1) Ginnasio-Liceo Alessandro Manzoni di Milano. L’anno il 1957, o il ’58.
Venivo dalla provincia. Mi sembrò una buona idea quella di entrare un giorno in classe con Ragazzi di vita in mano. Non avevo nell’animo nessuna volontà di provocare un bel nulla, mi sembrava che potesse essere un viatico buono per essere accolto tra i miei coetanei, tutti figli della borghesia buona milanese. La futura classe dirigente, ripeteva il preside. Non era nelle mie prospettive una simile destinazione, in mezzo a loro ero straniero per troppi aspetti. Cercavo accoglienza, tra i compagni di classe di Milano. Non era forse la grande e moderna Milano, la città dove le cose succedevano, la città sempre in anticipo sui tempi? E non era forse quella la scuola dove ci si educava alle umane letture?
‘Ah, il romanzo di quel culo…’, mi risposero ghignando in due o tre, un po’ goliardi ma di radici ben interrate, proprio quelle che non avevo io.
‘Quel culo’, con i suoi borgatari, da lui percepiti e descritti come sradicati millenari, parlava in qualche modo a me ma non a loro. Pensai a Pasolini uomo forse per la prima volta, fin lì per me era solo l’autore di un breve romanzo che amavo. Pensai per la prima volta alla sua solitudine e ripensai alla mia, alla difficoltà di essere accolto, come profondamente desideravo.
Qualche anno più tardi rincontrai Pasolini nel suo film Il Vangelo secondo Matteo. L’anno il 1964. Pasolini era già carico di glorie. Ma quel Cristo aveva nell’espressione e nei gesti la disperata violenza della solitudine, di chi cerca accoglienza nel mondo. E ripensai alla solitudine di Pasolini uomo, pur nel frastuono provocatorio della sua ricerca di successo.
Ho ripensato alla sua solitudine ancora in un’altra occasione, ma questa volta con un sentimento profondo di rabbia. Come gli saltava in mente di definire in blocco gli studenti come dei figli di papà?
In quegli anni, tra la fine dei sessanta e i primi settanta, nelle Università mettevano piede per la prima volta nella storia del paese numerosi figli di proletari. Si sradicavano da un territorio antichissimo per entrare in uno nuovo, nemmeno a cercarli con buona volontà in quello dal quale provenivano si sarebbe potuto trovare un libro. Paradossalmente era più facile trovarci qualche verso, nelle preghiere dei santini, nei calendari di frate Indovino. Per sostare in qualche modo nel territorio nuovo, dove i ‘papà’ erigevano troppi aristocratici steccati contro i barbari, per pagare tasse, libri e molto spesso anche il proprio mantenimento, c’erano i “lavoretti”, cioè, diminutivo a parte, lavoro nero. Il tutto era quasi epico, ma faticoso. Non eravamo tutti figli di papà. E ci riconoscevamo, nei corridoi delle Università. Dal portamento, dai vestiti, dal linguaggio. Ci si sentiva in effetti meno soli.
Riprendo in mano oggi l’opera in versi di Pasolini. L’eco dei frastuoni del mondo cercati e provocati si sente qua e là, ma più forte sento il timbro di voce della solitudine. E’ questo il ‘luogo’ topico della poesia di Pasolini? Più semplicemente è il luogo dal quale continua a parlarmi.
2) Narciso e la rosa.
Moralità o poesia/ o bellezza, non so,/ protendo questa rosa/ a rispecchiarsi sola.[1]
Se Narciso non rompe gli specchi la sua solitudine genera autodistruzione. Ma, come vedremo, Narciso che rompe gli specchi e conosce l'altro avrà ugualmente la solitudine come inesorabile, splendida compagna.
Rompere gli specchi è peccato? Se ne può conservare sentimento di colpa. Ma c’è un momento in cui il vergine, l’innocente, decide di farsene carico, di superare la paura di peccare. Il poeta che si dice Usignolo della chiesa cattolica (raccolta di poesie scritte tra il 1943 e il 1949) guarda ormai senza timore il diavolo apparso, è pronto[2]. Narciso s’è guardato abbastanza durante la fanciullezza[3].
