martedì 31 marzo 2015

L'operaismo e il paesaggio che circoscrive



Scuote la mia memoria l’amico Sergio con i suoi articoli più recenti nei quali ricostruisce le vicende dell’operaismo. Mi richiama alla natura politica e culturale dell’operaismo da me vissuto negli ultimi momenti della rivista Classe Operaia, nel breve percorso di vita della rivista La classe e in quegli stessi dodici mesi dentro il neonato Potere Operaio di cui lui parla.
La permanenza in P.O. dopo quei dodici mesi, come per lui, divenne anche per me insostenibile perché al suo interno la pratica di quel lavoro politico che si era concretizzato soprattutto con La classe, nonostante il suo breve periodo di vita, era ormai considerata superata da molti. Anche per me P.O. era già sin dall’inizio (autunno ’69) quella riproduzione di un modello di partito bolscevico fuori tempo come lo definisce Sergio, ma
finché ci sono rimasto ho continuato in pratica a interpretare il mio impegno dentro il gruppo allo
La riedizione della rivista
Primo Maggio
(1973-1988) fondata da
Sergio Bologna
stesso modo dell’inizio della mia esperienza con l’operaismo. Ancora oggi, dopo più di quarant’anni, considero fondamentale per la mia formazione politica ma anche culturale quell’esperienza nella quale ebbe importanza preponderante Sergio (insieme a pochi altri, l’amico Ferruccio in testa) del quale ero in qualche modo un allievo. E continuo a considerare che, nonostante le trasformazioni avvenute nel lavoro, quel tipo di riflessione e di pratica politica siano un’ipotesi di lavoro degna della massima attenzione ancora oggi nella confusione generale, quella reale e quella indotta dai poteri forti e i loro serventi.
A monte di tutto c’erano per me due premesse, due veri e propri assiomi di matrice marxiana (che diventarono teoria e pratica militante soprattutto dentro la rivista Primo Maggio). Il primo era quello di interrogare con i metodi più idonei (dall’intervista al contatto quotidiano) il movimento reale di classe per capirne composizione e tendenze. Si trattava di un lavoro che richiedeva umiltà e pazienza perché la classe operaia era in realtà un universo molto più complesso di quanto non volesse una certa retorica gruppettara. Il secondo era quello di fare da ponte, da tramite, da collegamento interno alla classe stessa ed esterno (i tecnici, gli studenti...) un tipo di attività che non era né quello delle sezioni di partito né quello della sezione sindacale: occorreva avere la pancia e la testa sgombre da rigidità ideologiche e burocratiche. Certo è che ne veniva fuori un tipo di intellettuale piuttosto originale, anche un po’ sartriano, prossimo ma comunque non identificabile con il leninismo. Non identificabile con il leninismo, almeno per quanto riguarda me ma non solo, soprattutto perché nonostante non fossi estraneo alle suggestioni del clima rivoluzionario ( e come era possibile? In quegli anni dal 68 in avanti ma anche da prima qualsiasi azione un po’ trasgressiva era considerata e vissuta come rivoluzionaria!), non pensavo che ci fossero neanche lontanamente le condizioni per una rivoluzione alla maniera francese o soviettista. Perché è vero che l’operaio massa
di Mirafiori e della Pirelli erano arrabbiati e generosamente pronti ad una lotta che rompeva gli schemi e gli obiettivi dei partiti di sinistra e dei sindacati, ma è anche vero che in quelle grandi fabbriche le resistenze degli anziani erano molto forti. Non solo. Nella cintura delle piccole e medie fabbriche lombarde venivamo in contatto con una classe operaia che ci accoglieva e ci dava ascolto ma che non aveva nessuna intenzione di bruciarla la fabbrica. Credevo invece che le lotte operaie potevano inceppare i meccanismi di riproduzione del profitto, dello sfruttamento del lavoro, dell’estrazione di plusvalore dal lavoro. Una dimensione di fatto antagonista al sistema perché ogni piccola conquista sul posto di lavoro che intaccasse la parte variabile del salario e diventasse parte fissa non era da leggere esclusivamente come conquista sindacale. Era la conquista di un comando sul lavoro che obbligava a patteggiare. Anzitutto provocava una frattura interna alla classe perché gli operai più anziani legati al posto di lavoro del quale conoscevano tutto, legati a una sorta di professionalità che li rendeva una specie di aristocrazia fortemente legata al PCI, mal sopportavano che le lotte intraprendenti dell’operaio massa finissero col garantirgli aumenti e concessioni che loro avevano sudato le sette camicie per ottenere. C’era da capirli. Il fatto era che l’operaio degli anni sessanta era molto più di loro alienato dalla divisione del lavoro avvenuta nelle grandi fabbriche sulla catena di montaggio dove la parcellizzazione costringeva a pochi gesti ripetuti all’infinito per ore e ore. Peraltro questa bassa professionalità non impediva ai giovani di riconoscersi, nel dopoguerra del boom economico, produttori di ricchezza e portatori di una soggettività politica e culturale rabbiosamente insofferente del dispotismo autoritario presente nelle aziende, negli uffici, in tutte le strutture politiche e culturali compresa ovviamente la scuola dove gli studenti erano impegnati nel medesimo conflitto.
L’operaismo è stato per me, e tuttora, un’indicazione di metodo e di percorso di democrazia reale che allora confinava con la tradizione dei partiti di sinistra senza esaurirsi lì. In questo senso è stato anche una sorta di browser, di navigatore per connessioni di natura letteraria sulle quali sono anche nate negli anni novanta iniziative in Calusca con l’amico Primo. Del resto il paesaggio che l’operaismo circoscrive è proprio quello che sto attraversando anche con l’attuale produzione di versi.



