martedì 8 novembre 2022

Di grilli, di guerra. 4 metaloghi di fine estate.



metalogo numero 1

Ormai ci sono, la lunga siepe di alloro è quasi interamente ripulita. Intrecci e viluppi di rovi strappati via insieme al marciume di foglie vizze. Mi manca un ultimo scompiglio di radici, lì cinque o sei grilli si sono spaventati, in due salti sono scomparsi nella siepe.

Solo uno è rimasto su un rametto. Mi fa: "...era ora che ti decidessi eh?! Qui dentro è tutto uno schifo!"

Ho abbozzato. "...va bene ho capito. Ma adesso qual è la morale?"

"Quale morale? La morale non è roba per me, noi non sappiamo cos'è, siete voi umani a farne dalla mattina alla sera, sembra non abbiate niente di meglio da fare..."

" sì, però adesso sei tu che stai facendo la morale e io cosa gli dico ai nipotini? che devono guardarsi dai moralisti che abbondano tra noi ma a quanto pare anche tra voi?"

Non mi ha risposto. Con un salto è scomparso dentro la siepe.


metalogo numero 2

La prima pioggia di settembre col cielo scuro oggi cade silenziosa, la siepe di alloro luccica, dalla grondaia cade un flusso continuo sul fusto della magnolia e sulle rade foglie. Insolita è l’aria fredda.

Non mi resta molto da fare. Anche in cima alla siepe a Nord, là dove fronteggia l’intrusione delle canne, ho già svelto le ultime radici di erbe.

«…bella carneficina eh?!» torna a dirmi il grillo ricomparso tra le foglie.

«…lo so, lo so…anche quelle radici quelle erbe sono vite che elimino. Ma non mi sento male. E’ una contraddizione che non so affrontare» gli dico.

A tratti mi sembra una questione oziosa. Ma o prima o dopo mi tornano in mente i nipotini con la loro rigorosa propensione animalista, ecologica, ecc. Manca cosa alla mia valutazione? Forse siamo tutti bloccati in una dimensione materiale sbagliata. Eppure questa trappola non posso ritenerla un destino. Mi suonerebbe come la condanna per il biblico peccato.

Ho preso il rastrello e ho cominciato ad ammucchiare le foglie secche. Molte erano cadute da sole. Fa freddo ma piove col garbo da giardino.


metalogo numero 3

Insomma fossero queste le contraddizioni da risolvere, mi dico.

«Io però dubbi non ne ho…» aggiunge il grillo « E’ proprio una questione oziosa: la guerra tra le specie è naturale, sai meglio di me che ciascuno di noi è preda e predatore. Qui, dentro la siepe, la guerra tra insetti, affini e tutti gli altri è continua, totale, per sopravvivere ci mangiamo anche tra noi »

«Sull’altro lato della siepe ieri c’era una cavalletta, ti assomiglia…»

« …aiuto, alla larga, parenti serpenti, quelle distruggono tutto dove passano e di me fanno un boccone…»

« La vedi quell’edera che si è così platealmente intrecciata al fusto del pruno? Lo stava soffocando lentamente, infatti quest’anno non ha dato frutti…»

«…meglio, così i corvi girano al largo, altrimenti quando arrivano per beccare ne approfittano per aggredire anche noi…»

«…insomma io l’ho recisa alla base, quello che faceva non mi sembrava né bello né giusto…»

«…ah! prima la morale, adesso il bello, il giusto…Né la moralità, né la bellezza, né la giustizia mi riguardano, sono problemi coi quali voi umani vi complicate la vita, io penso solo a mangiare quanto è più piccolo di me e a guardarmi da quanto è più grosso, come la cavalletta…questa è la nostra guerra, ma a guardare bene mi sembra che assomigli molto alle vostre…»

«…sì, ma voi siete condannati a non avere tregua, noi abbiamo imparato a fare pause…»

«…mah, le pause le faccio anch’io, a me le vostre sembrano sempre più brevi!».


metalogo numero 4

Il sole ha già dissolto la guazza nel prato, la luce sembra mettere in tensione la siepe di alloro, il pruno, le canne a Nord e le rose. La giornata chiama altrove, sto ormai tirando per le lunghe le mie rifiniture. Ho concluso con lui sbrigativo:

«…secondo questo ragionare dunque noi tutti animali siamo destinati alla guerra per l’eternità, almeno finché qualcosa non ci incenerisca tutti…»

« …chissà…, ora ti lascio, devo procurarmi cibo e un po’ di tranquillità per suonare le mie zampe e attirare le grille…, la vita continua…»

«…mi fermo anch’io, prima che sia necessaria una nuova pulitura ci vorranno mesi…»

Ho strappato un ultimo ramo di rovo spinoso e poi ho riposto in un angolo le cesoie, il rastrello e i guanti. Lui ha sostato un attimo rivolto verso di me poi con l’ultimo salto è scomparso nel folto della siepe. Non aveva un’aria molto felice. Nemmeno io.




domenica 2 ottobre 2022

Riflessioni di fine estate. Milano ottobre '22

2 ottobre 

Avrei voglia di scrivere ma ciò cozza con il mio attuale stato, quello che riesco a fare è solo qualche breve riflessione su FB, la qual cosa mi immette nel luogo che maggiormente mi crea contraddizioni tant’è vero che ci torno per decidere di non farlo più. Avrei voglia di leggere ma ciò cozza ancora con me stante il fatto che i libri li lascio a metà (non tutti). Però c’è l’epica da mettere insieme e chissà cosa verrà fuori. Poi c’è Piergiorgio che dalle sue righe fa il grande intellettuale moralista che è stato e che si lascia leggere. Odio avere impegni. Non so che farmene. Se non ne ho però un po’ li cerco. Stiamo bene a Milano e credo proprio che l’abbuffata di Cinquale ci vorrà ancora un pò per digerirla. Sarà perché non vivo nulla di cogente. La politica mi annoia e in questo momento di guerra che dire? Non sono un intellettuale, in questo momento, impegnato, se mai lo sono stato, sono uomo di lettere un po’ all’antica, di quell’epoca remota mai esistita in cui il prof di lettere era buon artigiano di lettere, sempre sulla soglia di casa, questo sì con una forte propensione a essere attivo, uscire, fare la spesa, andare in bici, ma anche impegnare le mani, fare buchi nei muri, pittare le porte, magari cucinare. A’ nottata è passata, e dunque che altro c’è da fare? Insomma un letterato pacifico di provincia, Rimini magari anni ’50, non Milano, a Milano c’è la Storia e se studi Storia allora diventi intellettuale ma per scelta fortemente sentita di quelli impegnati a dire il mondo e magari a capovolgerlo. Bisognava farlo. Comunque provarci. Ora via Bellezza parco Ravizza sono di fatto come la mia Rimini vissuta negli anni ’50, anni spensierati, disimpegnati, senza storia, il mare a portata di bicicletta, le ragazze, gli amici di strada, il profumo degli alberi, del mare, le carezze nella loro espressione più innocente. Perché non godere tranquillamente di tutto ciò? La rivoluzione è stata. Tutto domani cambierà. Ma forse no.

sabato 10 settembre 2022

freddo in arrivo

...l'emozione degli anni. Sempre più intriganti, complessi, ricchi di belle cose, relazioni, situazioni, atterraggi, divincolamenti, connessioni impreviste, come talora la medusa che sfiori in acqua.

L'estate sta finendo, il freddo maggiore mi verrà non dalle restrizioni nell'uso delle varie forme di energie ma dall'esito delle elezioni.

Ho pigramente sfogliato i 25 punti del programma  dei Fratelli d'Italia, letti sulla rete. Fatti salvi cinque o sei che potrebbero allarmare (ma non tanto) i progressisti tutti gli altri suonano generici abbastanza da permettere di smentirne l'unico apparente senso una volta al governo. Hanno tutti una discreta dose progettuale di stato sociale che non vedo come potrebbero segnare una grande differenza coi progressisti. Volendo uno può tranquillamente dire che quei 25 punti fanno tanto stato sociale mussoliniano. In fondo i nostri vecchi dicevano che Mussolini aveva fatto un solo errore, quello di allearsi coi nazisti e entrare in guerra.