E la poesia? Quando s’inoltra nel peccato il vergine, ancora insicuro, stringe in mano il ritratto di Radiguet, pensa accigliato a Gozzano[4]. Ma la scelta apre comunque con decisione ed è accoglienza senza compromessi del cieco affanno di fronte a un corpo, a un caldo viso apparso all’improvviso[5]. Sarà, per il poeta, per l’uomo, ossessione, vissuta. E l’amore per la bellezza? Narciso che rompe gli specchi ha verso di sé un moto, di uguale intensità, di disprezzo e tenerezza[6]. Ingenuità e consapevolezza sembrano affondare in oscuri presentimenti.
L’attrazione verso la bellezza è dunque tutt’uno con quella verso il peccato, poesia e vita ci appaiono strette da un legame in tensione polarizzata: purezza e impurità, salvezza e dannazione, paradiso e inferno. Narciso che rompe gli specchi assume su di sé con angoscia e spavento le sue contraddizioni. Narciso che si divincola dallo specchio ha un ultimo gesto: protende una rosa al rispecchiamento. Nemmeno il poeta sa di cosa sia simbolo quel fiore, se di moralità, di bellezza o di poesia. E il gesto? E’ la coscienza della impossibilità di un allontanamento definitivo? E’ un’irrisione al mito o alla vita? O alla morte in vita? E’ un esorcizzare la morte della bellezza, della poesia, della vita stessa? O è gesto che indica la prossima autodistruzione della poesia, l’impossibilità per la poesia di sopravvivere se l’uomo sceglie il peccato?
Al di là delle possibili interpretazioni quella rosa, tesa da sola al rispecchiamento , rimanda, mi sembra, ad altro. Narciso-Pasolini sa che in quello specchio c’è, riflesso, anche il volto di sua madre. Alla quale, come lui stesso dice apertamente, è legato da un amore insostituibile. E’ la madre che gli ha insegnato nient’altro che il piacere di essere ciò che sono[7], e l’amore di lei, non represso, non dà posto/a ipocrisia e viltà[8]: quell’amore lo ha reso sì libero di essere se stesso nella sua diversità ma lo ha anche reso prigioniero per sempre. Amare per lui significherà per sempre amare soltanto sua madre. Solo per essa, impegno tutto il cuore[9]. Per gli infiniti amori occasionali di cui la sua vita sarà affollata arderà in lui solo la carne[10]. La consapevolezza che accompagna Narciso dunque, all’atto di inoltrarsi nel mondo, riguarda una drammatica condanna, quella alla solitudine. Sei insostituibile. Per questo è dannata/alla solitudine la vita che mi hai data.[11]. L’infinita ‘fame d’amore’ (Forse nessuno è vissuto a tanta altezza/ di desiderio…[12]) dovrà accontentarsi dell’amore di corpi senza anima[13], l’unica anima amabile rimanendo per sempre quella della madre.
Quando a questa condanna si aggiungerà quella del mondo, quando, dal loro ‘museo vigilato’, gli adulti condanneranno il Fanciulletto perverso con le gemme/ dell’Europa terse nel mio sesso[14], il poeta starà fermo dalla parte del desiderio, del suo Narciso gioia e solitudine, né si curerà di redenzioni possibili, non si alleerà col ‘cuore onesto’[15], che è troppo puro e ha il freddo della morte e se mai occorrerà ascoltarlo sarà solo in prossimità della morte. Condanna interiore e condanna pubblica diventeranno da questo momento compagne di vita a cui però impedire di occupare troppo spazio a scapito della gioia e del piacere. La purezza non dovrà mai soverchiare la gioia del peccato. Piuttosto che rischiare meglio eccedere nel peccato sia pure col corollario della solitudine. Liberare totalmente la vitalità che è disperata di suo e poi testimoniare, nel verso stesso come vedremo, la necessità dell’indecenza, dell’eccesso, dello scandalo contro coloro che condannano. Proteggere la relazione con l’altro con una ‘impura virtù’. E ripetere, ripetere all’infinito, fino all’estenuazione, consumare relazioni perché non si consumino, perché il peccato resti peccato e la gioia gioia del peccato. Esibizione e testimonianza dello scandalo, cioè, come è stato detto, la ‘necessità morale dell’indecenza’[16], saranno la risposta franca e diretta contro la società che rifiuta.
