giovedì 28 marzo 2024

Lettura critica di Gabriella Galzio di "BESTIE ANIMALI SPECIE" di Paolo Rabissi nell' "Incontro tra autori" del 19 marzo 2024

 

di Gabriella Galzio


Abbiamo accolto con piacere (noi del gruppo degli Incontri di autori, ndr) l’ultimo nato di Paolo Rabissi, BESTIE ANIMALI SPECIE, pubblicato con Youcanprint nell’autunno del 2023 (con un’immagine di copertina terrestre e cosmica, a cura dello stesso autore). Un libro, dunque, recentissimo. Ma noi possiamo dire che questo libro l’abbiamo visto nascere, perché ne abbiamo presentato e commentato in anticipazione alcune parti; non solo, è un libro che s’intreccia fortemente con la riflessione condotta da Paolo Rabissi e Franco Romanò nel loro blog sul volto nuovo del genere epico, una riflessione recepita con vivo interesse anche nei nostri “Incontri tra Autori”, poi confluita nell’antologia Nell’oro della quercia, e infine coronata dalla nascente antologia di epica nuova curata dai nostri Rabissi e Romanò. Personalmente sono contenta di questa virtuosa circolarità e lavoro collettivo che si sottrae alle logiche competitive e personalistiche di tante iniziative di poesia cui sfugge il carattere di elaborazione collettiva della teoria letteraria.
E del resto, quest’ultimo di Rabissi, è un libro che ha bisogno di aria, che si apre a un respiro più ampio, non solo perché opera il salto quantico della coscienza di genere e della coscienza di specie dilatando il perimetro della poesia civile; non solo, dunque, perché allarga lo spettro della storia fino a comprendervi la specie, e perché dalla storia si congeda, non solo quella occidentale, ma quella segnatamente patriarcale, ma perché anche sotto il profilo formale prende il largo dal Rabissi più breve e conciso, cui il suo stile asciutto e sobrio ci aveva abituato fino a I contorni delle cose (del 2010), che pure già contiene qualche testo prosastico che evoca Sereni, dove, pur nella naturalezza dei ritmi, già cade la necessità del verso. Eravamo nel 2010, sono passati dunque tredici anni, e da allora Rabissi ne ha fatta di strada e, appunto, ha cominciato a prendere il largo, ha preso a narrare, alla ricerca di verità, e poi a conversare in forma di metaloghi, dietro cui si cela con pacata ironia la sua tensione etica: che fare delle complicazioni umane su ciò che è “la morale, il bello, il giusto”?; quegli stessi metaloghi che ritroveremo nella annunciata antologia di epica nuova, laboratorio di poesia critica, segno che stile dello scrittore e paradigmi del pensatore, scrittura e metascrittura, procedono di pari passo - come si suol dire - con continui rimandi interni alla sua opera. Un’opera, dunque, fortemente dialogica e relazionale, come emerge dai testi, vedi il magnifico dialogo sulla bellezza con Albert Einstein – "Bello il tuo Universo..." ripetuto per anafora – cui fa da sfondo Giordano Bruno; e come dimostrano l’intenso dialogo teorico intrattenuto con Romanò o l’intensa relazione di confronto col genere altro da sé che da una vita lo lega alla sua compagna, alla quale sarei tentata di dire: brava, hai fatto un buon lavoro! Ma tornando allo stile, questo è un libro che prende il largo fino a sfidare lo stesso limite tra righe e versi, in cui la sperimentazione, e forse persino l’attrattiva ludica della sperimentazione, mettono a repentaglio l’identità stessa della poesia (di cui parla Francesco Macciò)(nel medesimo incontro, ndr), quando le righe sembrano prendere il sopravvento sui versi. E del rischio che corre, del resto, Rabissi è ben consapevole, come attestano i suoi stessi versi in una dichiarazione di poetica: “Ci vuole coraggio per fare di una riga un verso/ accendere parole senza incendiarle…”. Un libro, dunque, che sia per contenuti, sia per aspetti formali, inclina verso momenti di discontinuità e di messa in discussione della tradizione. Il che trova conferma nello stesso dire e dirsi dell’autore: “Sono figlio di quel Novecento che ha mandato tutto a gambe all'aria e che di 'soggetti imprevisti' oltre al femminismo (quello radicale, di liberazione) ce ne ha sfornati tanti altri. La rottura, per me irrinunciabile, tra generi, categorie, paradigmi ecc, avvenuta nel mondo dell'arte come nel sociale e nel politico ecc., a partire dai primi decenni del '900, ha chiesto e tuttora chiede di tentare ritmi nuovi, di provarci. Per cui, lontano dal recupero di ogni tradizione se non rivisitata alla luce criticissima del presente e del suo più alto livello di autocoscienza, brancolo a tentoni ma senza la voglia di definizioni nuove e categoriche (il centro di gravità permanente della canzone). Insomma, voglio dire che tra prosa e poesia c'è meno distinzione di quanta mai in generale ce ne sia stata. Con buona pace di chi vorrebbe restaurare la tradizione tout court. Io ho però un punto di riferimento ed è la mia tendenza alla narrazione. Narro anche in poesia. Non rinuncerei mai a scrivere in righe, come ho fatto, la rivolta dei ciompi nel '300. Né rinuncerei mai a scrivere in versi (quei versi così lunghi che cercano a fatica ritmi nuovi, anche se la musica jazz e la dodecafonica ecc. mi risuonano dentro insieme ai ritmi della musica lirica: mio padre era un tenore lirico!) episodi della mia infanzia o del me adulto innamorato.”  Sin qui le parole notturne del nostro autore.