Qualunque sia l'esito l'egemonia dell'economia e della finanza graverà su di noi più che nel passato, anche ma non solo a causa della guerra. Eppure avremo bonus e supporti e quant'altro. Mica che non va bene, è che concentra l'attenzione sulla sopravvivenza dignitosa. Quando cioè l'accesso ai consumi alti, compresi cinema, teatro, libri, ristorante fuori porta verrà riservato a fasce precise di popolazione.

domenica 4 settembre 2022

Di grilli e di altro. I primi due metaloghi.

 metalogo numero 1

Ormai ci sono, la lunga siepe di alloro è quasi interamente ripulita. Intrecci e viluppi di rovi strappati via insieme al marciume di foglie vizze. Mi manca un ultimo scompiglio di radici, lì cinque o sei grilli si sono spaventati, in due salti sono scomparsi nella siepe.
Solo uno è rimasto su un rametto. Mi fa: "...era ora che ti decidessi eh?! Qui dentro è tutto uno schifo!"
Ho abbozzato. "...va bene ho capito. Ma adesso qual è la morale?"
"Quale morale? La morale non è roba per me, noi non sappiamo cos'è, siete voi umani a farne dalla mattina alla sera, sembra non abbiate niente di meglio da fare..."
" Sì, però adesso sei tu che stai facendo la morale e io cosa gli dico ai nipotini? che devono guardarsi dai moralisti che abbondano tra noi ma a quanto pare anche tra voi?"
Non mi ha risposto. Con un salto è scomparso dentro la siepe.


metalogo numero 2

La prima pioggia di settembre col cielo scuro cade silenziosa, la siepe di alloro luccica, dalla grondaia cade un flusso continuo sul fusto della magnolia e delle rade foglie. Insolita è l’aria più fredda.
Non mi resta molto da fare. Anche in cima alla siepe, là dove fronteggia le canne, ho già svelto le ultime radici di erbe infestanti.
«…bella carneficina eh?!» torna a dirmi il grillo ricomparso tra le foglie.
«…lo so, lo so» gli dico ‹‹…anche quelle sono vite che elimino. E’ una contraddizione che non so affrontare».
Come faccio a spiegarglielo. A tratti mi sembra una questione oziosa. Ma o prima o dopo mi tornano in mente i nipotini con la loro rigorosa propensione animalista, ecologica, ecc. Manca cosa alla mia valutazione? Oppure siamo tutti bloccati in una dimensione materiale sbagliata. Ma ho una resistenza cui non rinuncio, questa trappola non è ‘naturale’. Mi suonerebbe molto come la condanna per il biblico peccato. Come l'abbiamo realizzata, così dobbiamo poterne uscire.
Ho preso il rastrello e ho cominciato ad ammucchiare le foglie secche. Molte erano cadute da sole. Fa freddo ma piove col garbo da giardino.

sabato 16 luglio 2022

Il giardiniere dello Zibaldone (Bologna, 1826). C'è del lavoro da fare.



 Ogni volta che metto mano al roseto o alle siepi di alloro, cercando di estirpare le piante parassite,  mi torna in mente il famoso giardino di Leopardi nello Zibaldone. Lì dentro c'è un'aporia, perlopiù ignorata perché sarebbe un leggero ma significativo scostamento dalle immagini consuete che abbiamo di Leopardi dopo duecento anni che lo si legge. 

In quel giardino la guerra tra le varie specie è totale per cui la souffrance, l'infelicità, è totale. Persino il giardiniere estirpa vite, strappa via, uccide, egli infatti "...va saggiamente troncando, tagliando membra sensibili, colle unghie, col ferro". La frase chiude il passo dello Zibaldone, datato Bologna, 19 aprile 1826. Già. Quel giardiniere, apparentato per natura a tutte le altre specie in guerra mortale fra loro, in realtà è una presenza più problematica di quanto il poeta non voglia. Leopardi sorvola sul fatto che  quell'esemplare di Sapiens, a differenza delle altre specie, in quel giardino fa un lavoro, verosimilmente sotto padrone. Tronca vite per guadagnarsi la pagnotta, e qui in qualche modo può essere assomigliato alle altre specie che uccidono per sopravvivere ma fa anche qualcosa in più, lavora per rendere più gradevole il giardino. Nessun'altra specie può fare né l'una né l'altra cosa, lavorare sotto padrone, rendere gradevole il giardino. 