Nuovo evento e sito nuovo della casa editrice Stampa2009

Incontri con l'Autore

Palazzo Sormani – Milano

Mercoledì 8 Aprile, ore 18.00


Marco Borroni
Maurizio Cucchi

presentano

la Collana
e i quaderni de la Collana

Edizioni Stampa 2009


Intervengono:

Cristina Annino
Michele Hide
Cesare Imbriani
Lucrezia Lerro
Valeria Poggi
Paolo Rabissi
Mario Santagostini
Mary Barbara Tolusso

Sala del Grechetto
Palazzo Sormani
via Francesco Sforza 7
Milano


il sito della casa editrice è:  www.stampa2009.it

martedì 24 marzo 2015

La mutazione avveniva per strada



dico tutto l’insieme dei tuoi eccessi, delle tue esagerazioni,
quel tuo portarti ai margini, l’inconsapevole urto
con gli oggetti che lascia lividi, quel denunciare i patti
appena trascritti in uno svariare di stagione…
non è così che si fa ordine nella rivoluzione.
Si dice l’ora dell’avvento, il giorno prefissato,
li si scrive sui muri, ad esempio: domani alle 10.
Trovi che sia tutto un po’ démodé? Ma gli artiglieri
non  sparavano a salve né a Parigi nel ’70, né a Pietrogrado
nel 1917. Qui si distendono tavoli per le strade
si offrono latte e pane, si fa insomma colazione
e se pensi che sia solo per sfamare non hai capito niente.  
La fede rompe gli indugi e dà ragione, un movimento
semplice che mima l’abbraccio ed esplode sul nulla.
Lo scandalo non c’è, i rilievi dei monti sono innevati
solo d’inverno e il sangue invece scorre copioso
di stagione in stagione senza legami con la natura,
non ne ha mai avuti. L’estensione tecnologica degli arti
è esercizio nostro, gli aceri o gli orsi non fanno né ghigliottine
né trattori, né computer né cannoni. Insegnano
semmai la pazienza.