Impurità contro purezza, desiderio, diversità, soddisfazione del piacere, sono i temi che nella poesia di Pasolini ruotano intorno a quello della solitudine. Con l’insistenza ossessiva della coazione e dell’imperativo si articolano in una sterminata affabulazione anche fino a stremare il verso, a rischiare il non-verso.
E necessità e volontà del conflitto e delle contraddizioni trovano in una infinita serie di antitesi e di sintagmi ossimorici le loro figure logiche. Così le colpe sono innocenti, la purezza odiata se non è quella dell’animale o del libertino, il peccato e la corruzione sognati, l’animo un ‘crogiolo d’amore tumorale’, l’esistenza un ‘rottame stupendo’, la gaiezza ‘paradisiaca e immorale’. L’angelo arde impuro. Il poeta è ‘gelo e sole’. La vita ‘scandalo e festa’.
E l’amato ‘endecasillabo di avorio’[17], che si aggira ‘tra gli smalti e l’acqua dell’Arcadia’, lui che ama solo la gioia e la purezza e che non vuole peccati o pianti di fanciulli, come può amare ciò che il poeta ama in se stesso, la ‘pazzia di acqua e di assenzio’[18], le finte innocenze, l’isterismo nascosto ‘tra i panni dell’eretico’, ‘lo scisma’ del proprio linguaggio? La risposta è ormai scontata: l’angelo deve ardere impuro, il cuore elegiaco deve proteggere la poesia di virtù impura. E dunque ripetere, ripetere l’endecasillabo all’infinito, fino all’estenuazione, allungato o accorciato, condensato o slabbrato , sgambetti di ritmo al suo interno, sospensioni o arresti del senso andando a capo. Scandalo e festa. Terzine di tradizione riconoscibile. Irriconoscibile, scismatico, eretico, ma sempre lì, il finto endecasillabo con la sua finta innocenza. Finché il verso non scioglierà ogni legame con la metrica tradizionale ( e sarà dal 1963, 1964 in avanti).
3)E la notte in giro, come un gattaccio/ in cerca d’amore…[19]
Con i loro freschi corpi, coi calzoni un po’ lisi nel grembo, con la loro sacca tiepida[20], quelle facce vivide di cuccioli lupi, quei maschi adolescenti dalla bella nuca… sono a decine, a centinaia. Ma il poeta non può amarne nemmeno uno. Il suo è amore di pura sensualità, replicato nelle valli sacre della libidine/ sadica, masochista[21]. Ma meglio la morte che rinunciarvi. E quando il desiderio incalza è una ansia funeraria[22] quella che precede una tardiva soddisfazione. E l’atto, con quei maschi che portano nel grembo un segreto impuro come un giglio, bisogna ripeterlo mille volte[23].