E ora proviamo ad illuminare più da vicino questi aspetti emersi dal libro di Rabissi.
E per far questo cogliamo il suggerimento di Romanò dato nella prefazione – partiamo dal “montaggio”, ovvero dalla struttura del libro, laddove la misura aurea del respiro poematico di Rabissi è data dal poemetto. In tutto, il libro consta di sette parti, e in ognuna di queste parti, le poesie portano ciascuna un titolo, tale da assegnare piena autonomia al singolo testo; ciò nonostante, l’andamento poematico della versificazione chiama a inanellare le singole poesie in un unico poemetto; per cui avremmo sette parti tendenti al loro interno al poemetto. A loro volta queste parti, una dopo l’altra, suggeriscono una sorta di suite in movimento, sicuramente in transito e in divenire, se non in fuga - osservate i titoli che attraversano l’intero libro: “Lucy... Transizione all’umano”, “Premondi”, “Movimenti in fuga”, “Movimenti di strada”, “Movimenti-metaloghi”…qui niente ha stabile dimora, tutto è provvisorio, sta per divenire, o prossimo a fuggire.
Ora, in questo movimento che attraversa il libro, l’attacco è saldamente affidato ai versi, che sin dall’inizio avanzano sovrani, anche con incedere epico, fino a un punto di snodo in cui cominciano a prevalere le righe, a dire il vero con una prima incrinatura della versificazione già nella seconda parte del libro a fare da avvisaglia; per approdare poi definitivamente alla prosa dell’ultima parte con i “Movimenti-metaloghi” che si richiamano alle leopardiane Operette morali (detto per inciso, Leopardi è l’omega del libro, così come ne è anche l’alfa con riferimento allo Zibaldone). Dicevamo, punto di snodo tra poesia e prosa sembra essere l’esperienza americana – il suo viaggio in Arizona, Tucson - i cui esiti di scrittura vanno a comporre un primo nucleo - “Minidiario da Tucson” - che ritroviamo oggi nella Parte sesta, sotto il titolo “Diario di Occidente”; e forse non è un caso, perché a Tucson qualcosa sembra aver mutato la poetica di Rabissi; di conseguenza, la poesia si fa più colloquiale, più easy nel parlato, quasi più documentaristica, in presa diretta. In questi testi, composti da righe, mi è sorta insistente la domanda: poesia o prosa? È il caso esemplare di “Jumping cholla”. Ho provato a leggerla come poesia, e ho sentito una sorta di versificazione fratturata, una scrittura sincopata da enjambement che fratturano il verso, lasciandosi dietro un frammento, seguito da un verso lunghissimo, come si può evincere anche graficamente. Ma francamente ho avvertito una forzatura. Se, invece, ripristinavo la prosa di “Minidiario da Tucson” ricevuta da Rabissi nel febbraio del 2021, la scrittura tornava a fluire anche graficamente. Allora la domanda è: perché Rabissi ha impresso questa frattura nel testo? Per me Rabissi è giunto in un’area di sperimentazione … quanto risolta, lascerei che sia lui a risponderci.
E veniamo all’epica nuova di Rabissi. E prendiamo, esemplare, la Parte quarta, dal titolo “Movimenti di strada”, che ha una sua dimensione poematica unitaria omogenea. Qui l’Io poetico si pone al di là del “noi”, del “nostro” della specie umana, si pone dalla parte degli orsi, delle faine, rivelando di aver già da tempo compiuto la sua rivoluzione copernicana, di essersi decentrato rispetto all’umano. Così come si è decentrato rispetto al suo genere: “Che la rivoluzione fosse una questione tra uomini/ questo fu subito chiaro.” Per inciso, di queste inversioni che danno risalto all’oggetto della riflessione, ve ne sono più d’una, cosicché l’anastrofe si configura quale vero e proprio tratto stilistico. Coscienza di genere (maschile e non neutro) nella rivoluzione, e consapevolezza della non neutralità delle macchine, avanzano di pari passo, e la concorrenza con cyborg serventi contende alla giovane operaia l’ultimo gradino nella scala dei costi. È qui che incontriamo l’epica nuova di Rabissi, libera, irregolare, ma dove abbondano i ritmi dattilici. In un verso epico, compiuto dal punto di vista metrico, è qui sintetizzata l’angusta condizione del lavoro servile: “fabbriche morte deserti affanni di uomini e donne” (che ritmicamente ricorda l’esametro dattilico, composto da 5 dattili + 1 trocheo), a fronte della quale il lavoro animale offre ben altra visione di grazia: “Che perfezione fanno le ibis rosse…”.
In sintesi il lavoro in progress di Paolo Rabissi offre un esempio di quel confronto tra continuità e discontinuità con la tradizione che ci riguarda e ci invita al dibattito sul rapporto tra epica nuova ed epica classica, tra poesia e prosa, tra righe e versi, se possibile fino al superamento delle antinomie; ciò che vogliamo, in fondo, è stringere un patto rinnovato con la scrittura e portarlo a un grado più alto, insieme.

