venerdì 11 aprile 2014

Ben fatto, professore

Ci vuole l'allegria del naufrago per continuare a cercare se non la verità quanto meno ciò che le si avvicina, in mezzo a tanti ostacoli. L'intellettuale, quello serio non il chiacchierone che non manca mai in nessuna categoria, conserva quello spirito per non venire meno al proprio statuto, sia quando intorno c'è il deserto sia quando intorno la ressa rischia di sommergerlo. La riserva di allegria della ricerca lo salva. In questo caso, dato che perlopiù l'intellettuale, il professore, scrive, te ne accorgi dal tono che prevale nella sua scrittura. Un tono disincantato che avverte che non c'è troppo da illudersi ma anche un tono fermo di chi non recede dal suo impegno. Spesso è una scrittura che ha il dono di dire con leggerezza cose alte, quelle che appunto sono prossime alla verità. Howard Zinn, del quale sto rileggendo A people's History of the United States, la cui prima edizione è del 1980, ha questo dono. Chi ha conservato dai banchi di scuola e dalle pagine dei manuali di Storia l'idea romantica di un destino nobile e universale della civiltà occidentale (e del capitalismo) se ne distacca ben presto leggendo le prime pagine. Non si tratta di polemizzare con le magnifiche sorti e progressive della civiltà occidentale sostenute dai benpensanti, si tratta di prendere atto, prove alla mano, che le cose vanno a questo mondo in maniera diversa da come spesso ci viene raccontata. Da come spesso ci è più semplice credere: perché la verità, piccola o grande che sia, è sempre difficile da cercare, richiede la lentezza della  pazienza, coraggio e perseveranza, tutte doti che bisogna avere appunto l'allegria del naufrago per praticarle  e non la frettolosa convinzione di essere dentro la verità. Quando Colombo e i suoi marinai raggiunsero la riva di quell'isola delle Bahamas nel Mar dei Caraibi uomini e donne arawak, nudi abbronzati e colmi di meraviglia, li accolsero portando acqua, cibo, doni. Scrive Colombo nel suo diario di bordo che erano tutti bellissimi e gradevoli nella fisionomia. Non conoscevano armi, né ferro. E aggiunge subito dopo a commento, rivolto alle loro altezze reali Ferdinando e Isabella di Spagna: "Le Altezze Vostre con una cinquantina di uomini li terranno tutti sottomessi e potranno far fare loro tutto ciò che vorranno". Sei insomma costretto a riflettere subito sul background culturale di Colombo, neo-ulisse cattolico osservante, uomo dello splendido Rinascimento. Per portarsi avanti intanto Colombo ne mette ai ferri un certo numero per far loro confessare da dove proveniva l'oro dei loro orecchini. Se  questo comportamento va addebitato a mentalità generale, Colombo poi ci mette anche del suo. Aveva promesso una pensione vitalizia a chi avesse avvistato la terra per primo. Alle primissime luci dell'alba del 12 ottobre del 1492 un marinaio di nome Rodrigo vide la luna brillare sulla sabbia bianca dell'isola e gridò. La pensione non l'ebbe mai. Se la prese Colombo che affermò di aver visto una luce la sera prima. Verrebbe da dire che era arrivata appunto la civiltà occidentale. Ma non sarebbe nello spirito giusto. Confermare come siamo fatti è sempre un po' dolente e l'intellettuale, lo studioso, il professore, questo lo sa. Ma per quanto amaro sia è giusto raccontare il vero o quello che gli è prossimo. Howard Zinn, storico statunitense, morto qualche anno fa, ha raccontato una storia diversa, avvicinandola alla verità, ha raccontato la storia non dei vincitori ma dei poveri, dei nativi americani, degli schiavi di colore e delle donne. Un intellettuale scomodo. Come tant*. Terribile in questi giorni sentire liquidare posizioni politiche opposte con il termine di intellettuale o professore declinato in una nota accezione svilente. "I professoroni, gl'intellettuali di turno". Antica formula retorica quella di sminuire il valore di posizioni politiche contrarie. Niente di che dunque, non fosse che in questo caso c'è un surplus odioso.
Quando in certi momenti del Novecento l'intellettuale è diventato categoria nociva, nemica e antipattriottica suonavano le trombe imperial fasciste, naziste e staliniste. Se risuonano oggi, con buona pace dei nostalgici, non è certo perché sia all'ordine del giorno una riedizione di tutto ciò, ma il fatto che risuonino sia tra chi si definisce di destra sia tra chi si definisce di sinistra è quanto meno segno che tutti costoro hanno perso il contatto con quanto di meglio ci hanno lasciato i movimenti degli anni sessanta. Quei movimenti sono stati profondamente antiautoritari. E hanno segnato un solco di civiltà, una barriera invisibile ma tuttora vitale che è patrimonio non solo dei settantenni come chi scrive.  L'antiautoritarismo è tuttora per molti della mia generazione - di cui certamente molti intellettuali e professori -  ma non solo (perché ho il piacere di constatare di avere trasmesso a molti dei miei allievi il suo senso) una sorta di zoccolo duro, una struttura mentale che ha come costante l'esercizio dello spirito critico e che non rinuncia a essere scomodamente accampata in una visione del mondo che ha appena cominciato a enunciare i suoi assiomi. Non è solo la costanza dell'analisi critica delle forme attuali dello sviluppo capitalistico, delle sue contraddizioni e delle modalità con cui si camuffa da democrazia, è anche la messa a tema dei lasciti, dentro tutte le nostre  relazioni, del patriarcato e delle sue leggi millenarie che il femminismo contribuisce a svelare. Declinare questi due insiemi è possibile solo dentro una visione del  mondo antiautoritaria quale il secondo Novecento ci ha lasciato. C'è molto lavoro insomma, con l'allegria dei naufraghi, per i professori e gli intellettuali, come Howard Zinn.