sabato 16 luglio 2022

Il giardiniere dello Zibaldone (Bologna, 1826). C'è del lavoro da fare.



 Ogni volta che metto mano al roseto o alle siepi di alloro, cercando di estirpare le piante parassite,  mi torna in mente il famoso giardino di Leopardi nello Zibaldone. Lì dentro c'è un'aporia, perlopiù ignorata perché sarebbe un leggero ma significativo scostamento dalle immagini consuete che abbiamo di Leopardi dopo duecento anni che lo si legge. 

In quel giardino la guerra tra le varie specie è totale per cui la souffrance, l'infelicità, è totale. Persino il giardiniere estirpa vite, strappa via, uccide, egli infatti "...va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro". La frase chiude il passo dello Zibaldone, datato Bologna, 19 aprile 1826. Già. Quel giardiniere, apparentato per natura a tutte le altre specie in guerra mortale fra loro, in realtà è una presenza più problematica di quanto il poeta non voglia. Leopardi sorvola sul fatto che  quell'esemplare di Sapiens, a differenza delle altre specie, in quel giardino fa un lavoro, verosimilmente sotto padrone. Tronca vite per guadagnarsi la pagnotta, e qui in qualche modo può essere assomigliato alle altre specie che uccidono per sopravvivere ma fa anche qualcosa in più, lavora per rendere più gradevole il giardino. Nessun'altra specie può fare né l'una né l'altra cosa, lavorare sotto padrone, rendere gradevole il giardino. 

A prima vista sembrerebbe dunque che anche la specie umana sia inesorabilmente partecipe di quella guerra tra forti e deboli cui la natura, madre matrigna, destina ogni forma di vita. Ma il genere umano ha una chance in più. Leopardi lo sa bene. Ma qui gli premono troppo le sue premesse materialiste, vuole metterci con le spalle al muro e convincerci che l’esistenza è destinata all’infelicità. Eppure quella frase finale della sua pagina di diario è una nota di ottimismo che apre a una condizione particolare che appartiene solo al genere umano. C’è del lavoro da fare. Per rendere meno infelice per sé e per gli altri l’universo, per rendere più utile per sé e per gli altri la materia. Quello del giardiniere è il lavoro che, preservando un certo ordine nel caos distruttivo del giardino, dona a noi un attimo di sospensione dal male dilagante, ci offre un po’ di bello in godimento,  una pausa contro l’infelicità. Leopardi lo sa bene perché è quello che infatti pensa della poesia, del lavoro del poeta. “Della lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia, in versi o in prosa (ma più efficace impressione è quella de' versi), si può, e forse meglio, (anche in questi sì prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire; e ci accresce la vitalità. “(Feb. 1829, Zibaldone).

Quello a dire il vero è l’unico lavoro che Leopardi concepisce. L’altro, quello ‘utile’ in generale, quello che gli umani scambiano tra loro, lo inorridisce un po’ per quanto si sta diffondendo nella vita comune. A Firenze una volta butta giù una bozza di programma per una rivista che doveva avere come compito, oltre quello di piacere alle donne, di fare guerra all’utile. Ce l’aveva con i suoi amici liberali fiorentini che progettavano un’economia tutta basata su quell’utile che non lasciava spazio a fantasia e immaginazione

La sopravvivenza, certo. Lui sa bene, ora e già, cosa significa lavorare da salariato.  Essendo un nobile spiantato, per liberarsi dalle catene familiari e mantenersi dovette adattarsi al lavoro, cosa che fece inorridire il padre. Lavorò, di stanza perlopiù a Bologna, per l’editore milanese Stella con mansioni simili a quelle di direttore di collana. In più dava ripetizioni e traduceva. Il suo epistolario nel rigido inverno bolognese del ’26 gronda di improperi per quella vita alienata. E non era più ormai perché mancava di mezzi. Al fratello scrive che ora con quei lavori passa addirittura per ricco. E non era neanche perché ora da single doveva provvedere personalmente a tutti i bisogni quotidiani fuori com’era da tutte le cure in casa Recanati. Il problema era un altro. Si era emancipato dalla famiglia ma non scriveva un verso. Alla lunga, piegato anche dai malanni, dovette tornare a casa. A entrare nello scambio organizzato di prestazioni da lavoro entrava dentro una guerra simile a quella del giardino con quel giardiniere sullo sfondo ma senza produrre gran che di bello, solo pochi irrisolti versi. Uscirà poi definitivamente da casa proprio grazie a quegli amici fiorentini che seppero procurargli una sorta di vitalizio a Firenze con cui riuscì anche a pubblicare i Canti. 