A prima vista sembrerebbe dunque che anche la specie umana sia inesorabilmente partecipe di quella guerra tra forti e deboli cui la natura, madre matrigna, destina ogni forma di vita. Ma il genere umano ha una chance in più. Leopardi lo sa bene. Ma qui gli premono troppo le sue premesse materialiste, vuole metterci con le spalle al muro e convincerci che l’esistenza è destinata all’infelicità. Eppure quella frase finale della sua pagina di diario è una nota di ottimismo che apre a una condizione particolare che appartiene solo al genere umano. C’è del lavoro da fare. Per rendere meno infelice per sé e per gli altri l’universo, per rendere più utile per sé e per gli altri la materia. Quello del giardiniere è il lavoro che, preservando un certo ordine nel caos distruttivo del giardino, dona a noi un attimo di sospensione dal male dilagante, ci offre un po’ di bello in godimento,  una pausa contro l’infelicità. Leopardi lo sa bene perché è quello che infatti pensa della poesia, del lavoro del poeta. “Della lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia, in versi o in prosa (ma più efficace impressione è quella de' versi), si può, e forse meglio, (anche in questi sì prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita. Essa ci rinfresca, per così dire; e ci accresce la vitalità. “(Feb. 1829, Zibaldone).

Quello a dire il vero è l’unico lavoro che Leopardi concepisce. L’altro, quello ‘utile’ in generale, quello che gli umani scambiano tra loro, lo inorridisce un po’ per quanto si sta diffondendo nella vita comune. A Firenze una volta butta giù una bozza di programma per una rivista che doveva avere come compito, oltre quello di piacere alle donne, di fare guerra all’utile. Ce l’aveva con i suoi amici liberali fiorentini che progettavano un’economia tutta basata su quell’utile che non lasciava spazio a fantasia e immaginazione

La sopravvivenza, certo. Lui sa bene, ora e già, cosa significa lavorare da salariato.  Essendo un nobile spiantato, per liberarsi dalle catene familiari e mantenersi dovette adattarsi al lavoro, cosa che fece inorridire il padre. Lavorò, di stanza perlopiù a Bologna, per l’editore milanese Stella con mansioni simili a quelle di direttore di collana. In più dava ripetizioni e traduceva. Il suo epistolario nel rigido inverno bolognese del ’26 gronda di improperi per quella vita alienata. E non era più ormai perché mancava di mezzi. Al fratello scrive che ora con quei lavori passa addirittura per ricco. E non era neanche perché ora da single doveva provvedere personalmente a tutti i bisogni quotidiani fuori com’era da tutte le cure in casa Recanati. Il problema era un altro. Si era emancipato dalla famiglia ma non scriveva un verso. Alla lunga, piegato anche dai malanni, dovette tornare a casa. A entrare nello scambio organizzato di prestazioni da lavoro entrava dentro una guerra simile a quella del giardino con quel giardiniere sullo sfondo ma senza produrre gran che di bello, solo pochi irrisolti versi. Uscirà poi definitivamente da casa proprio grazie a quegli amici fiorentini che seppero procurargli una sorta di vitalizio a Firenze con cui riuscì anche a pubblicare i Canti. 


C’è un lavoro da fare. E’questo che suggerisce quel giardiniere. Ma oltre al lavoro per rendere più gradevole il nostro infelice soggiorno in vita ce n’è anche un altro. Rendere meno infelice la nostra permanenza in vita è possibile, staccarsi dalla natura matrigna, darle scacco, schiacciarla nella sua natura prima e puntare a una seconda natura. La specie umana, conferma il poeta, a differenza delle altre, è l’unica in grado di fare ‘civiltà’, di avanzare in un vero progresso. Ma c’è un lavoro serio da fare, rinunciare alla guerra tra noi, operare al contrario per la formazione di una confederazione umana che operi per sostenere gli uni e gli altri, una ‘social catena’ che  “…tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune.” 