Il peccato e la condanna, l’impurità e l’eccesso hanno il loro paesaggio. Quei corpi da amare vivono tra ruderi e grotte abitate da feci e fanciulli o in borgate in disfacimento o sul lungofiume che, nella sera che sa di orina, riecheggia di passi viziosi. ‘Erba sozza delle marcite’, ‘deschi approntati dentro porcili’, ‘infette marane di borgata’. Gioisce qui una gioventù ironica fatta di ‘peoni’, poveri e pagani, da sempre ‘barbari’, che hanno nel calore del sesso ‘la propria unica misura di vita’. Si negano e si concedono con violenza, puri e corrotti, popolo mai abbagliato dalla modernità eppure sempre il più moderno, che vive come il poeta ‘in una sola generazione tutte le generazioni’, schiavo che canta la propria leggerezza, che inebria la città coi suoi fischi e i suoi canti. Proletari la cui ‘allegria è religione’ per il poeta. Periferie di ‘ardenti e acidi immondezzai’, che sanno di ‘sangue marcio’, ‘borgate tristi, beduine’[24] percorse dal vento, da ragazzini ‘stridenti nelle canottiere a pezzi’[25], da irose prostitute, da grappoli di militari e operai. Una vita che è ‘pura malinconia’.
E’ la scenografia ricorrente nei versi sin dalla raccolta Le ceneri di Gramsci del 1957 fino a Trasumanar e Organizzar del ’71 e oltre. Scene riprese dall’occhio nelle lunghe solitarie camminate serali, al momento del rientro nelle case o nell’immediato dopocena. Quando le disillusioni (la fine delle speranze in una trasformazione profonda della società suscitate dalla Resistenza e l’imborghesimento anche di proletari e sottoproletari dentro il neo-capitalismo), l’amarezza per le condanne alle sue opere, il disincanto verso i movimenti rivoluzionari del ’68 e infine l’avanzare dell’età occuperanno l’animo, sarà il momento del rimpianto per un’epoca conclusa e ormai lontana come un mito. E acquisterà più spazio la riflessione sul proprio destino. Il tono della voce, che diviene via via anche rabbioso o ironico, troverà sempre più consistenza nel doppio registro dell’antitesi, legata da una parte alla irrinunciabile gioia del sesso senza anima, dall’altra alla solitudine. Afferma il poeta nel 1963, quando è ormai famoso e agiato (oltre che perseguitato dalla giustizia italiana): io riconosco/ciò che conobbi: sole e solitudine[26]. Ma è sulla solitudine che l’accento cade più frequentemente. Le relazioni col mondo sono diventate più difficili. Le file degli amici d’un tempo si sono assottigliate …ho perso la mia compagnia/ di poeti dalle facce nude, aride/di divine capre, con le fronti dure/ dei padri padani…[27], e non senza sue colpe: non ho saputo avere la grazia/ per tenermeli stretti[28]. Anche in relazione ai suoi rapporti intimi non pochi versi mettono definitivamente a nudo la sua condizione :
…i baci, ogni volta a una bocca diversa,
sempre più vergine,
sempre più vicina all’incanto della specie,
alla norma che fa dei figli teneri padri,
piano piano
sono divenuti monumenti di pietra
che a migliaia affollano la mia solitudine.[29]
4) Il diletto deserto
Ma è solitudine amata, voluta … ‘come un re’[30]. Narciso sembra lontano. Che ne è del mio narcisismo, si chiede, in Trasumanar e organizzar, il poeta che sente prossima la fine della sua carriera: Io non ho più il sentimento/ che mi fa avere ammirazione per me[31]. In questo modo c’è il rischio del silenzio: cosa potrà mai comunicare ora il poeta se non se la sente più di comunicare l’unica cosa che fin qui ha comunicato e cioè, come abbiamo già visto, ‘il piacere di essere ciò che sono’?
E aggiunge subito dopo: se in questo modo riuscirò a scrivere ancora versi, si tratterà di versi ‘appena passabili’ e avverrà solo per abitudine. Che è come dire che proprio a prendere eccessive distanze dal proprio Narciso si finisce con lo scrivere pochi versi e mediocri.
Nei nuovi registri dell’ironia e dell’umorismo, che agli occhi del poeta appaiono ora come unici possibili percorsi stilistici, Pasolini continua a fare poesia ammirandosi, guardandosi anche quando parla di sé che fa poesia. E non si pensi che questo ammirarsi e guardarsi risulti una sovrapposizione che vada espunta per poter godere dei versi buoni: nel verso ormai completamente libero da costrizioni tradizionali Narciso continua a stare per necessità in scena dal primo all’ultimo quadro di tutti gli atti a dire poesia. Col suo carico, esibito o sotteso, di abbandono e solitudine.
