunato Stella svolge da salariato funzioni di consulente editoriale, di direttore di collana e di compilatore lui stesso di note, commenti, prefazioni nonché di antologie. Come è largamente noto. Ricavandone quanto gli bastava per mantenersi. Il lavoro dunque, come mezzo di essere provveduto e libero e come mezzo per dedicarsi ai suoi studi, con tanto di scandalo da parte del padre che guarda al disdoro che ne proviene per tutto il suo casato nobiliare e che dunque gli scrive di mollare tutto e tornare a Recanati dove aveva ‘tutto quello di cui bisognava’. Ovviamente tranne la libertà e la disponibilità di libri che nello stato della Chiesa era impossibile a causa della censura. Dopo qualche mese della sua permanenza a Bologna, dove ha preso casa e da dove gestisce la relazione con Stella, scrive al fratello Carlo di vivere «onoratamente e con piena indipendenza personale, e regolandomi nelle spese, passo anche per ricco [...]. Se avessi voglia e salute da faticar di più in cose letterarie potrei anche avere dell'avanzo, perché non mi mancherebbero imprese e inviti librarii qui e in Torino e altrove» ( G. L., Epistolario, op. cit., vol. IV, lettera a Carlo Leopardi del 24. 2. ’26). Ma dopo un anno e mezzo le cose sono di nuovo cambiate. La sopravvivenza è assicurata ma gli costa un’attività intensissima che copre tutto il giorno e gli consuma un fisico provatissimo e soprattutto la vista. In realtà tempo per dedicarsi ai suoi studi e alla poesia gliene restava poco. Il trasferimento a Firenze, dove sapeva essere in vita un’attività culturale e politica intensa e dove il Vieusseux stesso l’aveva più volte chiamato a collaborare, fu dovuto proprio alla curiosità di verificare se lì una sua collaborazione poteva essere più conveniente. La delusione sarà quasi immediata. Per quanto la vita culturale del Gabinetto fosse ricca e intelligente il giudizio suo come abbiamo visto è diverso. Un giudizio che del resto era già maturato nel ’24 quando su insistenza del Viesseux si era adattato a scrivere una delle pagine di sociologia più interessanti del primo Ottocento. Lì, nel ‘Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani’ il poeta discute della mancanza in Italia di industrie e di cultura. Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe dal pessimista che conosciamo sostiene che là dove, e pensa in particolare alla Francia e all’Inghilterra, l’industria conosce un certo sviluppo, si sviluppano cultura e ‘pubbliche opinioni’ (ovvero partiti politici). E aggiunge: è vero che competitività crudeli e persecuzione degli uni sugli altri sono la sostanza di queste società, ma quello sviluppo medesimo di esse, conclude, mostra anche di saper rimediare ai propri errori.
4) Per concludere. Della complessità biografica di Leopardi e del suo pensiero, intrecciati indissolubilmente, nel film finisce per esserci solo una eco. Alla fine del film il giovane favoloso sembra essere rimasto il giovane irrequieto e ribelle della prima parte. E a questo proposito è inevitabile aggiungere che il film sembra essere la trasposizione cinematografica di una lettura critica molto simile a quella crociana. Quella cioè che relega a elucubrazione fastidiosa la riflessione antropologica sulla specie umana dalla quale Leopardi trae motivo di sconforto per le sorti sue e dell’intera umanità, una lettura alla quale non è stata estranea una parte della cultura marxista. Lo sforzo di Martone è da apprezzare, prima o poi un regista doveva pur provarci, ma c’era molta più carne da mettere sul fuoco ed era possibile perché nell’impostazione scelta potevano stare dentro molte altre informazioni che fanno parte ormai da tempo del patrimonio critico e che avrebbero contribuito a restituire di Leopardi almeno una parte della sua complessità. A Martone resta il merito di avere aperto la strada. E di questi tempi non è poco. Tuttavia l’occasione per smetterla di parlare di un Leopardi dimezzato e chiuso nella sua malinconica inquietudine esistenziale mi sembra che sia andata persa.