Sarà il messaggio del poeta al termine della sua vita, quella de "La ginestra o il fiore del deserto".



martedì 12 luglio 2022

"...pianzotto pestapevere co' l'oio de bacalà te misi la polenta per il povero soldà." Pestavano spezie e ci lacrimavano dentro in quella antica fabbrica

Dalla mia infanzia triestina del dopoguerra la memoria mi rimanda ogni tanto (i nipotini!) una filastrocca che suona così: pianzotto pestapevere co' l'oio de bacalà te misi la polenta per il povero soldà. La filastrocca ha un risvolto di classe, pestavano spezie certi operai e ci lacrimavano dentro in una nota fabbrica triestina. Certo tutti gli adulti o quasi da cui ero circondato a fine anni '40 erano operai e avranno avuto motivi cogenti per tenere alla larga mocciosi piagnucolosi. Non c'era tempo. Mio zio che lavorava nel porto, amava moltissimo il figlioletto nato da seconde nozze ma erano ceffoni se partiva col piagnucolio. Di quella infanzia la memoria mi rimanda  anche altro, soprattutto le immagini legate alla guerra. Gli strilli delle sirene, le scale scese a precipizio, i vetri in frantumi, l'oscurità del rifugio sotto casa, il fango del tunnel dove riparavamo. Da adulto, pur trascurando di chiedermi cosa avevo a che fare con polenta e baccalà per il povero soldato, ho fatto comunque un po' di conti.  Era evidente che quel rimproverare e sbeffeggiare il pianto dei bambini, non solo il mio, era una pressione educativa perché smettessero appunto di fare i bambini e si comportassero un po' di più da adulti. Bisognava lavorare. Non c'era tempo per pensare che spesso il pianto dei bambini è dovuto al loro sentirsi incapaci di rispondere alle aspettative degli adulti, di fare bene quello che vogliono ma appunto soprattutto quello che loro si aspettano, perché sappiamo anche che una gran parte dei messaggi educativi arrivano loro non dall'intervento diretto ma dai comportamenti, dai modi di fare, dai gesti spontanei.  

La mia generazione ha avuto meno bambini/e piagnucolosi/e, vuoi per un relativo benessere di massa dovuto al fatto che il lavoro non mancava come oggi, vuoi perché il conflitto generale di classe tra operai e capitale, culminato nelle lotte degli anni settanta, aveva determinato una redistribuzione più giusta dei carichi di lavoro e della ricchezza, vuoi perché il clima generale di analisi critica che investiva tutto il mondo aveva aumentato di molto le consapevolezze di tutte/i. C'era un po' più di tempo per ascoltare. E più allegria.

Dubito che bambini/e piagnucolosi/e di oggi finiranno per mescolare polenta per i soldati anche se la guerra è qui vicino. Certamente i governi non permetteranno che ciò accada. Il loro mandato semmai è quello di garantire ai benestanti per primi e ovviamente a tutti i ricchi attuali e ai loro bambini, maschi e femmine, grosso modo lo stato attuale. Aumenteranno invece, per equilibrare in stato di crisi permanente l'accesso di classe ai consumi migliori, disoccupati e/o working poors di tutti i generi i cui figlioli non avranno tempo per piagnucolare. Ad essi forse non mancheranno nemmeno i giochi luccicanti della nuova tecnologia, solo che al pari di tutte le altre necessità materiali, dal cibo ridotto a spazzatura, alla sanità e alla sicurezza rese nulle, saranno da usa e getta, al pari della loro fanciullezza.



giovedì 23 giugno 2022

La notizia del giorno

 Oggi 23 giugno, la politica generale è irrisoria e irridente, nulla nulla. La guerra durerà un bel po’, è chiaro che la preparavano da tempo. La notizia del giorno è la riunione dei BRICS in Cina, questa è politica.

L'integrazione dell'Italia nella UE (ma anche nella NATO) permette di dire che i nostri mali economici e politici sono inegralmente dovuti al sistema capitalistico (neoliberale), ma sarebbe ingenuo dire che non ci mettiamo dentro anche le nostre insufficienze culturali, politiche, economiche e morali. Per queste abbiamo un'eredità storica che risale al Medio Evo. 'Il nostro Medio Evo' ho esclamato ieri vedendo la prima parte del serial di Marco Bellocchio dedicato a Moro e BR! Vedere raffigurati con fantasia creativa molto vicina alla verità certi comportamenti dei massimi esponenti della nostra cultura politica di quegli anni è stato anche deprimente, perché mi sono chiesto se le incapacità e le paranoie ridicole di quei politici - anche religiosi perché il cilicio sanguinolente di Paolo VI è da brividi - al netto delle responsabilità attribuibili al nostro sistema economico, politico e morale non siano poi quelle che infestano tuttora le menti degli attuali. Il nostro lungo Medio Evo.