C’è un lavoro da fare. E’questo che suggerisce quel giardiniere. Ma oltre al lavoro per rendere più gradevole il nostro infelice soggiorno in vita ce n’è anche un altro. Rendere meno infelice la nostra permanenza in vita è possibile, staccarsi dalla natura matrigna, darle scacco, schiacciarla nella sua natura prima e puntare a una seconda natura. La specie umana, conferma il poeta, a differenza delle altre, è l’unica in grado di fare ‘civiltà’, di avanzare in un vero progresso. Ma c’è un lavoro serio da fare, rinunciare alla guerra tra noi, operare al contrario per la formazione di una confederazione umana che operi per sostenere gli uni e gli altri, una ‘social catena’ che  “…tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune.” 


Sarà il messaggio del poeta al termine della sua vita, quella de "La ginestra o il fiore del deserto".



martedì 12 luglio 2022

"...pianzotto pestapevere co' l'oio de bacalà te misi la polenta per il povero soldà." Pestavano spezie e ci lacrimavano dentro in quella antica fabbrica

Dalla mia infanzia triestina del dopoguerra la memoria mi rimanda ogni tanto (i nipotini!) una filastrocca che suona così: pianzotto pestapevere co' l'oio de bacalà te misi la polenta per il povero soldà. La filastrocca ha un risvolto di classe, pestavano spezie certi operai e ci lacrimavano dentro in una nota fabbrica triestina. Certo tutti gli adulti o quasi da cui ero circondato a fine anni '40 erano operai e avranno avuto motivi cogenti per tenere alla larga mocciosi piagnucolosi. Non c'era tempo. Mio zio che lavorava nel porto, amava moltissimo il figlioletto nato da seconde nozze ma erano ceffoni se partiva col piagnucolio. Di quella infanzia la memoria mi rimanda  anche altro, soprattutto le immagini legate alla guerra. Gli strilli delle sirene, le scale scese a precipizio, i vetri in frantumi, l'oscurità del rifugio sotto casa, il fango del tunnel dove riparavamo. Da adulto, pur trascurando di chiedermi cosa avevo a che fare con polenta e baccalà per il povero soldato, ho fatto comunque un po' di conti.  Era evidente che quel rimproverare e sbeffeggiare il pianto dei bambini, non solo il mio, era una pressione educativa perché smettessero appunto di fare i bambini e si comportassero un po' di più da adulti. Bisognava lavorare. Non c'era tempo per pensare che spesso il pianto dei bambini è dovuto al loro sentirsi incapaci di rispondere alle aspettative degli adulti, di fare bene quello che vogliono ma appunto soprattutto quello che loro si aspettano, perché sappiamo anche che una gran parte dei messaggi educativi arrivano loro non dall'intervento diretto ma dai comportamenti, dai modi di fare, dai gesti spontanei.  

La mia generazione ha avuto meno bambini/e piagnucolosi/e, vuoi per un relativo benessere di massa dovuto al fatto che il lavoro non mancava come oggi, vuoi perché il conflitto generale di classe tra operai e capitale, culminato nelle lotte degli anni settanta, aveva determinato una redistribuzione più giusta dei carichi di lavoro e della ricchezza, vuoi perché il clima generale di analisi critica che investiva tutto il mondo aveva aumentato di molto le consapevolezze di tutte/i. C'era un po' più di tempo per ascoltare. E più allegria.

Dubito che bambini/e piagnucolosi/e di oggi finiranno per mescolare polenta per i soldati anche se la guerra è qui vicino. Certamente i governi non permetteranno che ciò accada. Il loro mandato semmai è quello di garantire ai benestanti per primi e ovviamente a tutti i ricchi attuali e ai loro bambini, maschi e femmine, grosso modo lo stato attuale. Aumenteranno invece, per equilibrare in stato di crisi permanente l'accesso di classe ai consumi migliori, disoccupati e/o working poors di tutti i generi i cui figlioli non avranno tempo per piagnucolare. Ad essi forse non mancheranno nemmeno i giochi luccicanti della nuova tecnologia, solo che al pari di tutte le altre necessità materiali, dal cibo ridotto a spazzatura, alla sanità e alla sicurezza rese nulle, saranno da usa e getta, al pari della loro fanciullezza.