Nella nota finale scritta per l’edizione di Trasumanar e organizzar, Pasolini avverte che la raccolta è nata sotto l’idea della diminuzione di futuro per la propria esistenza e, per reazione, dell’aumento del piacere di vivere. E la ricerca del piacere continua, nei versi, a vivere di momenti e luoghi ormai antichi. E torna, immancabile, l’accento sulla solitudine. La solitudine: bisogna essere molto forti/ per amare la solitudine… E’ la poesia Versi del testamento[32]. Quando in vecchiaia la stanchezza comincia a farsi sentire, avverte il poeta, il rischio è quello di non avere forze bastanti per uscire, affrontare la passeggiata serale. Nella quale, aggiunge in modo tremendamente inquietante, non si devono temere/ rapinatori o assassini. Ma sarà l’incontro occasionale di puro sesso a soddisfare il desiderio di solitudine. E la solitudine è ancora più grande se una folla intera/ attende il suo turno: cresce infatti il numero delle sparizioni. Ogni incontro è un momento della solitudine e più caldo e vivo è il corpo gentile/ che unge di seme e se ne va,/ più freddo e mortale è intorno il diletto deserto. Per una camminata senza fine per le strade povere bisogna avere gambe buone, una resistenza fuori del comune: bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani. Ma non c’è nulla al mondo, nessuna soddisfazione che la vita possa offrire che valga l’incontro nella sera con la solitudine.
(Il testo presente è una rielaborazione di quello pubblicato nell'autunno 2002 su La mosca di Milano)
[1] Il Narciso e la rosa, è in L’usignolo della chiesa cattolica, comprende poesie scritte tra il
1943 e il 1949. Vedi P.P.Pasolini Bestemmia, Tutte le poesie, Garzanti, pag. 333.
[2] Sermone del diavolo, in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 323
[3] Il Narciso e la rosa, cit. pag. 332
[4]Sermone del diavolo, cit. pag. 323.
[5] L’illecito, in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 326.
[6] Solitudine, in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 328.
[7] La nascita di un nuovo tipo di buffone, in Trasumanar e organizzar, edita nel 1971, in P.P.
Pasolini, Bestemmia, cit. pag. 902
[8] La realtà, è in Poesia in forma di rosa, comprende poesie scritte tra il 1961 e il 1964. Vedi
P.P.Pasolini, Bestemmia cit. pag. 654.
[11] Supplica a mia madre, in Poesia in forma di rosa, cit. 640.
[12] La realtà, cit. pag. 653.
[14] Lingua, è in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 351.
[15] Dies irae, ibidem, pag. 360.
[16] Vedi Franco Fortini, I poeti del Novecento, Laterza, pag. 188.
[17] Lingua, in L’usignolo della chiesa cattolica, cit. pag. 353.
[19] Poesie mondane, in Poesia in forma di rosa, cit. pag. 639.
[20] Le belle bandiere, ibidem, pag. 740.
[22] La realtà, cit. pag. 653.
[23] La realtà, cit. pag. 654.
[24] Il pianto della scavatrice, in Le ceneri di Gramsci, comprende poesie scritte tra il 1952 e
il 1957. Vedi P.P.Pasolini Bestemmia, cit. pag. 248.
[26] La persecuzione, in Le ceneri di Gramsci, cit. pag. 686.
[27] La realtà, cit. pag. 649.
[28] Le belle bandiere, cit. pag. 736
[31] La nascita di un nuovo tipo di buffone, in Trasumanar e organizzar, Vedi Bestemmia, cit.
pag. 901.
[32] Versi del testamento, in Trasumanar e Organizzar, cit. pag. 959.