giovedì 31 marzo 2022

Noi complessisti

 

La bella scrittura di Donatella Di Cesare che aiuta a comprendere la complessità del nostro presente


https://www.ilfattoquotidiano.it/.../armiamoci-e.../6543092/


NOI COMPLESSISTI.
Oggi il mio articolo su Il Fatto quotidiano - Si dimentica spesso che la parola propaganda non vuol dire solo diffondere, ma anche consolidare, fissare. Tutto deve essere ricondotto a schieramenti e fronti, ridotto a principi e dogmi. Guai a farsi domande, esibire incertezze! Perché la propaganda perlustra, seleziona e discrimina. Tanto più se, come durante questa nuova guerra mondiale del XXI secolo, è intenzionalmente militarista.
Non è un caso che ogni discorso debba iniziare – pena l’espulsione perpetua dallo spazio pubblico – con l’autodafé ormai celebre: “c’è un aggressore e un aggredito”. Questo è il fatto oggettivo, il “ragionamento basico”, che deve essere riconosciuto coram populo. L’autodafé, meglio se pronunciato con tono contrito, è il certificato temporaneo di anti-putinismo, il lasciapassare per potersi esprimere nel mondo della libertà di parola. Questo salvacondotto, tuttavia, dura poco e basta anche solo un “perché” o un “come mai” per finire di nuovo proscritti o diventare bersaglio in vario modo del furore bellicista.
Il deteriorarsi del dibattito pubblico nelle democrazie occidentali non è un fenomeno di oggi. Lo aveva già scorto Leo Löwenthal, esponente della Scuola di Francoforte, che con acume analizzò l’America degli anni Cinquanta, dove disagio e disorientamento avrebbero aperto le porte non solo al maccartismo, ma anche all’ascesa di una destra autoritaria. Di recente questo fenomeno si è acuito al punto che si parla di “grande regressione” per indicare brutalità e rozzezza che imperversano nella sfera pubblica. La bolla di internet non ne è il motivo, ma contribuisce all’odio aperto, alle fantasie di violenza, agli insulti osceni.
La guerra – si sa – è rivelatrice. Fra l’altro ha messo in luce, ancor più della pandemia, questa regressione che mina al fondo la democrazia rischiando di cancellarla. La violenza schematica sta già nel voler stabilire l’inizio, nel fissare il principio. Meglio, poi, se è tutt’uno con il Male impenetrabile. “La violenza putiniana che viene dal cielo…”. C’è uno fuori di testa, un matto, un folle oppure – e propagandisticamente è lo stesso – un tiranno, un dittatore, che ha deciso di dirottare il corso storia umana, le sue magnifiche sorti. Guai a interrogarsi su quel principio, ad andare oltre guardando al contesto, provando a esaminare le cause. È pericoloso, anzi ambiguo e infido, già quasi un cedimento al male, un compromesso con il nemico. Mica risaliamo a chissà quando! In tutta tranquillità si può ignorare il “resto”, perché quel che conta è solo sentirsi nel giusto. C’è il male e il bene, l’autocrate e le democrazie, la repressione e la libertà. Ringrazia piuttosto di essere da questa parte, perché dall’altra saresti già in galera. E dunque taci! Smetti di fare domande fastidiose e riconosci il fatto oggettivo che in sintesi è: A ha invaso B. Punto. Altrimenti detto: il grosso ha picchiato il piccolo. E tutti non potranno fare a meno di essere con quest’ultimo.
In questa nuova concezione della storia che, alla faccia di Hegel, ben si adatta alla foga regressiva, non c’è assolutamente nulla da capire. C’è appunto solo da allinearsi nell’ordine bellico, favorito da schemi ideologici. Non vorremmo certo che la gente discuta le cause della guerra mondiale nel cuore dell’Europa, che le conosca davvero! Tutt’al più si possono buttare lì un paio di paragoni perché si senta sollevata: Putin = Hitler, combattenti ucraini = partigiani italiani, ecc. Non importa se la storia non sia quella novecentesca, se la potenza nucleare muti il significato stesso di guerra. Viva la pigrizia mentale condita di malafede. La semplificazione investe anche l’interlocutore che ha comunque torto e va perciò delegittimato a priori. Anche qui non c’è nulla da capire. Sarà tutt’al più un neneista di sinistra. Dice sciocchezze e amenità. Merita sarcasmo, scherno, se non disprezzo, astio, aggressività. Da tempo il livore anti-intellettuale non emergeva in forma così esasperata. Poi magari c’è chi rimpiange “gli intellettuali di una volta”, anche perché non sono qui a importunare.
In tutto questo non stupisce che perfino la “complessità” sia stata presa di mira e sia, anzi, assurta a stigma. Come se si trattasse di un esercizio inutile o di una confusione pretestuosa. Eppure, sappiamo che uno dei grandi pericoli oggi è, al contrario, la semplificazione, la scorciatoia (come quella complottistica) per venire a capo di un mondo difficile da interpretare. Non è più la natura a essere impenetrabile, ma è ormai la storia umana a divenire per noi sempre più enigmatica. Si è spezzato il filo della narrazione. Di qui l’ansia per il futuro che non è mai stato così incerto. La reazione, però, non può essere quella dei nostalgici di una leggibilità del passato. Mai come ora è necessario quel che la tradizione occidentale ci ha insegnato: dalla domanda di Socrate, che proprio salvaguardando la democrazia metteva in forse le certezze dei suoi concittadini, fino al sospetto di Marx, di Nietzsche, di Freud, che vuol dire meno falsa coscienza, più avvedutezza. Studio, interpretazione, giudizio sono la base della democrazia. Non servono solo gli esperti, che peraltro non sono mai neutrali. Altrimenti tutti i cittadini sarebbero deresponsabilizzati nelle scelte politiche – come l’invio di armi – che li riguardano direttamente. Occorrono invece le domande, e tanto più se sono spiazzanti, perché ci aiutano a cambiare prospettiva, a vedere quel che accade sotto una nuova angolazione trovando magari la via d’uscita dalla trappola.
Un computer è un meccanismo complicato; qualcuno l’ha progettato e aprendolo si può veder l’intreccio di parti. La storia umana è invece complessa, perché agiscono molte dimensioni. Applicare gli schemi A – B è grottesco. L’illeggibilità del mondo, di cui parlava Hans Blumenberg, è oggi sotto gli occhi di tutti. Gridare “all’armi” limitandosi a mettere l’elmetto sulla mente, come fanno alcuni, non serve davvero. Non abbiamo bisogno di paraocchi, ma di confronto aperto, dibattito critico, spazi interpretativi comuni. Questi sono i valori democratici occidentali.
Noi complessisti cerchiamo di farcene carico in questo momento grave in cui vengono richieste solo adesioni empatiche alla guerra. La libertà di pensiero è il diritto alla complessità. Anche il diritto di comprendere il male, di decostruirlo, senza per questo giustificarlo. Certo, poi riconosciamo di essere pur sempre complessisti molto imperfetti, non abbastanza vigili, non sempre capaci di capire. Ma se ci fossero più complessisti a interrogarsi sui motivi, forse un po’ delle guerre in corso avrebbero potuto essere evitate.