martedì 17 marzo 2015

Il movimento dei versi

Il movimento dei versi
La questione della poesia epica nella contemporaneità, di cui si discute soprattutto qui, nasce, per quanto mi riguarda, dal poemetto scritto dentro questo blog - Inverno a Colonia - che si caratterizza diversamente dal tipo di versi delle mie raccolte precedenti, da Città alta a La ruggine, il sale a I contorni delle cose. Ma al di là di questo, il silenzio della scrittura che è seguita al poemetto, si sta risolvendo solo oggi, dopo quasi due anni, nel momento in cui cioè mi rendo conto che il linguaggio e i temi di fondo del poemetto li avverto ormai come definitivi dato che si sono ripresentati non appena ho individuato uno schema di scrittura possibile.
La spinta a riprendere la scrittura credo abbia la sua origine proprio nel tentativo di definizione della
Slava Polumin,  2012
poesia epica, tuttora lontana da una conclusione ma che ha aperto la consapevolezza che certi temi che nel poemetto sono presenti ma che vorrei amplificare, difficilmente possono rientrare nella poesia lirica. Il tema del Lavoro ad esempio, così come si è configurato nella seconda metà del '900 alla quale appartengo, unito a quello del clima rivoluzionario che ho vissuto, peraltro in un'età prossima alla maturità, dentro le lotte studentesche e operaie, dopo aver vissuto lunghe esperienze di lavoro di diversa natura e responsabilità. L'anno in Germania descritto in Inverno a Colonia infatti era stato preceduto da più di un anno di impiegato contabile in una grande   azienda milanese che aveva sede nella Torre Velasca.
Basta mettere insieme questi due temi, il Lavoro con tutte le sue implicazioni e l'orizzonte rivoluzionario della fine degli anni sessanta, per farmi sentire su un altro pianeta rispetto alle mie precedenti scritture poetiche che, a torto o a ragione, non potevano che rientrare dentro un filone di poesia lirica. Direi anche a causa del fatto che qui da noi chi scrive in versi è automaticamente arruolato nella poesia lirica, anche se a dire il vero pochi ormai si preoccupano di dare definizioni di cui tutti hanno paura ma che tutti poi cercano di dare inventandosi un nuovo canone ad ogni stagione.
Il fatto è che da quando lavoro alla messa a fuoco di una poesia epica nuova vado scoprendo autori ai quali mi sento affine, nonostante si tratti perlopiù di autori più giovani, che trattano temi partendo dalle loro esperienze di lavoro e di relazione con la Storia. Di questi autori ho dato ragione, insieme a Franco Romanò, nella rassegna di Poesia e Storia tenuta nell'autunno scorso alla libreria Franco Angeli in Bicocca  a Milano e nel blog diepicanuova citato all'inizio. Dato che per me è inevitabile anche una coscienza critica di quanto vivo e faccio non posso non tentare di definire in maniera meno indistinta la direzione dei miei stessi versi, per questo mi interrogo appunto sulla poesia epica, a patto di comprendere sin dall'inizio che il termine va sganciato quasi del tutto dai significati che la tradizione gli affida. Per questo per ora la chiamiamo epicanuova, di cui parlo anche nel numero nuovo di Overleft in uscita oggi stesso sulla rete qui.
In ogni caso, epica nuova o meno, la ripresa della mia scrittura in versi passa in questo momento attraverso la rivisitazione di quel momento particolare che fu per me nel 1977 a Bologna il convegno dei movimenti rivoluzionari.

Quel giorno era nell’aria la mutazione tra le torri
e gl’impiantiti di cotto terra di Siena bruciata
(dolce di memorie da Duccio al triste Federico)
cortei fanciulli, innamorati della strada,
di complesse narrazioni tra eros morte e galassie
lontane, quel giorno lo scontro tra fazioni divise
svelava controdipendenze, a respingere indietro
il passato la strada finiva nel baratro comune.

Perché quel giorno nel chiuso di muri, nella platea
divisa, lo scontro furente e uno intonava un canto
di unità che sembrava sotterrare un secolo intero?
Diceva Roberto al mio fianco ‘…che dire,
cambiare il segno alla Storia per loro è solo
sostituire al potere una classe con un’altra?’
Gli dissi che mio zio, specializzato con capolavoro
(cinquanta saldature su un dado di ferro)
dava la vita a Monfalcone, stava coi moderati
spaventato com’era dalla guerra.
Ma la paura centrava i nostri cuori, chi dominava
spiriti militanti non temeva la repressione, la sfidava,
com’era nelle carte e nella tradizione.

Ma quel giorno lo scontro svelava per strada di più,
laboratorio di sguardo sul futuro,
chi sopravanzava l’urlio del presente accennava un
passo di danza mai vista sul selciato tra rossi mattoni,
vedevi uomini e donne farsi cenni d’intesa e scatenare
poi risse autogestite, uno scenario angolare, cuspidato
non senza lacrime non senza abbracci.

... ah ora dici che il tempo di morire era antico,
che l’ansia di morte accompagnava i nostri giorni
già allora, quando era ora del pasto e della cialledda,
sgocciolavamo l’olio sul pane impomodorato da prima,
già moribonda l’ora della pesca, tra rocce limate.
Visibile rendiconto della storia della Magna Grecia
oggi assillata dai debiti, ma indiscutibile assaggio della sua
potenza, dato che dalle colonne d’Ercole fino al Bosforo
la cialledda è pasto da Dei, quando l’aggiunta è l’aglio
con l’origano selvatico.
Cosa credi che mangiavano i compagni di gioco del Sud
alla  catena di montaggio del Nord negli anni sessanta?
Quella che vorrebbero mangiare oggi i reduci di Siria
Libia ed Egitto, pane, olio, origano, aglio.