                                                                                                                                                                                

 Nota: l'incontro tra autori è visibile a questo link: QUI

 






Ma perché Graeber e Wengrow si sono messi a studiare vicende umane di quarantamila anni fa? (seconda puntata)

 Cioè in sostanza essendo il furto di lavoro alla base del sistema capitalistico ne viene che questo sistema è un sistema di ladri. Questo comporta un cortocircuito tra economia e etica. Il giudizio etico torna a imporsi nel terzo millennio d.c. Altro che ripararsi dietro l'ormai secolare 'non si danno giudizi moralistici' sull'economia. Da cui segue che l'economia avrebbe le sue leggi autonome indipendenti dalla morale. E di conseguenza anche la politica, ma lì la morale non esiste dal tempo di Machiavelli, non perché lui ne l'abbia tolta ma perché, ci dice, a andare a vedere come funziona la politica essa funziona bene solo se non tieni conto della morale.

Ma perché Graeber e Wengrow si sono messi a studiare vicende umane di quarantamila anni fa? Semplice a dirsi ma non è cha la risposta sia poi così complessa, lo hanno fatto perché pensavano di poter dimostrare che il sistema capitalistico non è l'unico sistema possibile di convivenza umana né che per forza un sistema di organizzazione sociale debba essere basato sul furto.

I due insomma vogliono quanto meno fare presente che l'attuale sistema mondiale dominato dall'economia capitalistica non è davvero l'unica soluzione veramente possibile per organizzare il pianeta. In realtà non si attardano a rilevare come questo sistema sembra minato dall'interno dalla cattiva manutenzione del pianeta, dalla proliferazione di guerre a bassa intensità ma a alta ferocia, dall'incapacità di agire per il bene comune.

Essi rovesciano l'assunto e spingendosi fin là dove possono arrivare i sofisticati strumenti di indagine antropologica, cioè alle soglie della civiltà, dimostrano che no quello che viviamo non è il destino finale del mondo perché l'umanità ha mostrato di poter organizzarsi in  maniera diversa dall'attuale e che ciò dipende da scelte precise.