Ogni volta che metto mano al roseto o alle siepi di alloro, cercando di estirpare le piante parassite, mi torna in mente il famoso giardino di Leopardi nello Zibaldone. Lì dentro c'è un'aporia, perlopiù ignorata perché sarebbe un leggero ma significativo scostamento dalle immagini consuete che abbiamo di Leopardi dopo duecento anni che lo si legge.
In quel giardino la guerra tra le varie specie è totale per cui la souffrance, l'infelicità, è totale. Persino il giardiniere estirpa vite, strappa via, uccide, egli infatti "...va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro". La frase chiude il passo dello Zibaldone, datato Bologna, 19 aprile 1826. Già. Quel giardiniere, apparentato per natura a tutte le altre specie in guerra mortale fra loro, in realtà è una presenza più problematica di quanto il poeta non voglia. Leopardi sorvola sul fatto che quell'esemplare di Sapiens, a differenza delle altre specie, in quel giardino fa un lavoro, verosimilmente sotto padrone. Tronca vite per guadagnarsi la pagnotta, e qui in qualche modo può essere assomigliato alle altre specie che uccidono per sopravvivere ma fa anche qualcosa in più, lavora per rendere più gradevole il giardino. Nessun'altra specie può fare né l'una né l'altra cosa, lavorare sotto padrone, rendere gradevole il giardino.
A prima vista sembrerebbe dunque che anche la specie umana sia inesorabilmente partecipe di quella guerra tra forti e deboli cui la natura, madre matrigna, destina ogni forma di vita. Ma il genere umano ha una chance in più. Leopardi lo sa bene. Ma qui gli premono troppo le sue premesse materialiste, vuole metterci con le spalle al muro e convincerci che l’esistenza è destinata all’infelicità. Eppure quella frase finale della sua pagina di diario è una nota di ottimismo che apre a una condizione particolare che appartiene solo al genere umano. C’è del lavoro da fare. Per rendere meno infelice per sé e per gli altri l’universo, per rendere più utile per sé e per gli altri la materia. Quello del giardiniere è il lavoro che, preservando un certo ordine nel caos distruttivo del giardino, dona a noi un attimo di sospensione dal male dilagante, ci offre un po’ di bello in godimento, una pausa contro l’infelicità. Leopardi lo sa bene perché è quello che infatti pensa della poesia, del lavoro del poeta. “Della lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia, in versi o in prosa (ma più efficace impressione è quella de' versi), si può, e forse meglio, (anche in questi sì prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire; e ci accresce la vitalità. “(Feb. 1829, Zibaldone).
Quello a dire il vero è l’unico lavoro che Leopardi concepisce. L’altro, quello ‘utile’ in generale, quello che gli umani scambiano tra loro, lo inorridisce un po’ per quanto si sta diffondendo nella vita comune. A Firenze una volta butta giù una bozza di programma per una rivista che doveva avere come compito, oltre quello di piacere alle donne, di fare guerra all’utile. Ce l’aveva con i suoi amici liberali fiorentini che progettavano un’economia tutta basata su quell’utile che non lasciava spazio a fantasia e immaginazione
La sopravvivenza, certo. Lui sa bene, ora e già, cosa significa lavorare da salariato. Essendo un nobile spiantato, per liberarsi dalle catene familiari e mantenersi dovette adattarsi al lavoro, cosa che fece inorridire il padre. Lavorò, di stanza perlopiù a Bologna, per l’editore milanese Stella con mansioni simili a quelle di direttore di collana. In più dava ripetizioni e traduceva. Il suo epistolario nel rigido inverno bolognese del ’26 gronda di improperi per quella vita alienata. E non era più ormai perché mancava di mezzi. Al fratello scrive che ora con quei lavori passa addirittura per ricco. E non era neanche perché ora da single doveva provvedere personalmente a tutti i bisogni quotidiani fuori com’era da tutte le cure in casa Recanati. Il problema era un altro. Si era emancipato dalla famiglia ma non scriveva un verso. Alla lunga, piegato anche dai malanni, dovette tornare a casa. A entrare nello scambio organizzato di prestazioni da lavoro entrava dentro una guerra simile a quella del giardino con quel giardiniere sullo sfondo ma senza produrre gran che di bello, solo pochi irrisolti versi. Uscirà poi definitivamente da casa proprio grazie a quegli amici fiorentini che seppero procurargli una sorta di vitalizio a Firenze con cui riuscì anche a pubblicare i Canti.
C’è un lavoro da fare. E’questo che suggerisce quel giardiniere. Ma oltre al lavoro per rendere più gradevole il nostro infelice soggiorno in vita ce n’è anche un altro. Rendere meno infelice la nostra permanenza in vita è possibile, staccarsi dalla natura matrigna, darle scacco, schiacciarla nella sua natura prima e puntare a una seconda natura. La specie umana, conferma il poeta, a differenza delle altre, è l’unica in grado di fare ‘civiltà’, di avanzare in un vero progresso. Ma c’è un lavoro serio da fare, rinunciare alla guerra tra noi, operare al contrario per la formazione di una confederazione umana che operi per sostenere gli uni e gli altri, una ‘social catena’ che “…tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune.”
Sarà il messaggio del poeta al termine della sua vita, quella de "La ginestra o il fiore del deserto".