giovedì 17 marzo 2022

Su Guido Cavalcanti, il desiderio d'amore e la frantumazione dell'io

 


Nel 2011 su una pagina di questo blog ho pubblicato un breve saggio su Guido Cavalcanti che riprendeva l'articolo pubblicato su "Il Monte analogo" rivista di poesia e ricerca animata da Giampiero Neri. A distanza di più di dieci anni nel salotto letterario di Gabriella Galzio (che ha frequenza mensile anche in tempo di pandemia ma, per necessità, sulla rete) stimolato dalle conversazioni che lì si tengono ho trovato l'occasione giusta per rimetterci mano. Ero spinto dalla necessità di aggiornare, per così dire, lo spirito della poesia del poeta fiorentino alla luce di acquisizione tematiche più attuali. In realtà tutto era già scritto. Occorreva solo rendere maggiormente espliciti i nodi intorno ai quali quella poesia si distendeva. Il nodo principale sta in quella che ho chiamato, mutuando un termine suggerito da una pratica femminista degli anni settanta, 'autocoscienza maschile', mettendo necessariamente in rilievo che la forma di autocoscienza che Cavalcanti avrebbe a mio parere messo in fieri con i suoi versi non assomiglia del tutto a quella femminile. Ma con qualche somiglianza non banale. Basti pensare che era pratica interna al Dolce Stil Nuovo scrivere versi indirizzati a poeti amici (non ho notizia di donne nel loro cerchio), suscitare ragionamenti d'amore o d'altro, aprendo dunque a tenzoni e schieramenti, il che può in qualche modo prefigurare le numerose riunioni femministe degli anni settanta in case più o meno private.

Le conclusioni dei ragionamenti d'amore di Cavalcanti sono terribilmente attuali. Rivolto al maschio guerriero (tutti i componenti del circolo stilnovesco fiorentino, Guido e Dante compresi, erano cavalieri armati, in perenne guerra per bande tra famiglie perlopiù nobili o altoborghesi che puntavano al potere della città di Firenze con alterna fortuna) sollecita a riflettere sulla potenza devastante del desiderio d'amore che schiaccia l'individuo fino a ridurlo in stati mentali di pericolosa perdita di equilibrio interiore.

Ciò che sublima questi rischi pericolosi è la poesia.

Franco Fortini scriveva nelle ultime battute della poesia 'Traducendo Brecht':...Il temporale / è sparito con enfasi. La natura  / per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia / non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi."

Sembra che la nostra natura appunto non basta da sola ad allontanarci dalle violenze prodotte dalla perdita d'equilibrio. Occorre una seconda natura. Intelletto e passione, cuore e talento, insieme devono essere in grado di smarcarci dalla guerra. Siamo solo all'inizio del percorso.

E dunque anche la poesia può comunque servire. Per la sua ostinazione a dire. Perché la poesia non rinuncia al bello anche quando tutto ci appare insicuro e senza equilibrio. I versi di Cavalcanti risuonano con dolcezza di rime  mentre ci indica i mortali colpi dell'amore.

La nuova versione del mio articolo è in rete a questo link:

http://overleft.it/index.php?option=com_content&view=article&id=252:il-doppio-effetto-dellamore-desiderio-e-frantumazione-dellio-nella-poesia-di-guido-cavalcanti-

Ne ho parlato al salotto on line dell'11 gennaio '22 di Gabriella Galzio visibile ora su youtube a questo link:

https://www.youtube.com/watch?v=zrneZ1pf0gk


venerdì 18 febbraio 2022

Le righe qui dentro

 Scrivo di storia e di letteratura. Ho pubblicato anche alcune raccolte di versi. Ma nessuna di queste attività mi appartiene con interezza. Non foss'altro perché con nessuna di esse ci vivo. Sono espressioni libere della mia creatività per le quali spendo volentieri ore di lavoro e spese di 'produzione'. Che poi esse riescano a veicolare anche idee e bellezza questo può anche succedere, ma senza che la mia vita ne resti sconvolta. L'insegnamento è stata la mia passione più coinvolgente per durata e intensità ed è quella che mi ha dato da vivere. Quasi quarant'anni. Ho amato tutte le scuole nelle quali ho insegnato, ho amato tutti gli allievi e tutte le allieve incontrate, ho litigato con tutti i colleghi e tutte le colleghe incontrate presidi compresi. Quando la storia si è conclusa prendere distanza dal degrado definitivo in cui la scuola ha cominciato a cadere sin dagli anni '80 fino a diventare una succursale del mercato, è stata cosa salutare e giusta. Però da subito ha cominciato a mancarmi la relazione con studenti  e in fondo anche colleghi. Poesia letteratura e storia hanno colmato quella mancanza. Oggi infatti non solo non la sento più ma tutto sommato sono contento di non starci più dentro la scuola.

Il mio impegno, ma non solo il mio, ha avuto la sua acme negli anni settanta. Non c'è stato nulla di routiniere nei due decenni successivi ma quel decennio d'insegnamento nelle scuole superiori milanesi mi ha trasformato più ancora degli anni sessanta. Su questo tema che 'pretende' di coniugare storia personale e storia collettiva riprendo ora il contatto con questo blog perché di righe qui dentro è un po' che non ne scrivo al contrario dei poemetti ai quali credo di aver dato una sistemazione definitiva con i versi per Lucy.